lunedì 25 febbraio 2008
FRANCIA/ STUPRO E TORTURE: 10 ANNI AL CALCIATORE NIGERIANO OKPARA
Roma, 23 feb. (Apcom) - Il calciatore nigeriano Godwin Okpara è stato condannato a 10 anni di carcere per stupro, tortura e riduzione in schiavitù della figlia adottiva. Una corte francese ha condannato a 15 anni di prigione anche la moglie Linda. Gli abusi contestati risalgono al periodo in cui l'ex difensore del Paris St. Germain e dello Strasburgo risiedeva a Chatou, a ovest di Parigi.
Stando a quanto riportato dalla Bbc, Okpara, 35 anni, ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali con la figlia adottiva in una sola occasione, nel 2005, affermando di essere stato istigato. La ragazza era allora tredicenne. La vittima ha quindi raccontato gli abusi subiti dalla moglie Linda, che aveva scoperto il rapporto tra i due. La ragazza non veniva mandata a scuola ed era costretta a fare i lavori di casa.
venerdì 22 febbraio 2008
La manager Usa che rischia la vita per un caffè in Arabia
Da Starbucks col collega: arrestata
Ci risiamo: iper-conservatori sauditi (sempre più forti) contro riformatori (ogni giorno più deboli). Ma anche Riad contro Gedda. Ovvero: la dura regione del Najd, terra di Islam wahhabita e codici beduini, contro il dolce e (relativamente) liberale Hijàz, da sempre cosmopolita per commerci e pellegrinaggi. In mezzo — come spesso avviene — una donna, che vive barricata in casa da giorni e ora teme perfino per la propria vita. Yara (il cognome è meglio non diffonderlo), 37 anni, partner di una società finanziaria, madre di tre figli, doppia nazionalità americana (nata in Libia da genitori giordani, è cresciuta in Utah) e saudita (come il marito, di Gedda appunto, dove vive la famiglia). Che il 4 febbraio è stata incarcerata a Riad per khulwa, promiscuità: insieme a un collega siriano era stata «sorpresa » in pieno giorno (ma loro certo non si nascondevano) in un moderno e trendy caffè Starbucks della capitale. Seduti a parlare di lavoro nel «settore famiglie », dove ristoranti e caffè relegano le donne e i gruppi misti, legali se composti da consanguinei o coniugati.
Yara, abituata agli Stati Uniti prima e a Gedda poi, non ci ha pensato molto ad entrare con il collega in quel caffè al pian terreno del loro ufficio, dov’era saltata l’elettricità e non poteva usare il laptop. Portava la regolare abaiya (il soprabitone nero) e lo hijab (il velo in testa). Non aveva intenzioni trasgressive. Ma una telefonata anonima alla «Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio», leggi la polizia religiosa o mutawwa (come è chiamata con un certo disprezzo nel Regno), ha dato il via all’ennesimo dramma saudita. Un uomo con barba e tunica corta (segni di «ascetismo»), che non ha voluto identificarsi, ha intimato al siriano di uscire (poi è stato arrestato), a Yara di firmare l’ammissione del suo peccato-reato. Rifiutatasi (la donna non sa leggere l’arabo, tra l’altro), è stata trascinata in un taxi, privata di borsa e cellulare (per impedirle di avvisare il marito), consegnata alla centrale mutawwa (e non alla polizia normale come avrebbe dovuto per legge).
Ha dovuto subire la filippica di uno shaikh («finirai bruciata all’inferno»), firmare la confessione. Con l’impronta digitale, come si addice alle donne secondo i mutawwa. Che non contenti l’hanno spedita al carcere di Malaz: spogliata, perquisita, maltrattata, trattenuta per sei ore e liberata solo per l’intervento del marito Hatim, precipitatosi a Riad per salvarla. «Una storia terribile, uno dei tanti abusi commessi dalla polizia religiosa che è protetta dall’alto e spadroneggia soprattutto a Riad», dice al Corriere Khalid Al Maeena, direttore del quotidiano Arab News di Gedda, l’unico che sta seguendo il caso di Yara giorno per giorno, con relativa libertà di critica anche perché in inglese. I quotidiani arabi ne hanno parlato meno, è vero. Ma questo non ha evitato una denuncia della Commissione contro gli editorialisti Abdullah Al Alami di Al Watan e Abdullah Abou Alsamh di Okaz: il primo per aver definito il caso di Yara un «rapimento»; il secondo per aver messo in dubbio l’interpretazione di khulwa data dai mutawwa.
Dopo le critiche di media, organismi per i diritti umani, Onu e molti intellettuali, la Commissione è infatti passata al contrattacco. Due giorni fa ha smentito la ricostruzione dei fatti pubblicata da Arab News con le parole della protagonista. «È una peccatrice e ha infranto la legge: lavorare insieme è haram, proibito, per donne e uomini non parenti», ha ribadito la polizia «morale», che conta 10 mila effettivi uomini e donne, è guidata da una sorta di ministro e fa capo al Re. E che è stata recentemente implicata in due omicidi, nonché in una serie di casi al di fuori di ogni rispetto dei diritti umani (una povera donna analfabeta, ad esempio, è stata condannata a morte per «stregoneria»). Yara, intanto, ha deciso di tacere. Giura che non rimetterà più piede a Riad. Pensa di tornarsene in America. «Temiamo per le nostre vite, e ulteriori persecuzioni — dice il marito —. Adesso molti sauditi sono furiosi e usano la storia di Yara per dire "basta con questa gente, con i mutawwa". Ma che abbiano ragione o no, noi non vogliamo trovarci nel mezzo».
Cecilia Zecchinelli
21 febbraio 2008(ultima modifica: 22 febbraio 2008)
Fonte: Corriere.it
Uccide la moglie in mezzo alla strada. Arrestato imprenditore campano
I rapporti tra i due deteriorati da tempo. L'uomo è stato arrestato
Uccide la moglie in mezzo alla strada
Arrestato imprenditore campano
Il luogo del delitto
NAPOLI - Uxoricidio in una strada di Gricignano d'Aversa, un comune del Casertano. Angelo Di Ronza, un imprenditore edile di 36 anni, ha ucciso con sei colpi di arma da fuoco la moglie, la trentenne Mariarosa Nugnes. Il fatto è avvenuto poco dopo le 14 in via Enrico Fermi, alla presenza di numerosi testimoni. L'uomo, che era fuggito a bordo di un fuoristrada, è stato rintracciato e fermato dai carabinieri di Aversa circa mezz'ora dopo. Ha confessato il delitto ed è stato accusato di omicidio premeditato.
Secondo i militari Di Ronza ha teso un vero e proprio agguato alla moglie affrontandola e sparandole con la pistola. I rapporti tra i due coniugi si erano da tempo deteriorati al punto che erano prossimi alla separazione pur vivendo ancora assieme. Le testimonianze raccolte indicano marito e moglie come provenienti da un ambiente familiare 'normale'.
Di Ronza, che era tornato a lavorare con la sua impresa nell'agro aversano dopo un periodo passato in provincia di Venezia, non aveva il porto d'armi e solo di recente aveva acquistato l'arma del delitto, una calibro 9 parabellum. Ha sparato alla moglie da distanza ravvicinata, raggiungendola alla schiena, agli avambracci e alle gambe.
(21 febbraio 2008)
Fonte:repubblica.it
giovedì 21 febbraio 2008
Sacrario erotico
di Lea Melandri
“L’identificazione non con il bambino (persona distinta dalla madre) ma con il feto (parte indifferenziata della madre) è alla base degli interventi ‘per la vita’ del papa, un’identificazione che cancella la vita della madre spostandola dalla persona reale a quella virtuale: è la vita del feto, parte nobile della madre, a decretare la vita o la morte di lei…la donna muore e il figlio è la sua rinascita, la sua resurrezione”.
La contrapposizione violenta fra vita della madre e vita del feto da parte della Chiesa cattolica - scrive Luisa Accati nel suo libro Il mostro e la bella (Raffaello Cortina Editore 1998)- cresce dalla fine del ‘500, dal Concilio di Trento a oggi, dal momento in cui avviene “il passaggio all’autorità ecclesiastica, cioè a un gruppo per norma costituito da uomini e solo da uomini celibi, del controllo sulle donne, per quanto riguarda sia il matrimonio sia la morale sessuale”.
Con la vittoria dei figli sui padri, la Vergine Madre diventa il simbolo del divieto di incesto per gli uomini: “Vergine Madre significa che la madre rimane sempre vergine per il figlio, cioè sempre inaccessibile sessualmente. Il simbolico in tanto è politicamente efficace in quanto converte la difficoltà degli uomini a separarsi dalla madre in una contraddizione della identità delle donne: fa di un problema degli uomini un compito delle donne”.
La coppia madre-figlio, su cui si può ipotizzare si siano costruite le figure della dualità -femminile/maschile, biologia/storia, corpo/mente, ecc.-, nonostante i cambiamenti che ha subito nel corso del tempo e ad opera di culture diverse, conserva i segni di un amore che si è configurato fin dall’origine indisgiungibile da un atto di guerra: il ‘desiderio primordiale’ del figlio di tornare a fondersi col corpo della madre si è convertito storicamente nel dominio dei padri, nell’imposizione di un modello unico di sessualità, penetrativo e generativo, impugnato come un’arma in difesa dell’identità maschile.
Il luogo da cui si origina la vita è diventato teatro della più feroce e più duratura legge di sopravvivenza -morte tua, vita mia-, anche se non sempre la nascita del figlio ha comportato la morte fisica della madre, ma quella morte di sé che è il sacrificio del proprio desiderio, dei propri interessi, della propria esistenza come persona.
L’onnipotenza attribuita alla madre, come corpo che genera da sé e che può riprendersi in ogni momento la parte che si è da lei separata, ha il suo corrispettivo in quella del figlio che, capovolte le parti, torna da adulto a celebrare la ‘vittoria sul trauma della nascita’, occupando una terra che considera propria, carne della sua carne.
La fecondazione diventa allora il traguardo essenziale della sessualità maschile, prova visibile del potere generativo dell’uomo e conferma della sua potenza virile. Se i contadini del mio paese –come di tutti i paesi del mondo- si vantavano al bar di aver messo incinta le loro mogli, Sàndor Ferenczi, uno dei più interessanti allievi di Freud, nel saggio Thalassa (1924), introduce suggestivi scenari marini per attribuire al coito la certezza dell’uscita da pericolose acque materne:
“Quando l’unione più intima tra due esseri umani di sesso diverso si è realizzata grazie alla costruzione di un ponte fatto di baci, abbracci e penetrazione del pene, allora si combatte la lotta finale e decisiva fra il desiderio di donare e di conservare la secrezione genitale…Allorché, con l’eiaculazione la lotta finisce, la secrezione si separa dal corpo dell’uomo, ma in modo tale che questa secrezione si trova messa la riparo in un luogo sicuro e appropriato, all’interno del corpo femminile. Tuttavia, questa sollecitudine ci induce a supporre che vi sia anche un processo di identificazione tra la secrezione e l’Io: in tal senso il coito potrebbe fin d’ora implicare un triplice processo identificatorio: identificazione dell’intero organismo con l’organo genitale, identificazione con il partner e identificazione con la secrezione genitale…tutta questa evoluzione, comprendente quindi anche il coito, non può avere altro scopo se non un tentativo dell’Io di tornare all’interno del corpo materno, situazione nella quale la frattura così dolorosa tra l’Io e il mondo ancora non esisteva…Nell’atto sessuale non si tratta semplicemente di deporre in luogo sicuro il prodotto della secrezione, ma anche dell’instaurarsi di uno stretto rapporto tra questo atto e la fecondazione.”
Abituati come ormai siamo, dalle tecnologie riproduttive, a parlare di spermatozoi e ovociti, gameti e embrioni, come fossero persone, la “favola filogenetica” di Ferenczi, che vede nel “membro virile” un “piccolo Io in formato ridotto”, spinto dalla nostalgia a tornare alla sua dimora originaria, e a riattraversarla per essere sicuro della propria nascita, non può che fare tenerezza. Rispetto all’ “immacolata concezione” del culto cattolico di Maria e all’ “immacolata fecondazione” dei laboratori scientifici, dove il desiderio e la sessualità scompaiono persino dalla memoria, il corpo a corpo tra l’uomo e la donna qui è ancora al centro della nascita, prima di sparire dietro l’abbraccio fusionale, desiderato e temuto, della madre e del figlio. Non sfugge a Ferenczi l’aspetto “cruento” del coito: la lotta di due avversari che tentano di “forzare l’accesso al corpo dell’altro”, le armi che garantiscono il privilegio maschile, le compensazioni dietro cui la donna nasconde la sua sconfitta.
“Noi supponiamo che sia la regressione ipnotica alla situazione intrauterina a stordire la femmina al momento della conquista, e che la riproduzione fantasmatica di questa situazione ottimale le fornisca una compensazione per essere costretta a subire l’atto sessuale che, in sé, è per lei fonte di pena”. Difficile trovare una definizione più realistica della vicenda che ancora oggi unisce e contrappone un sesso all’altro -“una grandiosa lotta il cui esito doveva decidere su quale dei due dovessero ricadere le cure e le sofferenze della maternità, nonché il ruolo passivo della genialità”-, e delle sue conseguenze psicologiche -“la donna possiede una saggezza e una bontà innate superiori a quelle dell’uomo, in compenso l’uomo deve contenere la propria brutalità sviluppando maggiormente l’intelligenza e il super-Io morale”.
La campagna contro l’aborto e il fronte opposto, schierato alla difesa delle leggi che in vari Paesi del mondo ne garantiscono la praticabilità, hanno quasi sempre in comune, oltre al rituale ossessivo della ripetizione, la tendenza a farne una “questione femminile”, sia che la vedano come colpa, dramma, o autodeterminazione, libertà di scelta della donna. Gli uomini, nella veste di accusanti o di difensori solidali, possono parlarne con la distanza di chi non è parte in causa, con la premura o la violenza di chi sa di avere a che fare con la ‘risorsa’ più preziosa per la continuità della specie.
Mi stupisco sempre, dopo oltre trenta anni di femminismo, che si possa parlare di gravidanze, desiderate o indesiderate, senza risalire a quell’antecedente che è la sessualità. Eppure sono tante le ragioni che spingono verso questa ‘cesura’, a partire dalla forza con cui il movimento delle donne ha attaccato l’identificazione della donna con la madre, per arrivare all’effetto di cancellazione operato dalle tecnologie riproduttive, al lento spostamento della nascita fuori dal corpo della donna, fuori da corpi pensanti e desideranti, sedimento di storie individuali e collettive.
La ‘naturalizzazione’ del rapporto tra i sessi affiora oggi vistosamente sulla scena pubblica come riduzionismo biologico, e trova al suo fianco l’alleato di sempre: la religione. Ma, insieme al fondamento ideologico di un dominio divenuto ‘senso comune’, struttura portante e indiscussa di tutte le civiltà costruite dall’uomo, si va facendo strada anche la consapevolezza della centralità che ha avuto finora la coppia madre-figlio nello sviluppo della storia umana.
Non è un caso che sia una “religione del Figlio”, la Chiesa cattolica romana memore del Concilio di Trento, a reagire con particolare virulenza alla rottura di un ‘ordine naturale e divino’ fondato sul sacrifico materno, oggi incrinato dalla secolarizzazione dei costumi e, soprattutto, dall’affermarsi di una soggettività femminile meno vincolata al destino che le è stato imposto. Nel progressivo eclissarsi delle due figure genitoriali, sempre meno necessarie nella fase iniziale del processo riproduttivo, e della madre stessa per il progredire delle tecniche di rianimazione di feti prematuri, è il prete ad assumere su di sé la figure della madre e del figlio nascituro, a farsi paladino di una idea di ‘Vita’ che ha perso ogni consistenza corporea e sessuale.
L’ “immaginario sacro cristiano” - come nota Luisa Accati- non ammette l’Eros, anzi rappresenta la fertilità come una madre casta”, ma la mariologia è “carica di fantasmi incestuosi”, che oggi, per arginare il ‘libertinismo’ sessuale delle donne, trascolorano nella fredda, necrofila sacralizzazione di feti e embrioni. Nell’affannosa corsa per portare il figlio in salvo dal risorto ‘potere di vita e di morte’ delle madri, la schiera degli ecclesiastici si è sorprendentemente arricchita di “atei devoti”, di “comunisti creaturali”, di politici ‘realisticamente’ decisi a cercare consenso a qualunque costo.
Spirito di crociata e pragmatismo cinico contribuiscono a spingere il sacro verso le sue più arcaiche parentele con la magia, il sensazionalismo, l’orrido e lo stupefacente, che la televisione ha oggi il potere di amplificare, contaminare e diffondere a dismisura. Ne abbiamo avuto un saggio nella diretta di Porta a Porta su Lourdes, altre manifestazioni si annunciano con l’esposizione di reliquie di santi e con la riesumazione del cadavere di Padre Pio. L’ambiguità del sacro -“lordura e santità”, “puro e impuro”- è oggi più che mai scoperta, mentre sembra scomparire la materia prima del “perturbante”: il corpo femminile, la sua fantasmatica onnipotenza generativa e sessuale.
Per ritrovarla, basta scostarsi dal circo mediatico che occupa la scena pubblica e scavare nei luoghi che ancora conservano traccia di un sentire profondo, lucido nella sua visionarietà, veritiero nella sua spudoratezza, trasgressivo e, al medesimo tempo, quasi banale nella sua fedeltà a ‘sensi’ comuni.
In una insolita ‘scrittura di esperienza’ -Arnaldo Bressan, Esercizi laterali di piacere (edizioni del leone 1993)- il legame tra sessualità e fecondazione svela l’immaginario che lo sorregge, il desiderio incestuoso che impronta la vita sessuale adulta, piegando la relazione tra uomini e donne verso quel primo corpo a corpo che formano insieme la madre e il figlio.
“Solo nell’eventualità o nel rischio dell’impregnanza il piacere è obbligato alla propria profondità, intensità e luce…La capisco. Infine, rischia lei sola: il ventre ‘occupato’ per nove mesi, il, parto, le conseguenze. Ma soltanto se considera la gravidanza un peso, dolore il parto e la maternità una schiavitù: se non esce dal banale e dal kitsch e non li sente come passaggi di piacere simili a quelli che dall’alba la conducono, fatalmente, al mezzogiorno di sé.”
“Lo si chiami neotenia, simbiosi, istinto, bisogno, amore materno, piacere: lei riepiloga in esso l’evoluzione e la storia, nostra e di ogni altra specie; e soltanto in questo senso di onnipotenza si svela l’irrefrenabile mistero per cui sulla Terra, ogni anno, centinaia di milioni di donne partoriscono dove le condizioni per farlo sono più proibitive; e che da noi ci siano donne che letteralmente impazziscono pur di avere un figlio.”
“Partorire, sì. Ma allattare, Francisca: inturgidirsi, ergersi, penetrare!...sentirsi venir meno di languore nel salire ed eiacularsi del suo latte: denso e lento, o chiaro e sottile, seme amoroso tra verginali labbra cieche e fameliche, contro una gola che esige da lei -con unghie convulse e schiumose gengive- il solo rapporto incestuoso e omosessuale considerato naturale, consentito da tutti e glorificato da millenni (anche se le Madonne che allattano, sicuramente per il loro aspetto troppo conturbante, sono assai meno frequenti di quelle in stato di frigida quiete rispetto al Bambino).”
La “carne più bramata”, quella di cui ogni essere umano conserva memoria e “privati simboli corporei”, è la stessa che incontra nella sua vita sessuale adulta, cristallizzata nel ruolo che le ha assegnato un ‘ordine’ senza tempo: genere, entità collettiva senza volto, “centro” di quella “vasta cattedrale” che è l’infanzia -per usare una suggestiva immagine di Virginia Woolf-, ma anche linea continua di una dipendenza filiale che finisce quasi sempre solo con la morte.
Combattere solo con le armi della razionalità la feroce, impietosa misoginia che anima la “crociata” dei “figli celibi” e dei loro adepti, non servirà a molto, se non si comincia a scalfire l’immaginario con cui raccoglie consenso, ma soprattutto se non si mette in discussione il dominio che l’uomo gli ha costruito sopra.
questo articolo è apparso nell'inserto domenicale di Liberazione del 17 febbraio 2008
con il titolo Il segreto dei feticisti: concupiscono la madre
A Imola una donna uccide la figlia handicappata e poi tenta il suicidio
Ha lasciato un biglietto, dove ha scritto che non ce la faceva più a sopportare
dispiaceri e una vita di sofferenze, chiedendo di essere seppellita con lei. Un gesto di dolore estremo si legge in quel messaggio lasciato da Rosa Turrini, la donna di 49 anni che ha ucciso a coltellate e colpi di mattarello la figlia Micaela Lelli, di 23 anni, sofferente di un grave handicap psichico. Dopo l'omicidio la donna ha tentato di uccidersi, tagliandosi le vene nella loro casa di Sassoleone, nell'appennino imolese.
Le disperate parole della madre omicida sono state riconosciute nella grafia dall'altra figlia, la primogenita, dopo la scoperta del padre. La coppia gestisce un agriturismo a Sassoleone, frazione di Casalfiumanese e l'uomo, non vedendo arrivare la coniuge, è tornato a casa, trovando la figlia morta sul pavimento della camera da letto e la moglie sdraiata sul letto con un braccio squarciato da diversi colpi di un coltello da pane.
Secondo quanto si è potuto capire dagli amici di famiglia e dalla stessa sorella della donna, si tratta di un epilogo imprevedibile di una storia nota di sofferenza. Nota perché le condizioni della giovane erano molto gravi e visibili,
imprevedibile perché Rosa Turrini "viveva per la figlia, viveva per lei, era la sua ragione di vita". Ma in quel biglietto una madre distrutta avrebbe scritto che proprio non ce la faceva più: "Basta con questa vita di sofferenze". E ha posto fine a quella di Micaela, tentando di stroncare anche la propria.
Fonte: rainews24.it
mercoledì 20 febbraio 2008
Ventenne cinese grave dopo aborto clandestino
La giovane avrebbe fornito più versioni: di aver provocato da sola l'interruzione di gravidanza utilizzando arnesi da cucina ma anche di essere caduta. Per i sanitari l'aborto sarebbe stato procurato da terzi e la polizia sta cercando di accertare se e chi. In base ai primi accertamenti medici, la cinese, che non è sposata, avrebbe abortito al quarto-quinto mese. Il feto non è stato trovato, ma la durata della gravidanza emergerebbe da alcune tracce riscontrate durante l'intervento chirurgico. In attesa di poter interrogare la ventenne - dopo l'intervento è stata ricoverata nel reparto di chirurgia con riserva di prognosi, che non potrà essere sciolta prima di almeno 48 ore - la squadra mobile, coordinata dal pm fiorentino Giuseppe Nicolosi, sta ascoltando amici e parenti.
Quello che gli investigatori vogliono appurare è dove e come la giovane abbia abortito, se davvero da sola o aiutata da qualcuno. Il fenomeno degli ambulatori clandestini non è sconosciuto alla realtà di Firenze e della vicina Prato, città, quest'ultima, con una fra le comunità cinesi più imponenti d'Italia. Negli anni scorsi le forze dell'ordine hanno scoperto, fra Prato e Firenze, diverse strutture illegali, spesso all'interno di fabbriche gestite da cinesi. In alcuni di queste sono stati trovati anche strumenti utili agli aborti. Nel 2006, a Prato è stata condannata una cinese accusata di esercizio abusivo della professione: il suo ambulatorio era attrezzato anche per interruzioni di gravidanza. Don Giovanni Momigli, parroco fiorentino e presidente della Fondazione Spazio Reale, che ben conosce la comunità immigrata dalla Cina, spiega che "alle strutture clandestine si rivolgono soprattutto i cinesi arrivati di recente. Altrimenti, c'é la tendenza a farsi assistere dal servizio sanitario italiano. Quelli arrivati da poco tendono a mantenere un rapporto di fiducia preferenziale con esponenti della propria comunità". "Fra i cinesi - aggiunge l'assessore fiorentino all'integrazione, Lucia De Siervo - c'é una certa tendenza a risolvere le cose all'interno della comunità, ma quella fiorentina è storica e importante. E i servizi di mediazione e assistenza, come i consultori, svolgono un grande lavoro".
La comunità cinese a Firenze, spiega il rappresentate nel consiglio degli stranieri fiorentino, Hua Lin Lai, si è insediata dalla fine degli anni Settanta. "Sono circa cinquemila i cinesi ufficialmente presenti in città - spiega - impegnati soprattutto nel commercio e nell'artigianato. Ambulatori clandestini? Ci sono, ma chi è regolare e conosce le leggi italiane si rivolge alle strutture sanitarie delle Asl. A volte, chi va dai medici clandestini lo fa solo per ignoranza".
Fonte: ansa.it
FIRENZE: ABORTO CLANDESTINO, GRAVE GIOVANE CINESE
Firenze, 19 feb. (Adnkronos) - Una ragazza cinese di 20 anni e' ricoverata in prognosi riservata all'ospedale fiorentino di Careggi a seguito di un aborto che le potrebbe essere stato procurato, sembra in maniera clandestina. La giovane si e' presentata ieri sera all'ospedale con una zia, dopo avere accusato dei malori; e' stata sottoposta a un intervento chirurgico e le sue condizioni sono definite gravi.
Fonte: adnkronos.it
Volendo sottolineare.
Legge 194/78
Articolo 21. Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 326 del codice penale, essendone venuto a conoscenza per ragioni di professione o di ufficio, rivela l’identità - o comunque divulga notizie idonee a rivelarla - di chi ha fatto ricorso alle procedure o agli interventi previsti dalla presente legge, è punito a norma dell’articolo 622 del codice penale.
Codice Penale
Art. 622.(Rivelazione di segreto professionale)
1. Chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, e’ punito, se dal fatto puo’ derivare nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da lire sessantamila a un milione.
1-bis. La pena è aggravata se il fatto è commesso da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci o liquidatori o se è commesso da chi svolge la revisione contabile della società. (Comma aggiunto dall’art. 2, D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 e poi così modificato dall’art. 15, L. 28 dicembre 2005, n. 262)
2. Il delitto e’ punibile a querela della persona offesa.
«Art. 326. (Rivelazione ed utilizzazione di segreti di ufficio).
Il pubblico ufficiale o persona incaricata di un pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Se l’agevolazione è soltanto colposa, si applica la reclusione fino a un anno.
Il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio, che, per procurare a sè o ad altri un indebito profitto patrimoniale, si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbano rimanere segrete, è punito con la reclusione da due a cinque anni. Se il fatto è commesso al fine di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto, si applica la pena della reclusione fino a due anni».
Picchiata da fidanzate stupratori
(ANSA)- RIMINI, 19 FEB -Una quindicenne di Rimini che l'estate scorsa ha subito uno stupro di gruppo,sarebbe stata picchiata dalle fidanzatine dei suoi violentatori. Alle quali aveva confessato di aver avuto un rapporto sessuale non voluto con loro. La difesa non potra' nemmeno costituirsi parte civile nel processo: il codice non lo prevede in caso di imputati minorenni. Mentre la famiglia potra' rivalersi contro quelle dei ragazzi solo in sede civile.
Fonte: Ansa
martedì 19 febbraio 2008
Aborto-express
«Gli aborti clandestini stanno aumentando, ora che la 194 è sempre meno applicata», hanno gridato le donne scese in piazza sabato 9 febbraio per la no-Vat, la manifestazione contro il Vaticano. «C’è un surplus di 14 mila aborti spontanei che risulta dai dati Istat e che nessuno sa che cosa rappresentino», denuncia Bruno Mozzanega, ricercatore cattolico della Clinica Ginecologica di Padova. Se fate un giro nei reparti di ginecologia degli ospedali italiani i medici ve lo confermeranno e vi parleranno proprio di questo farmaco dalla crescita impossibile da racchiudere in un numero: il Cytotec viaggia per cammini oscuri, nascosti ai più se non quando qualcosa va male, ed è necessario fare ricorso a un ospedale.
Il Cytotec sembra fatto apposta per superare ogni divieto. Di per sé sarebbe un gastro-protettore, da prendere quando si ha l’ulcera. Provoca anche forti contrazioni uterine e quindi l’aborto, ma questo è solo uno dei suoi effetti collaterali: in Italia è regolarmente registrato e in vendita in scatole da 50 pasticche bianche esagonali grandi più o meno un centimetro. Nessun medico può rifiutarsi di prescriverlo opponendo la sua obiezione di coscienza. E i farmacisti possono al massimo sostenere di non averlo e chiedere al loro grossista di inviarlo nel più breve tempo possibile. Anche perché come possono sapere il medico o il farmacista se davanti hanno una donna incinta o una donna sotto stress?
Fino al 2006 acquistarlo era uno scherzo, nemmeno la prescrizione era necessaria. I ginecologi hanno iniziato a capire che l’ulcera c’entrava poco o nulla quando si sono trovati a dover soccorrere in ospedale sempre più donne quasi in fin di vita con emorragie troppo forti per non destare sospetti. E alla fine le donne hanno ammesso: si erano imbottite di queste pillole per le quali la casa madre, la Searle, non solo non ha mai autorizzato l’uso come abortivo ma ha anche ufficialmente messo in guardia dal farlo. L’hanno sottolineato due mesi fa in un’interrogazione parlamentare molti onorevoli del centro-destra, da Pierferdinando Casini a Bruno Tabacci e Elio Vito, per chiedere un intervento del ministro della Salute. In un documento diffuso dalla Direzione scientifica della Searle, e firmato dal dottor Michael Cullen, si leggeva, infatti: «L’uso off label del Cytotec nelle donne in gravidanza ha prodotto seri eventi avversi, tra cui la morte materna o fetale; l’iperstimolazione uterina, la rottura o perforazione dell’utero, emboli da fluido amniotico, emorragie severe, ritenzione placentare, choc, eccetera».
Tanto clandestino il suo uso, insomma, da non essere riconosciuto nemmeno dalla casa madre. E da lasciare quindi i medici in balia degli eventi. Bruno Mozzanega in un anno e mezzo come responsabile del servizio di guardia della sua clinica ne ha viste passare sei di donne con emorragie da Cycotec. Ha segnalato il pericolo finché nel 2006 l’Aifa, l’Associazione italiana per i farmaci, ha introdotto l’obbligo di vendita dietro presentazione di una ricetta medica non ripetibile e nominale, da conservare per sei mesi.
Risultato? «E’ nato un fiorente mercato nero», spiega Silvio Viale, ginecologo di provata esperienza radicale, quello che ha introdotto la sperimentazione della pillola abortiva RU 486 all’ospedale Sant’Anna di Torino. Perchè non tutte possono farsi fare una prescrizione: non può farlo un’extracomunitaria senza permesso di soggiorno, ad esempio, nè un’italianissima minorenne incappata nella classica inesperienza sua e del suo partner. E allora che cosa fanno?
Le extracomunitarie se la sbrigano con poco. Si rivolgono ai medici loro connazionali e si procurano in tempi rapidi le pasticche. Arrivano dalla Cina sulle navi insieme con i giocattoli e gli oggetti cheap, oppure dalla Romania ben annegate fra i vestiti di una normale valigia. Le minorenni qualche difficoltà in più possono incontrarla ma a venire loro in aiuto è il passaparola. Internet, innanzitutto. E’ tutto un fiorire di siti dove le pillole vengono vendute e comodamente spedite a casa. Ma ci sono anche indirizzi come www.womenonwaves.org, vere e proprie guide all’aborto-express con informazioni fin nei minimi dettagli. E alle ragazzine si consiglia come eventualmente mentire al farmacista per procurarsi il Cytotec ma anche di quali siti non fidarsi per gli acquisti online.
Le minorenni più sprovvedute - quelle che proprio non riescono a convincere il farmacista che, ad esempio, la nonna ha l’ulcera, o quelle che non hanno una carta di credito personale o di un amico per comprare il Cytotec in rete - possono avvicinare una rumena o andare nei negozi cinesi della loro città: una confezione non gliela negherà nessuno. Certo, a patto di pagarla qualche euro in più rispetto al prezzo della farmacia.
A questo punto la prima serie di difficoltà è superata. Resta l’ultima, la più rischiosa: prendere le pasticche. «E’ necessario essere informati sul suo uso - spiega Viale - Bisogna sapere che l’aborto non è mai immediato ma si ottiene con piccole dosi ripetute di pasticche a intervalli regolari. Non si deve eccedere rispetto alle dosi indicate altrimenti si corrono forti rischi». Possibilità di fallimento? «In un recente studio dell’Oms sulle interruzioni fino a 9 settimane la percentuale di aborti completi è stata superiore all’80%, gli aborti interni incompleti il 15% e i fallimenti il 5%», cita Viale.
Insomma il Cytotec non funziona solo per due donne su dieci. E allora si fanno ricoverare per aborto spontaneo e ottengono comunque quel che volevano. «Alla fine è un metodo dal risultato garantito - avverte Bruno Mozzanega - in cui l’aborto non lascia alcuna traccia e quindi è evidente che le pratiche clandestine possono essere molto più numerose di quanto si pensi». Carlo Casini, presidente del Movimento per la Vita prova a azzardare anche una stima: «Almeno il doppio delle cifre ufficiali se si aggiungono anche gli aborti causati dal Cytotec o dalla pillola del giorno dopo, e quindi la 194 va rivista». Ma dal fronte laico Silvio Viale rilancia:. «E invece è proprio questa la dimostrazione che la 194 è necessaria, anzi va ancora di più liberalizzata. Le donne abortiscono comunque, bisogna garantire loro le condizioni di salute migliori per farlo». Il dibattito è aperto.
Vignetta ‘L’aborto e la guerra’ - Copyright Blog ‘Diritto di cronaca’
Fonte: sorelleditalia.net
lunedì 18 febbraio 2008
Violenza sessuale di gruppo su una ragazza di 15 anni
e "amici" della vittima. Tra loro c'era anche il fidanzatino
RIMINI - Una ragazza di 15 anni è stata violentata da una decina di giovani che considerava suoi amici, tutti minorenni e di "buona famiglia". Tra gli stupratori anche il fidanzatino della vittima. La violenza ha avuto luogo a Rimini e la notizia è stata data da un giornale locale.
Il Corriere Romagna parla di un gruppo scatenato che ha costretto la ragazza ad atti sessuali contro la sua volontà, nonostante il suo pianto disperato. La vittima ha tenuto a lungo nascosto l'orrore ma poi è riuscita a confidarsi con i genitori che hanno sporto denuncia.
Sui fatti, che risalgono alla scorsa estate, è in corso un'indagine della Procura della Repubblica presso il Tribunale dei Minori di Bologna, competente per territorio. Grazie alle indagini svolte dalla Questura di Rimini, sarebbero già sette i ragazzi identificati: alcuni si vantavano in giro delle loro "gesta".
(18 febbraio 2008)
Fonte: repubblica.it
Pedofilo liberato: il ministro Scotti invia gli ispettori
Dopo lo scandalo e le reazioni indignate, gli ispettori del ministero della Giustizia arriveranno ad Agrigento per fare luce sulla scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare del pedofilo che è tornato a colpire.
È una storia agghiacciante, che avrebbe potuto evitarsi, quella di V.I., pizzaiolo agrigentino, uscito di prigione nonostante una condanna a 6 anni e 6 mesi per avere violentato due sorelline di Aragona. Venerdì scorso l’uomo è stato arrestato per un nuovo caso di abusi, facendo esplodere enormi polemiche sull’opportunità della sua scarcerazione, nonostante i pesanti reati di cui si era macchiato.
Lo stesso Guardasigilli ha parlato di una storia «ai limiti dell’incredibile» e ha annunciato che chiederà alla Procura generale di Palermo chiarimenti sul caso, anticipando l’intenzione di disporre un’ispezione negli uffici giudiziari interessati.
«Quando l’ho processato era già libero», ha spiegato il presidente dell’ufficio gip di Agrigento Luigi Patronaggio che, a gennaio scorso, ha condannato, in abbreviato, il pizzaiolo per il primo episodio di violenza. L’uomo era prima stato accusato dello stupro di tre sorelline, ma è stato poi ritenuto colpevole di violenza sessuale solo nei confronti di due.
«Cercherò di capire, comunque, se ci siano stati ritardi nel mio ufficio», ha aggiunto il magistrato, precisando, però, che tra l’arresto dell’indagato e la richiesta di rinvio a giudizio, fatta dalla Procura di Agrigento, sarebbe trascorso più dell’anno indicato dal codice come termine massimo di custodia cautelare.
La piccola vittima intanto resta in ospedale. La madre, nipote dell’indagato, che gli aveva affidato la figlia il giorno dello stupro, non si dà pace. «Non mi aspettavo che facesse una cosa simile».
Fonte: il giornale
Pedofilo recidivo ad Agrigento Il ministro manderà gli ispettori
una bimba di 4 anni, cresce l'indignazione. Veltroni: "Ci vuole la mano dura dello Stato"
Scotti chiede il fascicolo, il procuratore generale di Palermo promette chiarezza
Il capo dei gip apre inchiesta interna e si difende: "Al processo era già scarcerato"
Il ministro Luigi Scotti
AGRIGENTO - Sarà interrogato domani mattina dal gip di Agrigento Vincenzo Iacono, il pizzaiolo di 45 anni arrestato venerdì notte dai carabinieri per avere violentato una bambina di 4 anni. E già condannato a 6 anni e 4 mesi, per avere stuprato 3 sorelline di Aragona. La direzione del carcere di Agrigento, temendo rappresaglie da parte degli altri detenuti, ha deciso di metterlo in cella di isolamento. E mentre anche il ministro della Giustizia Luigi Scotti chiede una relazione sull'accaduto, annunciando un più che probabile invio degli ispettori, il procuratore di Palermo Salvatore Celesti - a capo del distretto di corte d'appello che comprende anche gli uffici giudiziari agrigentini - assicura che sarà fatta chiarezza. Intanto, anche il gip ha aperto un'inchiesta interna.
L'iniziativa del ministro. Un "rapporto circostanziato" per sapere quali fossero "le modalità disposte in via cautelare a seguito della scarcerazione" e, soprattutto, "per conoscere i motivi del ritardo per un giudizio da farsi ragionevolmente in tempi brevi, data la gravità dell'imputazione, i precedenti e il pericolo di reiterazione che si è puntualmente realizzato". Questo il ministro Scotti ha intenzione di chiedere al procuratore generale, secondo una nota diffusa da via Arenula. In vista di un invio degli ispettori, per una storia che - sono parole del Guardasigilli - "è ai limiti dell'incredibile".
Le parole del Pg. "Alla procura generale non è ancora arrivata alcuna richiesta da parte del ministro della Giustizia - ha dichiarato oggi Celesti - appena verremo investiti della questione chiederemo al procuratore di Agrigento di inviarci una relazione dettagliata sulla vicenda". In ogni caso, ha aggiunto, "faremo tutte le indagini necessarie, per accertare se ci siano responsabilità disciplinari dei magistrati che si sono occupati della vicenda".
L'inchiesta interna. "Avvierò un'inchiesta interna per capire se ci sono stati ritardi all'interno del mio ufficio, ma con certezza posso dire che l'imputato è arrivato al processo già libero". Lo ha detto il presidente dell'ufficio dei gip di Agrigento, Luigi Patronaggio. "Il problema - ha proseguito - è che le norme fissano termini di custodia cautelare probabilmente troppo brevi".
La dura reazione di Veltroni. "Del tutto inaccettabile": queste le prime parole del candidato premier del Pd. "Non e' possibile - ha proseguito - che chi ha compiuto un reato e lo ha reiterato, soprattutto un reato di questa assoluta disumanità, possa continuare a compierlo. Penso che chi ha avuto una condanna anche al primo grado di giudizio per un reato di questo tipo dovrebbe stare almeno agli arresti domiciliari. Credo che per questo tipo di reati le pene debbano essere inasprite: ci vuole la mano dura dello Stato. Mi auguro che presto in Parlamento possano essere approvate norme più severe contro la pedofilia".
(17 febbraio 2008)
Fonte: repubblica.it
Agrigento, scarcerato pedofilo abusa di una bimba di quattro anni
La vittima gli era stata affidata dalla madre, una lotnana parente
Il magistrato: "Bisogna pensare a terapie e trattamenti obbligatori"
di FABIO RUSSELLO
AGRIGENTO - In cella, con l'accusa di avere stuprato tre sorelline, è rimasto meno di un anno. Tornato libero, un mese fa era stato condannato a sei anni e quattro mesi, ma aveva solo l'obbligo di firma. Giovedì scorso, è tornato ad abusare di una bimba di quattro anni, che gli era stata affidata dalla madre, una lontana parente. Vincenzo Iacono, un pizzaiolo di 45 anni, è stato arrestato dai carabinieri: la sua ultima vittima ha raccontato tutto alla madre, che è corsa in caserma. Una perizia medica ha confermato gli abusi.
Anche giovedì scorso, Iacono si era presentato in caserma, per firmare il registro dei sorvegliati. Con sé aveva proprio quella bambina. Dopo l'avvio delle indagini, i carabinieri l'hanno atteso venerdì notte fuori dalla pizzeria in cui lavorava, per notificargli il fermo. Adesso, Iacono si trova in isolamento, anche per evitare ritorsioni in carcere.
Le sue prime vittime, tre sorelline di Aragona, erano figlie di amici di famiglia. I genitori si fidavano di lui, tanto da affidargli le piccole. Ma un giorno, lui le aveva portate in un casolare abbandonato. I genitori non avevano capito subito. Solo l'intervento degli psicologi aveva fatto scattare le indagini. E così, il 23 marzo 2005, il pizzaiolo era stato arrestato. Ma neanche un anno dopo era tornato in libertà, per scadenza dei termini di custodia cautelare.
Si era trasferito presto ad Agrigento. "Era stato abile a non far sapere del brutto episodio di cui era stato protagonista", dicono i carabinieri. Così, la madre dell'ultima vittima si era fidata. Fino a giovedì, quando la figlia le aveva detto in lacrime: "Lo zio mi ha fatto fare cavalluccio".
Adesso, è polemica: "Quello che è accaduto ad Agrigento, con un pedofilo libero dopo appena un anno, è vergognoso", commenta la senatrice Maria Burani Procaccini, responsabile famiglie e minori di Forza Italia, che invoca l'introduzione della castrazione chimica.
Un appello alla riflessione e a una possibile riforma arriva da Luigi Birritteri, sostituto procuratore presso la Procura generale di Caltanissetta, ex capo dei gip di Agrigento. Dice: "La legge prevede un termine di custodia cautelare superato il quale, chiunque sia l'imputato e qualunque sia il reato, deve essere scarcerato perché la presunzione di innocenza impone che la pena deve essere scontata solo se la condanna è definitiva. Le uniche misure che si possono applicare sono quelle blande, come appunto è l'obbligo di firma. Io spero, però, che si colga l'occasione per riflettere sulla necessità di garantire delle misure che siano legate alla tipologia particolarmente odiosa di questi reati. Si potrebbe pensare a terapie e trattamenti sanitari obbligatori per limitare queste spinte, queste deviazioni di carattere sessuale. Non basta gridare al mostro. E' troppo semplicistico prendersela con i magistrati che non fanno altro che applicare la legge pur operando in condizioni proibitive. Con fatica si tenta di esaurire i processi che sono una vera corsa ad ostacoli, senza contare i carichi di lavoro pesantissimi".
(17 febbraio 2008)
Fonte: repubblica.it
venerdì 15 febbraio 2008
Il grande dolore di Silvana "Ma non potevo fare altro"
"Il grande dolore di Silvana "Ma non potevo fare altro"
I dubbi, gli esami, l´interrogatorio
di G.D.B.
«Sarebbe stato il mio primo figlio. Lo volevo a tutti i costi, Ma come si fa a sospettare che sarei ricorsa all´aborto per disfarmene? Sapesse il dolore che ho provato quando ho saputo che il bimbo non sarebbe stato normale».
Silvana, napoletana, vive ad Arzano con la mamma, è una donna mingherlina alta poco più di un metro e 60. Sta per lasciare la stanza del Policlinico dove è stata ricoverata. E dove, l´altroieri, è stata sottoposta a un incessante interrogatorio da cui non si è ancora ripresa. «Assurdo, ero appena rientrata dalla sala operatoria», sibila scuotendo la testa.
Silvana, chi le ha detto che il bimbo aveva una grave malattia?
«Per sicurezza, vista l´età, 39 anni, mi sono sottoposta ad amniocentesi alla sedicesima settimana nell´ospedale di Frattamaggiore. Era il 18 gennaio e la diagnosi me l´hanno data il 31. Sul foglio c´era scritto "Sindrome di Klinefelter". Parole incomprensibili per me. Poi mi hanno spiegato».
Cosa le hanno detto?
«Che si trattava di una malattia che comporta ritardo mentale, problemi al cuore, diabete e l´assenza di alcuni ormoni».
Per questo ha deciso di abortire?
«Certo. E che altro avrei potuto fare? Non ho avuto il benché minimo dubbio, è stata una decisione istantanea. Mai avrei messo al mondo, da sola tra l´altro visto che non sono sposata, un bimbo che poi avrebbe sofferto per il resto della vita. E non mi si venga a parlare di egoismo, la mia è stata una scelta che va nella direzione opposta».
Quando è arrivata al Policlinico?
«Il 31 gennaio, la prima volta, per fare tutte le indagini preliminari, dai prelievi di sangue all´elettrocardiogramma, compresa la visita dallo psichiatra».
E che le ha detto?
«Che la mia salute psichica sarebbe stata a rischio se non abortivo. E venerdì scorso mi sono ricoverata nel reparto di Ostetricia dove avevo conosciuto il dottor Leone. A lui avevo portato il referto e poi manifestato la volontà di abortire. La decisione è stata mia. Nessuno è intervenuto in questo senso. Il giorno prima ero stata anche al Cardarelli per sottopormi a consulenza genetica, me lo avevano chiesto gli specialisti del Policlinico per spiegarmi meglio la situazione del bimbo e della sua patologia. Intanto ero entrata nella 21esima settimana».
Quindi in tempo.
«Sì, mi avevano detto che si poteva fare entro la 23esima settimana. Per tre giorni mi hanno dato dei farmaci per stimolare le contrazioni dell´utero. Ma lunedì alle 11 il medico mi ha rifatto l´ecografia e si è accorto che il feto era morto».
Quindi?
«Ho continuato con la terapia e finalmente alle 6 e mezza di sera ho abortito. Poi mi hanno portato in sala operatoria e, con l´anestesia, mi hanno ripulito l´utero».
Poi, di nuovo in camera.
«Sì, e dentro c´era la poliziotta pronta a interrogarmi. Io non capivo cosa stava succedendo, ero ancora sotto l´effetto della narcosi».
Cosa voleva sapere da lei?
«Sono stata massacrata, un terzo grado: come era successo, perché avevo abortito, chi era il padre. Addirittura se avevo pagato».
Pagato chi?
«Sospettavano che avessi dato soldi ai medici per abortire. Insistevano. E poi sono passati anche a Veronica, la compagna di stanza ricoverata per gravidanza a rischio. Mi sono trovata in una situazione assurda appena fuori dalla sala operatoria».
Sporgerà denuncia?
«Ci sto pensando, visto il trattamento che la polizia mi ha riservato, avendo già affrontato un trauma terribile che mi fa ancora soffrire».
(13 febbraio 2008)
fonte: repubblica.it
La donna avrebbe espulso il feto in bagno a seguito di un malore
Identificato l'uomo che lunedì sera ha chiamato il 112 denunciando l'aborto. Oggi l'autopsia sul feto. Interrogati i sette agenti che hanno partecipato all'azione nel reparto di Ostetricia del nuovo Policlinico di Napoli
Napoli, 14 feb. - (Adnkronos/Ign) - ''Io di questa situazione non ne so nulla. Adesso lasciatemi in pace''. Risponde così all'ADNKRONOS l'infermiere che lunedì sera ha telefonato al 112 dicendo che, nel bagno del reparto di Ostetrica del nuovo Policlinico di Napoli, una donna stava abortendo.
L'uomo, 45 anni circa, è stato identificato oggi dagli agenti di polizia giudiziaria coordinati dal pm della procura del capoluogo campano, Vittorio Russo ma non è ancora stato interrogato. Durante la telefonata, ha fornito con precisione il nome e il cognome della paziente, il luogo dove stava avvenendo l'aborto e ha dichiarato di essere un dipendente del nosocomio.
E mentre oggi è stata effettuata l'autopsia sul feto, gli inquirenti sembrano convinti che la sera dell'11 febbraio non si sia compiuto alcun reato. ''La donna si è trovata in una situazione di espulsione del feto improvvisamente'' ha detto il pm Russo dopo aver compiuto accertamenti presso il reparto di ostetricia del Nuovo Policlinico e aver sentito il medico di turno. ''La donna - continua il pm - ha riferito all'ispettrice di polizia di non avere doglianze ma di non avere fatto in tempo ad avvertire il personale infermieristico quando trovatasi in bagno, per motivi fisiologici, è stata colta da malore e ha abortito''.
Questione a parte l'irruzione delle forze dell'ordine nell'ospedale. In serata si sono conclusi gli interrogatori dei 7 agenti intervenuti al Policlinico e le loro deposizioni, sottolinea il magistrato, ''sono state concordanti tra di loro''. ''Non mi risulta proprio che la polizia abbia fatto un blitz - ha ribadito Russo - ma piuttosto che abbia agito secondo le regole. D'altra parte l'attività investigativa svolta dagli agenti ci ha consentito di chiarire che nel reparto non fossero state commesse irregolarità''.
giovedì 14 febbraio 2008
Giù le mani dalla 194!
di alcune donne di Orvieto
L'ingerenza dello Stato Vaticano nella vita politica e sociale dell'Italia raggiunge livelli pericolosi per le donne. Il voto è alle porte, il mondo cattolico serra le fila e i ripetuti appelli del papa riempiono telegiornali e giornali mettendo in chiaro possibili alleanze. Il documento dei ginecologi delle università romane (una minoranza, in verità)in cui si afferma che "il feto prematuro va rianimato, anche contro la volontà della madre" è in linea con le direttive cattoliche e ancora una volta ci si preoccupa di più dei bambini che devono nascere che di come vivano e crescano i già nati, anteponendo un principio assoluto, teorico-religioso alle persone reali e ai loro bisogni. Ancora una volta si delegittima la volontà e la libera scelta delle donne,imponendo pratiche mediche le cui conseguenze ricadono tutte sulla vita della donna e del futuro bambino.
Con questo non si vuol dire che laddove fosse possibile e voluto dalla madre che lo allatterà e lo crescerà non si voglia salvare il feto, ma prima della ventiduesima settimana di gestazione il sistema nervoso centrale e quello polmonare non sono formati completamente e quindi il feto, seppure sopravvivesse, come non programmato dalla natura, presenterebbe gravi e permanenti danni neurologici. Fa paura questo volersi accanire con terapie intensive sul piccolo feto, prospettandogli una vita infelice e senza assistenza pubblica (il peso delle cure ricadrà sui parenti più stretti-la madre). Fa paura questo atto di presunzione verso la natura. I cattolici cercano anche di impedire la messa in vendita della Ru486, in quanto pillola abortiva, ma il rischio con questo nuovo appello salvavita è che di fronte a patologie materne e fetali, molte donne affrettino la decisione di abortire per evitare di giungere ad un epoca in cui un medico potrebbe decidere di rianimare ad ogni costo.
In questo quadro di attacco rientrano la proposta dell'opinionista Ferrara che chiede una moratoria dell'ONU sull'aborto e i preparativi di tutto il centro destra per "rivedere" la legge 194. Perché questi segnali di guerra ideologica? Perché su questi temi il dibattito politico si fa così cruento?
Perché in ballo c'è l'autonomia delle donne che mette in crisi le stesse basi della nostra civiltà: il patriarcato. Dietro ogni pensiero che si fa legge c'è la rivendicazione di principi prevaricatori e repressivi, per niente naturali, costruiti e portati avanti nei secoli con la violenza e il disprezzo verso la parte dell'umanità più numerosa, creativa e pacifica: le donne. La chiesa ha costruito il suo impero e la sua immagine anche creando una figura materna: Maria, docile e sottomessa ai voleri del padre. Le antiche sagge, le guaritrici, le sapienti conoscitrici dei misteri della nascita e della morte, sono state schiacciate e bruciate prima, sminuite, svalorizzate, rese psicologicamente succubi dell'uomo Dio-padre-marito.
In una fase della nostra storia democratica in cui bisogna difendere ancora conquiste già acquisite e il lottare per uno stato laico rispettoso delle scelte private dei cittadini, noi donne rivendichiamo la nostra libera scelta di rifiutare la violenza intesa non solo come stupro o botte, ma come subdola infiltrazione nell'animo delle donne di un ruolo e di un immaginario che non contempla la propria libertà di scelta. Violenza, sono i divieti e le imposizioni sul corpo delle donne.
GIU' LE MANI DALLA 194!
Fonte: orvietonews
mercoledì 13 febbraio 2008
Aborto a Napoli, inchiesta interna gli agenti sequestrano il feto
Il primario Neppi: "Aborto terapeutico alla 21 settimana, rispettata la legge"
Il ministro Turco: "Sono profondamente turbata, è una caccia alle streghe"
NAPOLI - Un'irruzione "immotivata", quella degli agenti del Commissariato Arenella, entrati ieri senza mandato al Policlinico II di Napoli dopo aver avuto notizia di un feticidio e trovatisi davanti invece un regolare aborto terapeutico, in pieno rispetto della legge 194. Ed una "grave intimidazione", denunciata in un comunicato dall'Udi, Unione delle donne in Italia, che ha stigmatizzato l'episodio che continua a far discutere.
Sull'aborto compiuto ieri nel reparto di ostetricia della struttura universitaria napoletana - che ha causato l'intervento delle forze dell'ordine ed il sequestro della cartella clinica della donna coinvolta - il direttore generale del Policlinico Giovanni Canfora ha avviato un'indagine interna. E anche il ministro della Salute, Livia Turco, ha commentato l'episodio: "Sono profondamente turbata, è il sintomo di un clima di tensione inaccettabile, attorno a una delle scelte più drammatiche per una donna come quella di rinunciare ad una maternità. Siamo arrivati al punto di fare e usare denunce anonime. Una caccia alle streghe".
Nella relazione del primario, Carmine Nappi, si legge che "il feto presentava un'alterazione cromosomica. Se la gravidanza fosse stata portata a termine ci sarebbe stato il 40% di possibilità di un deficit mentale. La donna ha presentato un certificato psichiatrico della stessa struttura universitaria sul rischio di 'grave danno alla salute psichica', che ha autorizzato l'intervento". Una misura terapeutica, quindi, nel pieno rispetto della legge 194, effettuata alla ventunesima settimana di gravidanza.
La donna che ha praticato l'aborto, espellendo per altro un feto morto, ha 39 anni ed è stata dimessa questa mattina. Oltre la cartella clinica della paziente, anche il feto - del peso di 460 grammi - è stato sequestrato dalla polizia, su disposizione del pm.
"Si è trattato di un aborto terapeutico. Una decisione difficile, sofferta", racconta oggi la donna, S. S., ascoltata ieri dalla polizia subito dopo l'interruzione volontaria di gravidanza. E ripete oggi quanto spiegato agli agenti, intervenuti nel reparto in seguito a una denuncia che informava la polizia di un aborto oltre i limiti di tempo previsti dalla legge.
"Mi è stato chiesto se per abortire avevo pagato - aggiunge la donna - ed ho spiegato che non era stato così. I risultati dell'amniocentesi, ritirata lo scorso 31 gennaio, avevano accertato che il feto soffriva della sindrome di Klineferter, un'anomalia cromosomica".
Per Rina Gagliardi, senatrice del Prc, si tratta di un "fatto gravissimo". "Si prova uno sgomento immenso nel leggere notizie come quella pubblicata oggi dai quotidiani on line", aggiunge Gagliardi". "Vogliamo conoscere i responsabili di questo gesto violento e irrispettoso e chiediamo che paghi per questa inqualificabile, disgustosa condotta" conclude la senatrice.
(12 febbraio 2008)
Fonte: repubblica.it
Aborto, blitz della polizia nella clinica ostetrica
Una donna abortisce un feto malformato nato morto e dopo venti minuti arrivano gli agenti in corsia. Pazienti e personale interrogati, sequestrata la cartella clinica. L'Unione delle donne denuncia il clima da caccia alle streghe e annuncia una manifestazione di piazza
Blitz della polizia al Nuovo Policlinico. Sette uomini in divisa si sono presentati ieri pomeriggio nella Clinica Ostetrica per indagare su un´interruzione di gravidanza effettuata su una 39 enne che aveva in grembo un feto malformato. Il sospetto delle forze dell´ordine, dicono i medici, sarebbe nato da una denuncia anonima secondo cui la donna avrebbe ottenuto un aborto fuori legge per disfarsi del neonato.
A svelare che si trattava di un equivoco è stato Francesco Leone, responsabile del Servizio Ivg arrivato in clinica proprio durante il blitz. «Abbiamo praticato l´interruzione di gravidanza terapeutica nel secondo trimestre», ha spiegato lo specialista, «quindi nei termini di legge. D´altronde il feto era affetto da una grave malattia congenita». «L´espulsione del feto», ha raccontato Leone, «è avvenuta alle 18 e gli agenti sono arrivati dopo 20 minuti». E in reparto è successo il finimondo.
Tre uomini hanno raggiunto la corsia dove era ricoverata la donna. L'hanno interrogata chiedendole i particolari della gravidanza, poi sono passati alla degente che le stava vicino, e anche lei è stata interrogata. Intanto altri due agenti hanno chiesto notizie a un´infermiera del reparto e altri quattro hanno voluto sapere dagli specialisti i particolari tecnici. «Mi è sembrato - ha detto Leone - un atto spropositato, neanche fosse stato un blitz anticamorra».
Gli agenti hanno acquisito la cartella clinica su autorizzazione del pm. E oggi è arrivata la dura condanna dell'Udi, l'Unione delle donne in Italia. La storica associazione ha preso posizione su quanto avvenuto al Policlinico dell'Università Federico II. "Si trattava - hanno dichiarato le portavoci - di un aborto terapeutico alla quarta settimana, regolarmente effettuato nel rispetto della legge 194 e della salute della donna che ha subito l'intervento e che ha espulso, peraltro, un feto morto". Stando alla lettura che danno dell'episodio, i medici, di fronte ad un inedito agire della forza pubblica, hanno tutelato la donna, ma non hanno potuto evitare il sequestro del materiale abortivo e della fotocopia della cartella (anonima) della paziente. Gli agenti, sempre secondo quanto riferisce l'Udi, hanno poi intimidito la vicina di letto della donna, esortandola a testimoniare in quel momento altrimenti sarebbe stata chiamata a farlo davanti ad un giudice.
L'Udi denuncia "il clima che sta montando contro le donne, nel nostro paese e nel caso specifico in Campania, che genera procedure ai limiti della legittimità, ma soprattutto contrarie ad ogni buon senso" e dà appuntamento a tutte le donne napoletane per giovedì prossimo, in piazza Vanvitelli, alle ore 17. "La nostra mobilitazione - affermano - partirà da Napoli e diventerà vigilanza e presidio permanente in ogni piazza d'Italia. Autodenciamoci tutte per aver deciso nella nostra vita".
(12 febbraio 2008)
Fonte: repubblica.it
lunedì 11 febbraio 2008
Milano, affoga la convivente nel Naviglio
Dopo un litigio macedone uccide donna italiana. Picchiato dai passanti La tragedia dopo l'ennesimo litigio
MILANO — Gli urlavano «fermati bastardo, adesso te la facciamo pagare». Lui s'è fermato, si è trascinato sulla sponda per scappare. Lì s'è dovuto fermare: i passanti-testimoni l'hanno afferrato, picchiato, preso a calci. L'ha salvato una pattuglia dei carabinieri, che lo ha portato via. Nessuno ha potuto salvare la compagna: morta. Troppa acqua aveva inghiottito. Troppo tempo era rimasta nel canale, la sua testa tenuta sotto dalle mani dello stesso convivente, che l'ha affogata in via Chiesa Rossa, periferia Sud, nel Naviglio Pavese. Macedone lui, di 44 anni. Italiana lei, di 41. Una casa nel vicino quartiere Stadera, case popolari, quotidianità malata di liti e occupazioni abusive, antenne paraboliche e prostitute minorenni, baby-gang e citofoni fatti saltare in aria. L'ennesimo litigio della coppia è finito in omicidio. Per colpa forse di un rapporto ormai logoro, forse di storie e derive passionali, o forse perché uno dei due, magari lei, semplicemente aveva detto basta, finiamola qui. L'uomo è stato trasportato via che sputava acqua e bestemmie, scuoteva la testa, urlava come un matto.
Perché l'ha fatto? Fino a tarda notte, ascoltato dai carabinieri, non ha saputo o voluto dire. Ancora da chiarire l'esatta dinamica. O meglio: è certo l'epilogo, il decesso è da attribuire all'infinità di secondi passati sott'acqua. Da capire come i due siano finiti nel Naviglio. L'ha aggredita per strada e l'ha gettata per poi affogarla? Oppure lei scappava e lui l'ha inseguita nel canale? E, ancora: in quel punto di via Chiesa Rossa, un punto di pochissime case e lunghi campi punteggiati di baracche d'immigrati, ci sono arrivati a piedi — l'abitazione dista una manciata di chilometri — o in automobile? E se l'uomo — addosso ha una lunga lista di precedenti, per reati contro il patrimonio — pensava di agire indisturbato? Era cioè convinto che nessuno l'avrebbe visto e dopo l'assassinio sarebbe potuto tornare a casa, chiamare le forze dell'ordine, raccontare in lacrime che della compagna non c'era più traccia? A Milano, ieri mattina, l'autista di un bus ha evitato una violenza sessuale ai danni di una passeggera, e la Lega ha subito annunciato: «Adesso ronde a bordo». In serata, uno dei testimoni di via Chiesa Rossa è uscito dalla caserma dei carabinieri. Cos'ha visto? «Ho visto lui che le spingeva giù la testa...». Cos'ha fatto? «Io? Dio mio, volevo tuffarmi, volevo andare a salvare quella poveretta. Ma ero bloccato. Ero terribilmente bloccato. Avevo paura di quel pazzo, paura che mi uccidesse».
Andrea Galli
10 febbraio 2008
fonte: corriere.it
sabato 2 febbraio 2008
La Brown: Ignoravo cosa fosse uno stupro
Fonte: repubblica.it
Dialogo sulla chiesa e i corpi delle donne
redazione
Dal numero 1/2008 di MicroMega anticipiamo ampi stralci del dialogo tra Mariella Gramaglia e Cinzia Sciuto. La vita e la morte, gli embrioni e i bambini, la Chiesa e la politica. I corpi delle donne. Di fronte a chi – impunemente – definisce l’aborto un omicidio (e dunque le donne assassine) e ne propone una moratoria, un dialogo franco tra due donne, un confronto tra generazioni.
Mariella Gramaglia: Prima di entrare nel merito del nostro dialogo, tengo a una premessa. Da diversi anni a questa parte, ho cominciato a praticare la tradizione spirituale buddista. Uso questa formula non a caso, perché si tratta esattamente di un lavoro di disciplina interiore: non direi mai “sono buddista”, come se indossassi una divisa. Visto però che il tema di questo nostro dialogo è l’aborto e, dunque, anche il rapporto con la vita e il suo valore, mi sembra opportuno – soprattutto per i lettori di MicroMega, che certamente legano il mio nome alla tradizione del femminismo laico italiano – esprimere chiaramente questa dimensione che ormai ispira i miei sentimenti personali e il mio rapporto tra la dimensione morale e la dimensione pubblica.
È una premessa importante perché sia chiaro che, dal punto di vista dei princìpi regolativi che orientano l’agire delle donne e degli uomini, io sono fortemente interessata al superamento dell’aborto. In altri termini, sul piano morale, a me interessa moltissimo lavorare ad una relazione tra gli esseri umani che si basi su un’idea di connessione, di non violenza, di non rottura degli equilibri e delle emozioni che collegano gli esseri viventi gli uni con gli altri (e quando parlo di esseri viventi mi riferisco anche a quelli che nella tradizione giudaico-cristiana non sono tenuti in gran conto: per esempio sono interessata a capire perché in grandi tradizioni spirituali si pratichi il vegetarianismo, o perché in grandi tradizioni morali si rispetti moltissimo la vita degli animali).
Dunque, tenendo conto di questa premessa, il punto, secondo me, è il seguente: in una società fortemente globalizzata come la nostra, in cui è impossibile chiudere gli occhi e le orecchie davanti alle sofferenze del mondo, davanti a quanti sono costretti a tollerare anche l’intollerabile, se, in quanto intellettuali, in quanto persone aperte alla consapevolezza, dobbiamo farci carico delle grida del mondo, non possiamo farlo a corrente alternata.
E invece dobbiamo avere il coraggio morale, faticosissimo in un momento di così grande crisi dei valori della sinistra, di rimettere in campo il rispetto per la vita in tutti i suoi aspetti: penso all’orrore della prostituzione coatta, che è una forma di omicidio lento di centinaia di migliaia di ragazze, ma penso anche alla recrudescenza delle morti sul lavoro. Io che torno da una lunga esperienza indiana, non posso fare a meno di pensare che in India ci sono 42 milioni di bambini che lavorano (non lavoricchiano, lavorano sul serio, dodici ore al giorno, nelle officine con gli acidi, nelle cave...). E allora, se si vuole realmente impegnarsi nella difesa della vita, bisogna allargare lo sguardo, e rivolgerlo anche alle persone che già oggi in carne ed ossa vivono sul nostro pianeta, e non in primo luogo agli embrioni. Se si assume questa prospettiva, vi assicuro che di lavoro da fare – politico, sociale e morale – ce n’è tantissimo.
Cinzia Sciuto: È necessario che anch’io faccia una premessa. Sono nata nel 1981, giusto in tempo per non vivere quella grande stagione di lotte che ha fatto fare al nostro paese un notevole salto in avanti sulla linea del progresso sociale e civile. Divorzio e aborto erano già legge e, quando ho iniziato a guardarmi un po’ attorno, facevano già parte integrante del mondo che mi circondava. Li ho sempre considerati come ovvi riconoscimenti del diritto di ciascuno (e soprattutto di ciascuna) di decidere cosa fare della propria vita (i conti con un eventuale di Dio – ho sempre pensato – ciascuno li fa per proprio conto). E soprattutto per tanto tempo non ho neanche concepito la possibilità che qualcuno potesse metterli in discussione.
Purtroppo mi sono presto dovuta ricredere e scoprire che c’è invece un fronte – non molto ampio, ma piuttosto potente – che cerca in tutti i modi di far fare all’Italia dei passi indietro, perlopiù a scapito delle donne. A me interessa molto cercare di capire cosa c’è dietro, quali sono le reali intenzioni di queste offensive, ma prima ci tengo a fare un’osservazione sulla tua premessa. Tu hai voluto, giustamente, chiarire il percorso spirituale che da qualche anno stai facendo e lo hai in qualche modo legato alla tua posizione di principio, per la quale sei fortemente interessata alla ricerca di relazioni armoniche fra gli esseri viventi, al superamento delle rotture e, dunque, al superamento anche dell’aborto.
Questa dichiarazione di principio mi mette in qualche senso a disagio: come se – di fronte all’offensiva reazionaria – fosse necessario mettersi sulla difensiva e, prima di entrare nel merito, premettere di non essere degli ultrà dell’aborto, di non essere “abortisti” (parola orribile, che nessuno dei sostenitori della 194 si sognerebbe mai di usare per definirsi). Premessa che dovrebbe essere data per scontata e, soprattutto, non legata ad uno specifico percorso spirituale: tendere ad aborti zero è l’intenzione e la speranza di tutti coloro che sostengono il diritto all’aborto e, soprattutto, di tutte le donne, uniche vere protagoniste.
Ora, siccome non ritengo plausibile che qualcuno pensi sinceramente e in buona fede che chi sostiene il diritto all’aborto sia un nemico della vita, devo per forza dedurne che utilizzare questo linguaggio – abortisti, nemici della vita, cultori della morte, addirittura omicidi – sia necessariamente orientato ad un secondo fine. Cosa c’è dietro queste offensive? Credo sia importante domandarselo, perché ho la sensazione che la posta in gioco sia molto alta: il controllo sociale delle coscienze.
Gramaglia: L’autodeterminazione – è uno dei cardini del pensiero femminista – è un atto di responsabilità che riguarda un processo che avviene dentro di te. Che il corpo appartenga a ciascuna donna dovrebbe essere un’ovvietà. È paradossale pensare di potere decidere sul corpo di qualcun altro. È tecnicamente impossibile impedire ad una donna che vuole abortire di farlo, nel senso che glielo si può proibire, la si può costringere a tornare all’aborto clandestino, la si può anche mandare in galera, ma è materialmente impossibile obbligare una persona a fare del proprio corpo qualcosa che decide qualcun altro. È una cosa insensata, che non ha nessun fondamento esistenziale. È proprio perché quel che conta è l’aspetto esperienziale ed esistenziale della relazione simbiotica tra la madre e il feto, che non mi appassiona affatto il dibattito su cosa sia un embrione: è una persona? un grumo di cellule? Non lo so che cos’è l’embrione, e non credo neanche che sia dirimente saperlo.
Sciuto: Anch’io credo che invischiarsi nel dibattito su cosa sia l’embrione non sia utile. Significherebbe accettare il glossario messo sul tavolo da chi sta portando avanti quest’offensiva reazionaria e accettare in linea di principio che l’aborto possa davvero qualificarsi come omicidio: se si stabilisce che l’embrione è una persona fin dal concepimento, allora l’aborto è un assassinio. Inserirsi in questo dibattito, provando a contrastare questa tesi sostenendo che l’embrione non è una persona non ci porta molto lontano. Bisogna invece smarcarsi, e portare la discussione sul terreno dell’esperienza concreta delle donne e del loro diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo (che è il “proprio” anche quando è iniziato un processo che porterà alla nascita di un’altra persona).
Gramaglia: [...] Mi preoccupano in particolare due possibili effetti. Il primo è la possibilità che nascano dei vendicatori. Noi siamo ancora nell’ambito di un dibattito civile, ma negli Stati Uniti d’America, dove la parola “omicidio” a proposito dell’aborto è diventata cattiva moneta corrente, cominciano ad esistere davvero i vendicatori, quelli che minacciano e talvolta ammazzano sul serio i medici che praticano gli aborti [...]. La seconda conseguenza che mi preoccupa molto è che questo clima culturale possa trasformare le donne da cittadine a mendicanti di un’assistenza che non è più un diritto, ma elemosina. C’è il rischio che aumenti l’obiezione, che si allunghino le liste d’attesa, che le donne siano costrette a fare mille giri per trovare finalmente l’ospedale come se chiedessero appunto la carità e non il rispetto di un diritto.
Sciuto: [...] Non ha niente di civile proporre una moratoria sull’aborto, accostandola a quella sulla pena di morte. Forse hai ragione: la 194 non sarà toccata. E probabilmente non è neanche questa l’intenzione di chi ha proposto la moratoria. A costoro basta creare un clima culturale di colpevolizzazione della donna e i rischi di cui tu hai parlato sono gravissimi. Per scongiurarli ritengo che vada decisamente rifiutato il dialogo con chi pone la questione sul piano di una lotta tra una cultura della vita e una cultura della morte.[...] E l’apertura di Veltroni a Ferrara ha costituito la patente di legittimità della sua posizione nel dibattito pubblico. Io credo che posizioni come queste debbano essere semplicemente bandite dal discorso pubblico, per far spazio a un serio discorso pubblico sull’aborto.
Gramaglia: [...] Perché non esiste un movimento delle donne così autorevole e forte in grado di dire a Veltroni: sono io che voglio incontrarti, sono io che voglio dirti qual è l’agenda? Negli anni c’è stata un’abdicazione, per cui non ci sono a sinistra soggetti forti in grado di dire parliamone dal mio punto di vista, e questa mi provoca una grandissima amarezza. Detto questo, se Veltroni vuole incontrare Ferrara, faccia pure.
Sciuto: [..]Se queste posizioni mostruose, oscene ottengono visibilità – con i conseguenti gravissimi rischi che tu citavi – è anche perché vengono accolte come accettabili nel dibattito pubblico. Ci sono certe cose che la coscienza collettiva giudica dei tabù, sui quali non è consentita la discussione. Ecco: parlare di aborto associandolo alla pena di morte (per di più strumentalizzando in maniera becera una battaglia di grandissimo valore civile, come è stata appunto la moratoria sulla pena di morte) dovrebbe semplicemente indignare e far scattare il meccanismo del tabù.
Gramaglia: Io credo invece che proprio il dibattito aperto sia il contributo migliore per evitare che il discorso degeneri fino a raggiungere i livelli di pericolosità cui accennavo prima. Non credo che isolare queste posizioni ci preservi dal rischio del vendicatore con il fucile.
Micromega 1/2008
Fonte: womenews.net
Diritto all’aborto, la nuova Europa racconta
Marta Marsili
La difesa dei diritti alla salute sessuale e riproduttiva, e più in particolare del diritto all’aborto, é occasione di imbarazzanti affermazioni, anche in sede europea. L’audizione pubblica della commissione per i diritti delle donne e la parità di genere del Parlamento europeo del 29 gennaio scorso ne ha offerto una prova concreta.
Tra le relatrici e i relatori invitati da Anna Zaborska, presidente della commissione, figuravano alcuni noti militanti del movimento per la vita, come l’americano Douglas de Sylva, dell’Instituto della famiglia cattolica e dei diritti umani di New York e Jana Tutkova, direttrice del Centre for Bioethical Reform di Praga.
La presenza di Wanda Nowicka, presidente della Federazione polacca delle donne e dei consultori familiari (Astra) é stata, nonostante tutto, l’occasione di fare il punto sulla situazione dei diritti riproduttivi nei paesi dell’Europa centrale e orientale.
Sebbene i diritti alla salute sessuale e riproduttiva non rientrino nelle materie di competenza comunitaria, un numero crescente di euro-parlamentari di diversi schieramenti portano avanti una guerra senza quartiere per far sì che essi siano definitivamente svuotati di contenuto.
Una grossa spinta in tal senso arriva da alcuni paesi recentemente entrati nell’Unione, la cui legislazione in materia negli ultimi anni ha fatto enormi passi indietro. «Siamo di fronte ad un vero e proprio gap tra la vecchia e la nuova Europa. - ha detto Wanda Nowicka - Prima della trasformazione politica e ecomomica che é seguita al crollo del Muro, buona parte dei diritti alla salute riproduttiva erano legali e di libero accesso in molti paesi dell’est. A partire dagli anni ’90, sono entrati a far parte delle agende politiche dei conservatori e dei fondamentalisti religiosi. Il sostegno della chiesa cattolica romana ai movimenti per il diritto alla vita, grazie anche all’incredibile appoggio finanziario, concettuale e logistico degli anti-abortisti statunitensi ha fatto il resto».
La legge votata nel 1993 dal parlamento polacco, ad esempio, ha ristretto l’accesso all’interruzione di gravidanza a pochi e gravi casi : rischio per la vita della madre, danni irreversibili all’embrione o quando sia frutto di un atto di violenza. Anche così, tuttavia, essa resta il costante bersaglio di chi spera di ottenere il totale e definitivo divieto. «Negli ultimi due anni la Lega delle famiglie, partito misogino e reazionario, (capeggiato dai fratelli Kaczynskyi ndr.) ha sferrato non pochi attacchi a questo diritto delle donne, culminati nella proposta di modifica costituzionale che iscrivesse la protezione della vita fin dal suo concepimento» ricorda la presidente di Astra. Una battaglia persa, fortunatamente, ma che é stata comunque appoggiata da una vasta maggioranza parlamentare.
«Nella pratica – sottolinea Wanda Nowicka - l’accesso all’aborto viene ostacolato e impedito anche in quei rari casi in cui la legge lo permette». La denuncia non é nuova: già nel 2005 la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite (HRC) aveva espresso la sua inquietudine per quelle «restrizioni legali che costringono le donne a fare ricorso a praticanti disonesti a rischio della loro stessa vita». E la Corte europea per i diritti umani aveva espresso un parere simile condannando la Polonia a risarcire Alicja Tysiac, la cui domanda di IVG, introdotta per gravi ragioni di salute, era stata rifiutata provocandone la quasi cecità in seguito al parto.
«Il più grande ostacolo é costituito dai medici – insiste Wanda Nowicka - che, sempre più numerosi, si avvalgono della clausola di ’obiezione di coscienza’ prevista per legge, paralizzando così ospedali interi. Peccato che poi, nell’ombra, questi stessi non esistino a praticare aborti clandestini in costose strutture private». La Federazione dei consultori di Varsavia, infatti, calcola tra 80.000 e 200.000 gli aborti clandestini praticati ogni anno, contro le poche centinaia di interventi realizzati legalmente negli ospedali pubblici. La recente proposta di estendere il diritto all’obiezione di coscienza ai consultori costituisce, poi, un ulteriore allarme. «Sarebbe come dare il via libera legale alla filiera clandestina, con le conseguenze che conosciamo sulla vita e sulla salute delle donne».
Ma i diritti alla salute sessuale e riproduttiva, si potrebbe obiettare, non si riducono alla sola IVG. Ebbene, per quel che riguarda il diritto alla contraccezione, le cose vanno anche peggio. «In molti paesi dell’Europa centrale e orientale, un’adeguata contraccezione ha costi improponibili. In Russia e in Armenia, ad esempio, un trattamento anticoncezionale annuale costa più di un intervento di aborto terapeutico. Il risultato di queste scelte é sotto gli occhi di tutti: un incremento di gravidanze non desiderate e, quindi, di aborti clandestini, unico modo di risolvere il problema in uno Stato che non ammette altre possibilità legali».
Educazione sessuale, informazione, profilassi? Neanche a parlarne. «In Polonia, i programmi governativi sono sempre più influenzati dall’insegnamento cattolico che ne distorce i contenuti. Basta ricordare che le adolescenti ricevono informazioni sulla vita sessuale e riproduttiva all’interno di corsi di Educazione alla vita familiare e che le pratiche contraccettive illustrate fanno riferimento solo ai ’metodi naturali’, tacendo l’informazione necessaria a proteggere gli e le adolescenti da gravidanze non desiderate o dal rischio di contagio di malattie sessualmente trasmissibili, come l’hiv/aids».
La strada intrapresa dalla Polonia influenza pesantemente il dibattito politico dei paesi limitrofi. Nel 2007, un gruppo conservatore eletto nel parlamento lituano ha presentato una proposta di legge per restringere le condizioni dell’aborto legale, sull’esempio della legge polacca. Il parlamento ha accolto la proposta: la discussione e il voto sono previsti per la primavera di quest’anno.
La voglia di legiferare sul corpo delle donne ingaggia dunque una battaglia complessa che vede in difficoltà i movimenti femministi, lasciati soli dai partiti di sinistra che temono di perdere ulteriori consensi. «Sotto il comunismo – racconta Wanda Nowicka - il diritto all’aborto non era specificamente menzionato, semplicemente c’era, si faceva e il discorso finiva lì. Forse anche per questo non si era creato un dibattito intorno alla sua rivendicazione. Oggi é più che mai necessario tornare a politicizzare le donne e integrare i nuovi movimenti dell’Europa centrale e orientale a quelli dei paesi occidentali».
E l’Unione europea? Essa riconosce le pari opportunità come un principio fondamentale e come valore essenziale per la realizzazione della coesione sociale, l’eradicazione della povertà, l’obiettivo del pieno impiego e della crescita economica. E riconosce anche che esse non sono realizzabili senza il rispetto dei diritti alla salute sessuale e riproduttiva. Salvo poi incorporare il discorso su questi diritti nel sostegno alle politiche familiari, come si può osservare dalle linee-guida contenute nella recente Comunicazione della Commissione dal titolo Il futuro demografico dell’Europa: trasformare una sfida in un’opportunità.
«Nelle sue linee-guida, la Commissione non fa alcun esplicito riferimento al rispetto dei diritti riproduttivi - conclude Astra nel suo ultimo rapporto - a dispetto degli impegni presi a livello internazionale e di promuovere i diritti delle donne nei singoli Stati membri». Un posizionamento rischioso per il futuro delle pari opportunità in Europa.
Fonte: womenews.net
Fecondazione, l'ultima sfida: presto sperma dal midollo osseo delle donne
LONDRA - Scienziati inglesi dell’università di Newcastle Upon Tyne, avrebbero trovato un modo per trasformare le cellule staminali del midollo osseo femminile in spermatozoi. Alla
Cellule staminali (Ap)
scoperta dedica spazio il settimanale britannico New Scientist. Il professor Karim Nayernia, che guida l’equipe, sarebbe pronto a iniziare gli esperimenti entro i prossimi mesi, a patto, ovviamente, di avere le necessarie autorizzazioni, e si dice certo di potere produrre le prime cellule spermatiche femminili entro due anni. Lo sperma maturo, capace di fertilizzare gli ovuli, richiederà invece almeno tre anni di esperimenti. Una sorta di «primo stadio» dello sperm da cellule midollari sarebbe già stato prodotto bombardando le staminali del midollo osseo di topi con vitamine e altri composti chimici. Secondo gli scienziati la scoperta potrebbe rappresentare una tappa fondamentale nella lotta contro l’infertilità. C’è solo un piccolo particolare che va tenuto presente: i bambini nati in questo modo potrebbero essere esclusivamente di sesso femminile, perchè nella riproduzione non entrerebbe in gioco il cromosoma Y, che è patrimonio esclusivo dei maschi.
PROSPETTIVE INQUIETANTI - Ma gli scenari aperti da questa scoperta, anche a livello etico, possono diventare inquietanti: le ricerche potrebbero consentire a una donna di aver un bambino «tutta da sola», grazie allo sperma prodotto dalle cellule del proprio midollo osseo e ai propri ovuli. E la cosa potrebbe verificarsi anche per un uomo, che potrebbe produrre similarmente le cellule uovo dal proprio midollo osseo. In entrambi i casi si tratterebbe di ipotesi ad lato rischio di anomalie genetiche.
31 gennaio 2008(ultima modifica: 01 febbraio 2008)
Fonte: Corriere
venerdì 1 febbraio 2008
Tredicenne rapita e violentata a Marostica
VICENZA. Un operaio vicentino di 44 anni è stato fermato dai carabinieri con l’accusa di aver violentato una ragazzina di 13 anni che aveva condotto in un luogo appartato, sulle colline sopra Marostica (Vicenza), dopo averla fatta salire con uno stratagemma sulla propria auto. La ragazza era stata raccolta ieri sera sulla strada da un automobilista, lacera, ferita e sotto choc; era riuscita a fuggire dal suo aguzzino buttandosi lungo una scarpata erbosa.
L’aggressore non l’aveva più trovata a causa del buio. Così la ragazzina potrebbe essere scampata alla morte. L’uomo in stato di fermo, con l’accusa di violenza sessuale aggravata dall’uso di un coltello, è Antonio Bombieri, originario del bassanese, residente ad Arsiè (Belluno); ai carabinieri, che l’hanno prelevato in casa la scorsa notte, ha negato ogni responsabilità. La 13enne ha però riconosciuto una foto di Bompieri come quella del suo violentatore.
La ragazzina ha raccontato ai carabinieri che stava giocando in bicicletta con un coetaneo in un piazzale di Sandrigo, quando mercoledì pomeriggio è stata avvicinata da un uomo, a bordo di una Opel Astra station wagon. Presentandosi come un assessore comunale, l’uomo ha offerto prima 50 euro a chi dei due ragazzini lo avesse aiutato, salendo in macchina, a trovare il vicino paese di Breganze. I due teenager hanno dapprima rifiutato; l’uomo allora ha alzato la sua offerta a 200 euro. Il maschietto si è tirato indietro, mentre la ragazzina, di origine ungherese, ha accettato ed è salita sulla Opel. L’amichetto, insospettito, si è però annotato il numero di targa, digitandolo sul cellulare, e una volta a casa ha avvertito la mamma. La donna ha allora cercato di contattare al telefonino l’amica del figlio. «...Non capisco, stiamo andando verso la montagna» avrebbe avuto solo il tempo di dire la ragazzina, prima che si interrompesse la comunicazione. Da lì in poi è iniziato probabilmente l’incubo della ragazza, che sarebbe stata portata in una zona isolata a Bradipaldo, sopra le colline vicentine. Qui, minacciandola con un coltello, l’uomo l’ha molestata sessualmente, a lungo, ferendola anche ad un dito. Secondo quanto emerso dai primi accertamenti, non vi sarebbe stato un rapporto sessuale completo. Approfittando del buio e di un attimo di distrazione dell’aggressore, la ragazza è riuscita a scappare, buttandosi a capofitto tra la vegetazione e raggiungendo la strada. Nel frattempo la madre del suo amico aveva dato l’allarme ai carabinieri, che con il numero di targa sono risaliti al proprietario della Opel; un uomo abitante in provincia di Varese, il quale ha spiegato agli investigatori di aver ceduto l’auto al proprio cognato, Bompieri appunto. Dopo altri riscontri i militari si sono recati a casa dell’operaio, ad Arsiè, trovando la Opel con il motore ancora caldo. L’uomo ha negato tutto. A Bompieri i carabinieri hanno sequestrato anche un coltello su cui saranno svolti accertamenti per verificare se abbia tracce del dna della ragazzina. La 13enne, dopo il drammatico racconto ai carabinieri, è stata accompagnata all’ospedale di Marostica.
Fonte: Espresso