Dal numero di gennaio di MicroMega
redazione
Dal numero 1/2008 di MicroMega anticipiamo ampi stralci del dialogo tra Mariella Gramaglia e Cinzia Sciuto. La vita e la morte, gli embrioni e i bambini, la Chiesa e la politica. I corpi delle donne. Di fronte a chi – impunemente – definisce l’aborto un omicidio (e dunque le donne assassine) e ne propone una moratoria, un dialogo franco tra due donne, un confronto tra generazioni.
Mariella Gramaglia: Prima di entrare nel merito del nostro dialogo, tengo a una premessa. Da diversi anni a questa parte, ho cominciato a praticare la tradizione spirituale buddista. Uso questa formula non a caso, perché si tratta esattamente di un lavoro di disciplina interiore: non direi mai “sono buddista”, come se indossassi una divisa. Visto però che il tema di questo nostro dialogo è l’aborto e, dunque, anche il rapporto con la vita e il suo valore, mi sembra opportuno – soprattutto per i lettori di MicroMega, che certamente legano il mio nome alla tradizione del femminismo laico italiano – esprimere chiaramente questa dimensione che ormai ispira i miei sentimenti personali e il mio rapporto tra la dimensione morale e la dimensione pubblica.
È una premessa importante perché sia chiaro che, dal punto di vista dei princìpi regolativi che orientano l’agire delle donne e degli uomini, io sono fortemente interessata al superamento dell’aborto. In altri termini, sul piano morale, a me interessa moltissimo lavorare ad una relazione tra gli esseri umani che si basi su un’idea di connessione, di non violenza, di non rottura degli equilibri e delle emozioni che collegano gli esseri viventi gli uni con gli altri (e quando parlo di esseri viventi mi riferisco anche a quelli che nella tradizione giudaico-cristiana non sono tenuti in gran conto: per esempio sono interessata a capire perché in grandi tradizioni spirituali si pratichi il vegetarianismo, o perché in grandi tradizioni morali si rispetti moltissimo la vita degli animali).
Dunque, tenendo conto di questa premessa, il punto, secondo me, è il seguente: in una società fortemente globalizzata come la nostra, in cui è impossibile chiudere gli occhi e le orecchie davanti alle sofferenze del mondo, davanti a quanti sono costretti a tollerare anche l’intollerabile, se, in quanto intellettuali, in quanto persone aperte alla consapevolezza, dobbiamo farci carico delle grida del mondo, non possiamo farlo a corrente alternata.
E invece dobbiamo avere il coraggio morale, faticosissimo in un momento di così grande crisi dei valori della sinistra, di rimettere in campo il rispetto per la vita in tutti i suoi aspetti: penso all’orrore della prostituzione coatta, che è una forma di omicidio lento di centinaia di migliaia di ragazze, ma penso anche alla recrudescenza delle morti sul lavoro. Io che torno da una lunga esperienza indiana, non posso fare a meno di pensare che in India ci sono 42 milioni di bambini che lavorano (non lavoricchiano, lavorano sul serio, dodici ore al giorno, nelle officine con gli acidi, nelle cave...). E allora, se si vuole realmente impegnarsi nella difesa della vita, bisogna allargare lo sguardo, e rivolgerlo anche alle persone che già oggi in carne ed ossa vivono sul nostro pianeta, e non in primo luogo agli embrioni. Se si assume questa prospettiva, vi assicuro che di lavoro da fare – politico, sociale e morale – ce n’è tantissimo.
Cinzia Sciuto: È necessario che anch’io faccia una premessa. Sono nata nel 1981, giusto in tempo per non vivere quella grande stagione di lotte che ha fatto fare al nostro paese un notevole salto in avanti sulla linea del progresso sociale e civile. Divorzio e aborto erano già legge e, quando ho iniziato a guardarmi un po’ attorno, facevano già parte integrante del mondo che mi circondava. Li ho sempre considerati come ovvi riconoscimenti del diritto di ciascuno (e soprattutto di ciascuna) di decidere cosa fare della propria vita (i conti con un eventuale di Dio – ho sempre pensato – ciascuno li fa per proprio conto). E soprattutto per tanto tempo non ho neanche concepito la possibilità che qualcuno potesse metterli in discussione.
Purtroppo mi sono presto dovuta ricredere e scoprire che c’è invece un fronte – non molto ampio, ma piuttosto potente – che cerca in tutti i modi di far fare all’Italia dei passi indietro, perlopiù a scapito delle donne. A me interessa molto cercare di capire cosa c’è dietro, quali sono le reali intenzioni di queste offensive, ma prima ci tengo a fare un’osservazione sulla tua premessa. Tu hai voluto, giustamente, chiarire il percorso spirituale che da qualche anno stai facendo e lo hai in qualche modo legato alla tua posizione di principio, per la quale sei fortemente interessata alla ricerca di relazioni armoniche fra gli esseri viventi, al superamento delle rotture e, dunque, al superamento anche dell’aborto.
Questa dichiarazione di principio mi mette in qualche senso a disagio: come se – di fronte all’offensiva reazionaria – fosse necessario mettersi sulla difensiva e, prima di entrare nel merito, premettere di non essere degli ultrà dell’aborto, di non essere “abortisti” (parola orribile, che nessuno dei sostenitori della 194 si sognerebbe mai di usare per definirsi). Premessa che dovrebbe essere data per scontata e, soprattutto, non legata ad uno specifico percorso spirituale: tendere ad aborti zero è l’intenzione e la speranza di tutti coloro che sostengono il diritto all’aborto e, soprattutto, di tutte le donne, uniche vere protagoniste.
Ora, siccome non ritengo plausibile che qualcuno pensi sinceramente e in buona fede che chi sostiene il diritto all’aborto sia un nemico della vita, devo per forza dedurne che utilizzare questo linguaggio – abortisti, nemici della vita, cultori della morte, addirittura omicidi – sia necessariamente orientato ad un secondo fine. Cosa c’è dietro queste offensive? Credo sia importante domandarselo, perché ho la sensazione che la posta in gioco sia molto alta: il controllo sociale delle coscienze.
Gramaglia: L’autodeterminazione – è uno dei cardini del pensiero femminista – è un atto di responsabilità che riguarda un processo che avviene dentro di te. Che il corpo appartenga a ciascuna donna dovrebbe essere un’ovvietà. È paradossale pensare di potere decidere sul corpo di qualcun altro. È tecnicamente impossibile impedire ad una donna che vuole abortire di farlo, nel senso che glielo si può proibire, la si può costringere a tornare all’aborto clandestino, la si può anche mandare in galera, ma è materialmente impossibile obbligare una persona a fare del proprio corpo qualcosa che decide qualcun altro. È una cosa insensata, che non ha nessun fondamento esistenziale. È proprio perché quel che conta è l’aspetto esperienziale ed esistenziale della relazione simbiotica tra la madre e il feto, che non mi appassiona affatto il dibattito su cosa sia un embrione: è una persona? un grumo di cellule? Non lo so che cos’è l’embrione, e non credo neanche che sia dirimente saperlo.
Sciuto: Anch’io credo che invischiarsi nel dibattito su cosa sia l’embrione non sia utile. Significherebbe accettare il glossario messo sul tavolo da chi sta portando avanti quest’offensiva reazionaria e accettare in linea di principio che l’aborto possa davvero qualificarsi come omicidio: se si stabilisce che l’embrione è una persona fin dal concepimento, allora l’aborto è un assassinio. Inserirsi in questo dibattito, provando a contrastare questa tesi sostenendo che l’embrione non è una persona non ci porta molto lontano. Bisogna invece smarcarsi, e portare la discussione sul terreno dell’esperienza concreta delle donne e del loro diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo (che è il “proprio” anche quando è iniziato un processo che porterà alla nascita di un’altra persona).
Gramaglia: [...] Mi preoccupano in particolare due possibili effetti. Il primo è la possibilità che nascano dei vendicatori. Noi siamo ancora nell’ambito di un dibattito civile, ma negli Stati Uniti d’America, dove la parola “omicidio” a proposito dell’aborto è diventata cattiva moneta corrente, cominciano ad esistere davvero i vendicatori, quelli che minacciano e talvolta ammazzano sul serio i medici che praticano gli aborti [...]. La seconda conseguenza che mi preoccupa molto è che questo clima culturale possa trasformare le donne da cittadine a mendicanti di un’assistenza che non è più un diritto, ma elemosina. C’è il rischio che aumenti l’obiezione, che si allunghino le liste d’attesa, che le donne siano costrette a fare mille giri per trovare finalmente l’ospedale come se chiedessero appunto la carità e non il rispetto di un diritto.
Sciuto: [...] Non ha niente di civile proporre una moratoria sull’aborto, accostandola a quella sulla pena di morte. Forse hai ragione: la 194 non sarà toccata. E probabilmente non è neanche questa l’intenzione di chi ha proposto la moratoria. A costoro basta creare un clima culturale di colpevolizzazione della donna e i rischi di cui tu hai parlato sono gravissimi. Per scongiurarli ritengo che vada decisamente rifiutato il dialogo con chi pone la questione sul piano di una lotta tra una cultura della vita e una cultura della morte.[...] E l’apertura di Veltroni a Ferrara ha costituito la patente di legittimità della sua posizione nel dibattito pubblico. Io credo che posizioni come queste debbano essere semplicemente bandite dal discorso pubblico, per far spazio a un serio discorso pubblico sull’aborto.
Gramaglia: [...] Perché non esiste un movimento delle donne così autorevole e forte in grado di dire a Veltroni: sono io che voglio incontrarti, sono io che voglio dirti qual è l’agenda? Negli anni c’è stata un’abdicazione, per cui non ci sono a sinistra soggetti forti in grado di dire parliamone dal mio punto di vista, e questa mi provoca una grandissima amarezza. Detto questo, se Veltroni vuole incontrare Ferrara, faccia pure.
Sciuto: [..]Se queste posizioni mostruose, oscene ottengono visibilità – con i conseguenti gravissimi rischi che tu citavi – è anche perché vengono accolte come accettabili nel dibattito pubblico. Ci sono certe cose che la coscienza collettiva giudica dei tabù, sui quali non è consentita la discussione. Ecco: parlare di aborto associandolo alla pena di morte (per di più strumentalizzando in maniera becera una battaglia di grandissimo valore civile, come è stata appunto la moratoria sulla pena di morte) dovrebbe semplicemente indignare e far scattare il meccanismo del tabù.
Gramaglia: Io credo invece che proprio il dibattito aperto sia il contributo migliore per evitare che il discorso degeneri fino a raggiungere i livelli di pericolosità cui accennavo prima. Non credo che isolare queste posizioni ci preservi dal rischio del vendicatore con il fucile.
Micromega 1/2008
Fonte: womenews.net
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