martedì 30 luglio 2013

Nessuno sa di noi – Simona Sparaco

Da Intersezioni

Nessuno sa di noi
, scritto da Simona Sparaco e candidato al Premio Strega 2013, racconta il dolore di una gravidanza attesa, ma destinata a interrompersi prematuramente.
I personaggi principali del romanzo sono Luce, una giornalista free lance che sembra non aver mai preso realmente in mano la propria vita, Pietro, suo compagno benestante e paziente, al quale lei si affida completamente, e  Lorenzo, figlio desiderato, immaginato, sentito, che la coppia è costretta a seppellire prematuramente. Personaggi che agiscono in funzione del vero protagonista: l’aborto tardivo e il suo significato per chi lo vive dall’interno. Sullo sfondo un mondo opaco, sordo ai bisogni delle persone, feroce.
Siamo tutte qui.
Ognuna con il proprio trofeo, più o meno in evidenza, e la cartella clinica sottobraccio. Tutte ordinatamente sedute, come a scuola per un richiamo dal preside. Qualcuna sfoglia una rivista, con l’espressione vaga e compiaciuta di chi sa che la passerà liscia. Qualcun’altra, invece, se ne sta a testa bassa, con le mani serrate in un intreccio nervoso. Come se dietro quella porta color pastello ci fosse davvero la minaccia di un’espulsione.
Siamo tutte madri nell’attesa di un’ecografia.
Nessuno sa di noi
pag. 7
Displasia scheletrica. Due parole che insieme suonano così infauste. Le digito in un motore di ricerca e non per scrivere un articolo sulla malasanità, ma per la vita di mio figlio.
Nessuno sa di noi
pag. 35
«Non posso suggerirvi un’interruzione di gravidanza» prosegue il dottor Piazza, incrociando le braccia, in un gesto di chiusura definitiva. «Anche se le condizioni del feto potrebbero rivelarsi incompatibili con la vita. In Italia è consentita solo fino alla ventitreesima settimana, non oltre.»
«Che significa?» domanda ancora Pietro, e mi stringe forte la mano.
«Se rientrassimo nei limiti di legge, potrei proporvi di anticipare il parto. Alla ventitreesima settimana e in queste condizioni, il feto non ce la farebbe. Stiamo parlando di un aborto conosciuto come terapeutico o eugenetico. Ma nel vostro caso siamo ben oltre i termini consentiti.»
Parla ancora al plurale. Questa volta di sopravvivenza, di leggi e limiti. Il pronome è sbagliato, però, non c’è un noi in questa stanza. O forse sì; noi siamo io e Lorenzo.
«Mi faccia capire» lo esorta Pietro. E’ pallido, deglutisce a fatica, si muove nervoso sulla sedia, non come la madre, che mantiene la testa alta e la schiena dritta. «Queste malattie così gravi e incompatibili con la vita si possono scoprire solo quando si è arrivati così avanti con la gravidanza che non si può più interrompere?»
«Per interruzione, in questo paese, si intende la possibilità di anticipare il parto. Il limite è stabilito in base all’autonomia del feto rispetto al ventre materno. Un feto di ventitré, anche di ventiquattro settimane, non sopravvive al di fuori dell’utero e può essere quindi abortito.»
Il dottore ci guarda, forse in attesa di una reazione. Ma siamo tutti e tre ammutoliti. «A dire la verità» riprende, come se si sentisse in dovere di precisare «ci sono stati casi in cui feti abortiti sono spravvissuti ugualmente, perché le tecniche di assistenza neonatale progrediscono di anno in anno, e per legge un medico ha il dovere di metterle in pratica qualora ce ne fosse bisogno. Un feto abortito che sopravvive è però un feto con una grave patologia a cui si aggiunge una serie di problematiche legate al fatto che è nato pretermine, per dirvela in parole chiare. Ed è per questo che a livello parlamentare si sta pensando di abbassare ulteriormente il limite consentito a ventidue settimane.»
Sono travolta da flash di bambini microscopici e malati costretti al sacrificio crudele di venire al mondo, solo per esalare il loro primo e ultimo respiro. O che riescono a sopravvivere al parto, e crescono, isolati, malnutriti, dentro un’incubatrice, nient’altro che un ventre di plastica, asettico e rigido, che li accoglie invece di ripudiarli.
«Noi siamo alla ventinovesima settimana» riassume Pietro, stringendo la mia mano ancora più forte. «Abbiamo davanti ancora due mesi abbondanti. Ma lei mi sta dicendo che mio figlio potrebbe non farcela, oppure, da quello che so, andare incontro a una vita breve, dolorosa, con dei ritardi cerebrali, o peggio, un quoziente intellettivo al di sopra della norma?»
«Lo so.»
«E allora?» lo incalza Pietro. Ha gli occhi fissi sul dottore. Il panico si sta trasformando in rabbia e in sfida. Mi lascia andare la mano. Sento la sua presa salda venire meno un dito alla volta. Il bottone del pulsante che s’allenta, l’emicrania che mi spacca in due la scatola cranica. Impazzisco. Mi spengo.
«E allora» ripete il dottor Piazza inarcando le sopracciglia «sarà fatta la volontà di Dio.»
Nessuno sa di noi
pag. 54-55
Numerose sono le critiche piovute su questo libro a causa dello stile non particolarmente brillante, con personaggi abbozzati o troppo stereotipati che agiscono meccanicamente. E pure, spostandoci dal piano della pura critica letteraria a quello del solo contenuto, Nessuno sa di noi, colpisce perché si fa carico di una tematica tabu, l’aborto in fase avanzata, senza sconti emotivi, mettendoci di fronte ai dubbi e al dolore di una donna, e di una coppia, in fin dei conti fortunata rispetto alla media, perché potrà permettersi un viaggio in Inghilterra, dove sarà possibile interrompere la gravidanza oltre il termine stabilito dalla legge italiana, e avrà la possibilità di giungere, in fine, a un nuovo equilibrio di coppia e personale. In questo senso Nessuno sa di noi offre un servizio che si rende ormai urgente, inderogabile, alla nostra società, che stigmatizza e oscura il ricorso all’aborto: parlare di interruzione di gravidanza senza pregiudizi, mettendo in un angolo tutti i “se” e i “ma” con i quali si riempiono la bocca i moralisti con la vita degli altri, i ‘coscienziosi’ detrattori del diritto alla scelta. Non dà risposte, mette in campo la libertà di scelta, in un contesto, quello italiano, in cui da anni il dibattito sull’aborto è inquinato a causa di interessi politici, inciviltà e derive inquisitorie. Ma amore, coscienza e rispetto, possono esprimersi attraverso modalità inaspettate, al di sopra delle tifoserie del ‘pro’ e del ‘contro’.
E’ così che Nessuno sa di noi si trasforma in romanzo commovente e necessario.
Nessuno sa di noi
Simona Sparaco
Isbn 9788809778047
Giunti, 2013
pag. 256
€ 12,00

mercoledì 24 luglio 2013

Alla periferia del maschile. Il lavoro con i "sex offenders" a Regina Coeli

Olivier Malcor, Parteciparte 24 luglio 2013 da zeroviolenzadonne

Lavorare con gli "stupratori occasionali" presenta diverse difficoltà. Una delle principali è la negazione del reato. Si considerano quasi tutti innocenti e vittime di un fraintendimento o di un complotto: "è stato un bacio mal interpretato", "il carabiniere dall'animo poetico ha romanzato la dichiarazione della donna" etc.

Negare il reato per loro ha un costo alto davanti alla legge. Non beneficiano dell’alleggerimento di circa un terzo della pena previsto per chi si riconosce colpevole; invece di fare 4 anni ne fanno 6 per es.
La seconda difficoltà che emerge dal lavoro con loro è la loro forte irritazione per una società che, da un lato promuove e trasmette a tutti i livelli una cultura maschilista e una visione dei ruoli maschili e femminili ben determinata, e dall’altro si stupisce di chi ha concretizzato certi precetti, e li etichetta come i peggiori mostri. Come non pensare all’immagine della donna nella pornografia o alla sua versione chic nella pubblicità, o alla religione che assegna alla donna il ruolo molto limitante di ‘costoletta sussidiaria’ dell’uomo, o ancora ai commentatori delle partite di calcio che invocano la necessità di “penetrare la difesa” o “violare la porta avversaria”, solo per fare qualche esempio.
In questo contesto sarebbe di cattivo gusto andare a dare lezioni ai detenuti su come considerare le donne. E infatti non sono disposti a farsi dare lezioni, anzi, sono loro a “poter aiutare chi sta fuori” e quello che chiamano “lo scontro di opinioni” può anche finire male, visto che scelgono di fare più anni di carcere anziché ammettere il reato.
Per questo motivo il Teatro Dell’Oppresso (TDO) si rivela un metodo privilegiato per affrontare la violenza maschile. Il TDO aiuta le persone a far emergere ed affrontare i disagi e le difficoltà vissute riportandole al sistema più generale che rendono possibili questi disagi. Si parte dal materiale che si manifesta nella spontaneità dei giochi e delle improvvisazioni. Tutto si fa attraverso tecniche ludico teatrali.
Teoricamente il TDO si usa con le persone più oppresse, con chi subisce un sistema oppressivo (maschilismo, razzismo e capitalismo sono i più comuni), ma sarebbe impossibile affrontare, smontare e sormontare il maschilismo evitando il confronto con chi lo veicola.
Si usano tecniche graduali per mettere in scena le situazioni in cui i detenuti si sentono in difficoltà nel gestire le proprie emozioni, pensieri e reazioni. Si parla quindi di disagio più che di oppressione.
Si lavora molto sulle situazioni ‘pericolose’, quelle che potrebbero far tornare in carcere. Si lavora molto sull’approfondire la comprensione delle situazioni difficili vissute.

Ciascuno mostra la propria scena riguardante un problema che tocca tutti (per es. le separazioni). Come facilitatore pongo solo delle domande per guidare l’analisi del problema rappresentato: “Perché ha perso la pazienza in questa scena di separazione”, “secondo voi cosa lo fa sentire giustificato a usare questa strategia?”, “in quale momento si è azionato il pilota automatico?” etc.
Poi si propone ai partecipanti di mostrare cosa farebbero nei panni dell’uomo in difficoltà. “Come gestiresti questa separazione ?”, A turno entrano in scena per mostrare diversi modi di affrontare la situazione. Questo innanzitutto permette loro di vedere che, per ogni situazione, non c’è una reazione meccanica obbligatoria, un ‘dovere maschile’, un’emozione scontata, e sono loro stessi a dimostrarlo. Infatti  sono orgogliosi di mostrare che sanno trovare alternative e soluzioni. In questo modo allargano il loro orizzonte di possibilità e di ruoli, laddove il carcere potrebbe averlo ristretto, condannandoli all’identità di “stupratori”. Scoprono così che non c’è più un solo modo di rispondere a un disagio.
A volte chiedo anche di invertire i ruoli: chi ha agito violenza deve recitare il ruolo della donna che voleva separarsi. Mettendosi nei panni della donna, si indaga sulle emozioni che si provano in quel ruolo e si lavora sulla nozione di autonomia: “può una donna decidere di separarsi?”, “perché solo a certe condizioni?”, “chi decide in quali condizioni?”. Solo gli Italiani hanno accettato di recitare i ruoli femminili; ma tutti sono rimasti spiazzati da questo cambiamento di prospettiva.
Tutte le scene vengono recitate dopo aver fatto una serie di giochi ed esercizi progressivi che permettono di uscire dalla spirale delle giustificazioni e del controllo di tutto ciò che si esprime. Si sviluppano nuove capacità nella spontaneità  e nelle sfide da sormontare, nelle emozioni da gestire, nelle collaborazioni da creare, si lavora sulla comunicazione e l’ascolto, molto limitati anche dalle condizioni di detenzione. Attraverso questi giochi i detenuti possono rendersi conto, guidati dal facilitatore, delle difficoltà che hanno e delle necessità di lavorarci sopra.
L’obiettivo in particolare è quello di fare emergere nella spontaneità i principali disagi affrontati nelle relazioni tra i sessi. Alcuni disagi emergono in modo costante. Prima di tutto la paura che la donna possa essere o diventare indifferente. Sia l’indifferenza di una donna conosciuta, sia quella di una donna che non si conosce affatto. Non a caso l’approccio è un tema chiave. La paura del rifiuto, il timore di non essere all’altezza, di non “rimorchiare” bene fanno dell’approccio un momento di alta tensione. Nell’approccio si cerca di conquistare il consenso della donna, ma questo implica che siano già determinati i ruoli di chi approccia e chi si fa approcciare. Inoltre non basta un solo consenso: per es. la donna può accettare di dire l’ora ma non di andare a bere una birra. Quindi vanno negoziati diversi consensi.
Durante il laboratorio abbiamo vissuto momenti bellissimi. Un detenuto molto educatamente voleva forzare una donna a sedersi, alla fermata dell’autobus. Un altro la voleva convincere che c’erano degli stupratori in giro da cui lei doveva essere protetta. Insomma ci è voluto poco affinché il più maschilista di tutti, dopo 30 anni a Regina Coeli, riconosca: “non so rimorchiare”. Da lì è iniziato un percorso sulla capacità di entrare in relazione con l’altro sesso molto partecipato. Ogni volta si analizzavano le nuove modalità proposte in scena. Un giorno ha partecipato al laboratorio una delle operatrici della Cooperativa Be Free, all’origine del progetto, che dopo le analisi e le valutazioni dei detenuti, ha dato il suo parere sui diversi approcci; quel parere è stato accolto dai detenuti come la massima verità sul tema.
Anche in questo caso, lavorare sull’approccio “pesante”, che va direttamente a sondare la possibilità di avere una relazione sessuale, ma invertendo i ruoli tra uomo e donna, (tra chi è attivo e chi è passivo nelle relazioni sessuali secondo gli stereotipi) ha dato grandi risultati.
I concetti relativi al consenso e all’autonomia sono fondamentali e il detenuto ha grande voglia di approfondirli, purché non sia fatto in modo infantilizzante, purché possa essere lui il perno dell’evoluzione e del cambiamento.
Probabilmente questo lavoro è stato troppo breve per produrre risultati valutabili e pretendere grandi cambiamenti. Ma ha permesso tuttavia di individuare le piste fertili che consentono di evitare lo scontro improduttivo da un lato e le collusioni rischiose dall’altro. È un lavoro che andrebbe fatto in modo costante con i detenuti. Ma come spiegare e far capire  che i detenuti “stupratori” hanno anche bisogno di imparare a entrare in relazione con persone di sesso diverso? Come argomentare che l’approccio, il momento della prima conoscenza di un'altra persona, è un momento privilegiato e complesso per tutte le dinamiche che ci si manifestano, tutti i pregiudizi e gli stereotipi che ci entrano in gioco, tutte le emozioni che scatena? Il TDO è un metodo privilegiato per affrontare questi temi perché offre una palestra per lavorare su situazioni quotidiane, normalmente poco prese in considerazione, o delicate da affrontare.
Ancora più urgente è convincere i politici e gli amministratori che è necessario affrontare le tematiche delle relazioni fra i sessi  a partire dai ragazzi e dalle ragazze e che bisogna cominciare questo lavoro sulla capacità di entrare in relazione e di gestire la frustrazione delle separazioni laddove non si è ancora consolidato il modello stereotipato al quale si aderirà. Non a caso Parteciparte lavora molto con il TDO sugli stereotipi e sulle situazioni conflittuali che ne scaturiscono nelle scuole.
Miriamo alla partecipazione attiva e numerosa dei ragazzi e delle ragazze. Sono loro a creare le scene, sono loro ad analizzare i problemi di genere, ad insegnarci quali sono le regole del maschilismo. Regole scomode anche per i maschi. Con la distanza che da la messa in scena, questo diventa evidente a tutte/i.
Nei laboratori i ragazzi e le ragazze sono ben contenti di potersi confrontare liberamente su quali sono i problemi legati al genere che vivono nella loro quotidianità, di mettere in discussione e trasformare i modelli, di provare alternative per costruire rapporti creativi e rispettosi e di poter essere i protagonisti di questa ricerca e di questa trasformazione. Spesso vogliono anche vedere come ‘l’adulto’ se la cava nelle situazioni…
Perciò più che ricette e kit metodologici, che mi vengono spesso chiesti, credo che il facilitatore debba essere pronto a mettersi in gioco, ad improvvisare sulle problematiche di genere, a proporre il gioco più appropriato al momento, ma più di tutto deve avere rielaborato anche lui i suoi vissuti rispetto ai problemi di genere. Ho scoperto questo grazie a Maschile Plurale, un’associazione dove si condividono esperienze, si rielaborano vissuti, si parte da se stessi, si fa politica, con un’ottica di genere.
Negli spettacoli, dove il pubblico interviene per provare soluzioni, quando una persona prende posizione contro un modello o per inventarne uno diverso, lo fa in nome di tutti. L’evoluzione è sempre decretata e celebrata dal pubblico e sembra che sia poi difficile tornare indietro e riprodurre modelli contro i quali si è lottato, in scena, davanti a tutti, con tanti.
Dato il duplice lavoro – di rielaborazione del passato e di costruzione del futuro - crediamo che abbia un’enorme rilevanza ed efficacia il lavoro sulla prevenzione, prima di quello sul recupero in carcere con i detenuti. Anche perché aspettare il disastro ha un costo altissimo per tutta la società.
Infatti il fenomeno della violenza maschile sulle donne è tanto commentato, ma ben poco combattuto alle radici. Si parla tanto di donne vittime, ma quando si parla di uomini violenti è  solo per mostrarne uno strano o straniero, uno irregolare insomma.
Ci si potrebbe quasi chiedere se questa comunicazione deleteria che tace i costi del maschilismo fa comodo per ricordare alle donne più emancipate che c’è sempre un uomo pronto a rimetterle in riga. E se i media sono i motori di questa campagna controproducente, sarà una bella sfida per il teatro far capire e scardinare le dinamiche politiche che sottendono il problema. Sfida che a Parteciparte abbiamo deciso di raccogliere con spettacoli come “Da paura”, “Amore Mio” o “Brucio d’amore”.
In pieno centro, il Carcere di Regina Coeli ci offre la visione più completa delle periferie del maschile, ai confini, dove si consolidano le regole più dure, quelle che giustificano poi i reati più violenti in tutta la società. Dalla periferia al centro questo materiale diventa un tesoro che permette di individuare alla radice, i moti, le sentenze, le molle più discrete che potrebbero permettere al peggio di accadere. Il Teatro Dell’Oppresso rende visibile tutto questo, in modo che non si possa più non vedere. Ma ci permette anche di decostruire un maschile misero che non regge più il peso di stereotipi invivibili. Ci dà la voglia e gli strumenti per costruire un maschile aperto, plurale, capace di accogliere l’autonomia femminile e tutto l’arcobaleno di desideri tra i sessi.
 
Fonte: http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=37036

mercoledì 17 luglio 2013

Ciò che dovrebbe essere condannato sono gli atti e non le parole che servono a denunciarli

Femminicidio.

Dall'Accademia della Crusca
Quesito: 


C’è necessità di una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre? Che senso ha sottolineare il sesso di una vittima? Non è offensivo per le donne parlare di loro usando la parola femmina, che pare “più propria dell’animale”? Perché non usare donnicidio, muliericidio, ginocidio o ciò che già abbiamo, uxoricidio? Legittimando femminicidio non provocheremo una proliferazione arbitraria di parole in -cidio?

Femminicidio: i perché di una parola
Recentemente si parla molto di femminicidio (o anche femicidio e femmicidio e del valore delle varianti vedremo dopo) intendendo non solo l’“uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Abbiamo riportato la definizione di femminicidio in Devoto-Oli 2009, ma il termine è attestato anche in ZINGARELLI a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani online, mentre GRADIT 2007 ha femicidio registrato anche nei Neologismi Treccani 2012 come “femmicidio o femicidio”.

Ci sono state e ancora ci sono resistenze all’introduzione del termine, quasi fosse immotivato o semplicemente costituisse un voler forzatamente distinguere tra delitto e delitto semplicemente in base al sesso della vittima; quasi fosse neologismo frutto di una delle tante mode linguistiche più che del bisogno di nominare un nuovo concetto.
In effetti ciò che viene oggi indicato da questa parola è anche storia antica, anche per il nostro paese, come nota Silvia Leonzi in A casa con il nemico pubblicato nel numero di Marzo 2013 della rivista “Il Carabiniere”:

di omicidi femminili commessi da uomini la nostra storia è tristemente piena [...] e allora, perché solo adesso si sente l'esigenza di trovare un nome specifico per questa realtà? Che cos'hanno di diverso queste morti?
Cos'è cambiato nella nostra percezione
di un fenomeno tanto oscuro quanto atavico?

Una risposta possibile a questa domanda è in quanto Michela Murgia scriveva nel suo blog il 2 settembre 2012 a proposito di una notizia pubblicata quel giorno su Repubblica.it in questa forma:
Fano, uccide la moglie in un raptus di gelosia “L'uomo [...] ha accoltellato la donna, che ha tentato di difendersi inutilmente, dopo un violento litigio davanti ai quattro figli…”.

«Nel giornale che vorrei – scrive la Murgia – la notizia sarebbe stata data così: Fano, giovane donna uccisa a coltellate davanti ai suoi figli e poi “Arrestato l'autore del violento femminicidio: era il marito”».
Non si tratta solo di una parola in più, allora, per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi.
Quanta strada, almeno nel nostro paese, sia stata percorsa dalle istituzioni è efficacemente sintetizzato nel testo citato di Silvia Leonzi di cui si ricorda solo un passo a beneficio dei più giovani:


Ed è proprio per la salvaguardia dell'onore che fino al 1981, nel nostro ordinamento, […] per un uomo [che uccide] la moglie, se colto da un impeto d'ira determinato dall'offesa recata [sono previste] pene minori rispetto a un analogo delitto di diverso movente, dal momento che l'oltraggio arrecato all'onore è ben più grave rispetto al delitto riparatore. Infatti, l'articolo 587 del Codice penale, abrogato con la Legge n. 442 del 5 agosto 1981, contempla una pena ridotta per chi uccida la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere "l'onor suo o della famiglia". 

Credo che questo basti a dare conto delle proporzioni e delle conseguenze del rovesciamento del punto di vista auspicato dalla Murgia: non si tratta solo di parole di moda evidentemente.
Alcuni vedono nell’introduzione di femminicidio esclusivamente la sottolineatura (forzata) dell’appartenenza della vittima al sesso femminile, come per esempio si argomenta in un messaggio “postato” sulla pagina Facebook di La lingua batte, rubrica settimanale di Radio3 che si è recentemente occupata di femminicidio:

La parola omicidio deve essere eliminata dal vocabolario giuridico, ma non sostituita dalla parola femminicidio, o da qualsiasi altra parola che indichi una violenza mortale di genere. Siamo tutti esseri umani; perché, quindi, non usiamo umanicidio?

A questa domanda possiamo rispondere che se ci riferiamo a una situazione “neutra”, una donna uccisa nel corso di una rapina in banca, si può parlare di omicidio (o magari chissà in futuro di umanicidio) ma di fronte a una notizia come questa

India, violentata e uccisa a sei anni: Nuovo, agghiacciate caso di stupro nell'Uttar Pradesh: la piccola è stata strangolata e gettata in una discarica (La Repubblica.it 19.04.2013)

#StigmaKills il 19 luglio 2013 a #Roma protesta contro la violenza sulle #sexworkers

ICRSE, il Comitato Internazionale per i Diritti delle Sex Workers in Europa invita tutti i suoi membri, le organizzazioni, gli individui, i/le professionist* del sesso e sue/suoi alleat* a unirsi e protestare contro i recenti omicidi di Jasmine e Dora, contro il violento attacco a Ela e contro tutti/e i/le sex workers in Europa e nel mondo.
LA VIOLENZA CONTRO I/LE SEX WORKERS DEVE FERMARSI.

Qui l'evento facebook.

La Turchia e la Svezia sono stati, durante questa settimana, luogo di omicidi violenti alle sex workers – ma la violenza è costante e tre sex workers sono state uccise in Italia dall’inizio dell’anno. In Francia, Kassandra e Karima sono state assassinate e spinte al suicidio.
Noi chiediamo a tutti i nostri amici e familiari, di protestare contro i sistemici omicidi transfobici e contro la violenza in Turchia e in tutto il mondo. Dora, prostituta trans è stato uccisa questa settimana, ad un’altra sex workers trans in Turchia, Ela, hanno sparato; è stata gravemente ferita ed è improbabile che il suo braccio possa funzionare di nuovo. Dora è la 31esima vittima, dal 2008, transgender di un violento e mortale attacco in Turchia.
Chiediamo a tutti i nostri amici e familiari di protestare contro il modello svedese, che ha portato via i figli di Jasmine e ha dato la custodia al suo ex marito violento che infine l’ha assassinata. Gli assistenti sociali e lo Stato svedese si sono rifiutati di ascoltare Jasmine. Perché, d’altronde, ascoltare una sex worker che si ritiene non sappia cosa è bene per lei? Questa criminalizzazione messa in atto dal sistema è costata a Jasmine la sua vita.
In tutti i paesi in Europa e in tutto il mondo, i/le sex workers vengono assassinati perché le nostre vite sono viste come meno degne di altre. Noi non siamo cittadin* a pieno titolo e questo stato di discriminazione giustifica lo stigma che ci viene inflitto e la violenza soffriamo. E ‘ ora di dire NO a tutte le violenze contro i/le sex workers! NO a ignorare/zittire le nostre voci, NO alla sottrazione dei nostri figli! NO ad attacchi, stupri e omicidi!
Le iniziative di protesta saranno realizzate in molti paesi, in tutto il mondo, venerdì 19 luglio alle 15:00. Incoraggiamo i membri del Comitato Internazionale per i Diritti delle Sex Workers in Europa e tutte le organizzazioni e gli individui a organizzare manifestazioni, proteste, azioni presso le ambasciate turche, svedesi, italiane, o presso qualunque altro luogo simbolico.
Noi daremo aggiornamenti su questa pagina con informazioni sulle proteste, comunicati stampa dell’ICRSE, immagini, banner che potrebbe essere utile condividere etc. Se avete bisogno di aiuto in qualsiasi modo, chiedete info sulla pagina (facebook o Evento) e forse qualcuno può essere in grado di offrire sostegno.
In solidarietà.

LONDON
https://www.facebook.com/events/257055747752775/?ref=25

PARIS
https://www.facebook.com/events/208533619301833/?ref=25

BERLIN
https://www.facebook.com/events/337753779688209/?ref=25

GLASGOW
https://www.facebook.com/events/485660881519727/?ref=25

martedì 16 luglio 2013

Il progetto è questo anche da noi, lo portano avanti su diversi fronti

In Texas passa una legge sull'interruzione di gravidanza particolarmente restrittiva.

"Gli “American united for life”, un gruppo che si batte contro l’aborto, ha spiegato che le decine di misure pro-life hanno soprattutto un obiettivo. Quello di provocare una reazione giudiziaria da parte dei sostenitori dell’aborto, che arrivi sino alla Corte suprema, dove sarà poi possibile cancellare la “Roe v. Wade”, la storica sentenza del 1973 che legalizzò l’aborto negli Stati Uniti."

Ed è la stessa strategia portata avanti in Italia: provocare il blocco della legge, a causa dell'articolo 9, spingere a una modifica della legge, massacrarla.

Non dimentichiamo la petizione che circola per la richiesta di un referendum abrogativo (ancora).

Mentre noi moriamo.

 
Tutto l'articolo qui: 

Texas, approvata la legge anti-aborto più severa degli Usa. “Proteggiamo la vita”  

L’ordine delle cose



“The Order of Things” è un cortometraggio sulla violenza di genere, diretto dai fratelli Alenda, interpretato da Manuela Vellés, Mariano Venancio, Javier Gutiérrez y Biel Durán.
La violenza di genere non è circoscritta a un solo contesto, le donne ne sono vittime in strada, sul posto di lavoro e in famiglia. In questo cortometraggio ci si richiama a un contesto famigliare dominato da una figura maschile che, ricevuto il mandato della violenza dal proprio padre, vorrebbe passarlo al figlio. Gli esiti però sono diversi.
Il finale è molto evocativo, una donna che riesce a liberare sé stessa, libera tutte.
Per il resto ci sono i commenti, buona visione.

Da Intersezioni.

lunedì 15 luglio 2013

L’antisessismo sessista

Sulla sentenza per lo stupro di Montalto di Castro, sulla lotta delle donne, sul bambino di Rosy che sarà dato in adozione….ovvero sull’antisessismo sessista.
E’ stata emessa la sentenza per gli otto ragazzi, all’epoca dei fatti minorenni, rei confessi, che sei anni fa hanno stuprato in gruppo una ragazza di quattordici anni in una pineta di Montalto di Castro a margine di una festa di compleanno.
Il tribunale dei minori di Roma, presieduto da Debora Tripiccioni, che lo scorso gennaio aveva sospeso il processo giunto al termine della fase dibattimentale e nella quale il PM aveva chiesto quattro anni per ciascuno dei ragazzi, ha decretato che gli stupratori saranno sottoposti al regime della messa in prova per 24 mesi. Svolgeranno cioè lavori socialmente utili due volte alla settimana e potranno continuare a studiare e a lavorare e a condurre normalmente la loro vita.
Alla fine di questo periodo e in base al giudizio che sul loro comportamento sarà dato dagli assistenti sociali e dal giudice delegato a seguire i loro progressi, potranno anche ottenere la dichiarazione di estinzione del reato loro contestato. Quello di violenza sessuale di gruppo per aver stuprato a turno una loro coetanea.
Questo è quanto riportato in maniera scarna dai media ed è la fine di una storia di grande violenza e non solo per quello che hanno fatto alla ragazza i suoi coetanei, ma per quello che le ha fatto il paese in cui abitava, Montalto di Castro, attraverso l’atteggiamento ipocrita e sessista, minimizzando il tutto come “bravata”, dicendo che lei se l’è cercata perché indossava la minigonna e attraverso il sindaco PD, zio di uno degli otto, che si è dichiarato pronto a stanziare dei soldi per il reinserimento dei ragazzi e neanche un euro per lei.
E’ stata costretta ad andare via dal paese, a vivere in un’altra città, a prendere coscienza a soli quattordici anni dell’orrore di questa società, di cui la sentenza dell’11 luglio scorso non è che l’atto esemplare.
La così detta “giustizia” di questa società non ci appartiene, né i suoi tribunali, né le sue carceri e non ci appartiene chiedere condanne esemplari per nessuno, ma le sentenze che i tribunali esprimono sono una cartina di tornasole della gerarchia dei valori di questo sistema patriarcale e capitalista, della sua struttura portante e dei suoi metri di giudizio:
-quindici anni di reclusione per “devastazione e saccheggio” a chi ha manifestato al G8 di Genova nel 2001 e sei anni per chi ha manifestato  il 15 ottobre 2011 a Roma……
-tre anni e sei mesi per i poliziotti, tra cui anche una donna, che hanno ucciso Federico
Aldrovandi e nessuna condanna per chi ha ucciso Stefano Cucchi, Carlo Giuliani, Giuseppe Uva….
-mesi di galera per chi ruba al supermercato, venti anni per chi rapina una banca…..
La gerarchia di valori che esprime questo elenco significa che al primo posto della pericolosità sociale sta chi manifesta dissenso politico  o semplicemente alterità nei confronti di questa società perché basta solo la partecipazione ad una manifestazione per subire pesanti condanne.
Sullo stesso piano c’è la tutela della proprietà privata. Anche un paio di magliette rubate all’Oviesse sono costate ad una ragazza la traduzione in cella di sicurezza nella caserma del Quadraro qui a Roma e lo stupro di gruppo da parte di tre carabinieri e un vigile urbano ( a proposito, che fine hanno fatto costoro? C’è uno straccio di processo o non è dato sapere?).
Non parliamo, poi, se qualcuno/a osa  rubare dei cibi , qualche salame o qualche formaggio dagli scaffali di un supermercato. Le patrie galere sono piene di gente detenuta per reati così.
Le istituzioni in divisa hanno una totale impunità, tanto che questo è chiaramente un benefit per il loro “lavoro”, come qualcuna/o si ostina ancora a chiamarlo, come per un impiegato sono i buoni pasto.
La società neoliberista ha annullato il valore della vita umana, perché anche la vita degli individui è considerata una merce, ha senso solo se può essere in qualche modo e fino a quando fornisce possibilità di profitto.
Quindi, giù, giù, nella scala dei valori troviamo l‘uso di un corpo, il suo abuso , la sua eliminazione.
Perché questo nullo  e/o bassissimo valore dell’essere umano che impregna l’impostazione socio-economica della società  dovrebbe trovare una risposta  diversa quando si tratta di una donna o della violenza che subisce?
Il neoliberismo è la configurazione attuale del capitalismo e del patriarcato e, come ogni configurazione ha i suoi modi particolari di esprimersi.
Uno di questi è la strumentalizzazione della violenza sulle donne, sulle diversità e dei diritti umani.
Per cui, da una parte sbandiera attenzione e riprovazione nei confronti di questi aspetti e approva  convenzioni, come quella di Istanbul, propone Task Force, spende parole e convegni, crea associazioni, ma fondamentalmente, dall’altra, lo scopo è creare controllo sociale, leggi securitarie, inasprimento delle pene e strumenti di asservimento.
Così può militarizzare il territorio qui da noi  e portare le guerre neocoloniali nel terzo mondo.
Mai vista una società tanto ipocrita e mistificante dove regna l’antirazzismo razzista, l’antisessismo sessista, la carità pelosa e il devastante “politicamente corretto”.
Il bambino di Rosy, la ragazza uccisa pochi giorni fa dal compagno a casa dei genitori dove si era rifugiata, sarà dato in adozione perché i nonni sono stati giudicati troppo poveri per mantenerlo. Anche la povertà è una condanna. Se non sei capace di mantenere tuo nipote, vuol dire che sei un inetto/a e ti sarà portato via. L’idea di dare del denaro direttamente ai nonni  perché possano mantenere il bambino viene da questa società considerata “immorale”: non si danno dei soldi a chi non è in grado di guadagnarseli.
Una società che sbandiera tanta attenzione ai minori da multare, denunciare, privare della potestà chi viene sorpreso ad elemosinare con i figli/e per strada e tanto violenta da recidere affetti e legami familiari con una freddezza nazista.
Che cosa significa tutto questo per noi che vogliamo lottare contro la violenza maschile sulle donne?
Significa non farsi irretire dalle manifestazioni di attenzione del potere, non farsi strumentalizzare, ribadire una distanza incolmabile.
La nostra liberazione passa attraverso l’autodifesa, l’autorganizzazione, il rifiuto della delega, la presa in carico della lotta, la creazione di luoghi di donne e di reti di donne in autonomia consapevoli  della necessità dell’uscita da questa società.
Le coordinamenta

giovedì 11 luglio 2013

“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo

Da Intersezioni

Se una costante della maggiore letteratura medioevale e moderna è stata la misoginia, non mancano testimonianze positive del desiderio femminile (benché etero), riportato in testi che circolavano in Europa tradotti in più lingue.
Uno di questi è l’innovativo “L’escole des filles ou La philosophie des dames : divisée en deux dialogues”, tradotto in inglese con il titolo “La scuola di Venere”. In esso si fa descrizione delle parti anatomiche delle donne, dei benefici di una vita sessuale variegata e della relazione tra libertà sessuale e politica.
L’articolo che segue è una traduzione dallo spagnolo, buona lettura!
“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo
L’Inghilterra del XVII secolo non era tanto puritana come si potrebbe pensare: manuali di questo tipo circolarono nelle librerie pubbliche e convissero con messali e sermonari, per gli amanti avventurosi.
Un secolo prima che il divin Marchese de Sade publicasse opere che ancora fanno arrossire le signorine, e quesi due secoli prima di Apollinaire e Pierre Lourys, fu pubblicato nel 1680 in Inghilterra la traduzione di un’opera francese chiamata  L’École des filles (“Scuola delle signorine”) con il titolo The School of Venus, or the Ladies Delight Reduced into Rules of Practice (“La scuola di Venere o del piacere delle dame ridotto in regole e pratiche”); si tratta di un’opera letteraria in forma di dialogo e con molte illustrazioni che sorprende per la propria modernità.
Dove si discutono i nomi popolari della vagina e del pene.
Vi sono due personaggi femminili che tengono una divertente chiacchierata sulle proprie abitudini sessuali: Katherine, “una vergine di mirabile bellezza” e sua cugina Frances, che è sposata ma è anche un po’ più liberale. Il suo dialogo ci mostra che la sessualità nel secolo XVII non era tanto puritana come si potrebbe credere in un primo momento, nonché la consapevolezza dell’autore (anonimo, certamente)  della relazione tra sesso e politica.

Dove Katy apprende che ci sono piaceri incomparabili e necessari, così lontani dalla sua immaginazione che sono come comparare acqua e vino.
Le cugine parlano dei benefici derivanti dall’avere più partner sessuali e di come non è necessario sposarsi con qualcuno per godere dei piaceri carnali; congetturano anche su cosa accadrebbe “se le donne governeranno il mondo e la Chiesa, come fanno gli uomini”, mescolando riferimenti all’orgasmo multiplo e all’esistenza della clitoride, alla quale si riferiscono come “la cima della Fica” che “sporge”.
Termini e concetti normali oggigiorno (come “amici con benefici”) vengono insinuati nella ricerca di uno “scopamico” con il quale si può “rompere il ghiaccio”, oltre a essere pieno di idee affinché le coppie del XVII secolo espandessero i propri orizzonti sessuali dunque, a dispetto dei pregiudizi contro il puritanesimo, non tutto era alla missionaria a quel tempo:
certe volte mio marito si mette sopra di me, e a volte io mi metto sopra di lui, a volte lo facciamo di fianco, a volte in ginocchio, a volte di lato, a volte da dietro… con una gamba sulle sue spalle, a volte lo facciamo sui nostri piedi …
A seguire una serie di illustrazioni provenienti dall’ultima sezione del manuale. Il libro si può consultare on line qui.
Traduzione e adattamento di Serbilla.
Articolo originale qui

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