mercoledì 24 luglio 2013

Alla periferia del maschile. Il lavoro con i "sex offenders" a Regina Coeli

Olivier Malcor, Parteciparte 24 luglio 2013 da zeroviolenzadonne

Lavorare con gli "stupratori occasionali" presenta diverse difficoltà. Una delle principali è la negazione del reato. Si considerano quasi tutti innocenti e vittime di un fraintendimento o di un complotto: "è stato un bacio mal interpretato", "il carabiniere dall'animo poetico ha romanzato la dichiarazione della donna" etc.

Negare il reato per loro ha un costo alto davanti alla legge. Non beneficiano dell’alleggerimento di circa un terzo della pena previsto per chi si riconosce colpevole; invece di fare 4 anni ne fanno 6 per es.
La seconda difficoltà che emerge dal lavoro con loro è la loro forte irritazione per una società che, da un lato promuove e trasmette a tutti i livelli una cultura maschilista e una visione dei ruoli maschili e femminili ben determinata, e dall’altro si stupisce di chi ha concretizzato certi precetti, e li etichetta come i peggiori mostri. Come non pensare all’immagine della donna nella pornografia o alla sua versione chic nella pubblicità, o alla religione che assegna alla donna il ruolo molto limitante di ‘costoletta sussidiaria’ dell’uomo, o ancora ai commentatori delle partite di calcio che invocano la necessità di “penetrare la difesa” o “violare la porta avversaria”, solo per fare qualche esempio.
In questo contesto sarebbe di cattivo gusto andare a dare lezioni ai detenuti su come considerare le donne. E infatti non sono disposti a farsi dare lezioni, anzi, sono loro a “poter aiutare chi sta fuori” e quello che chiamano “lo scontro di opinioni” può anche finire male, visto che scelgono di fare più anni di carcere anziché ammettere il reato.
Per questo motivo il Teatro Dell’Oppresso (TDO) si rivela un metodo privilegiato per affrontare la violenza maschile. Il TDO aiuta le persone a far emergere ed affrontare i disagi e le difficoltà vissute riportandole al sistema più generale che rendono possibili questi disagi. Si parte dal materiale che si manifesta nella spontaneità dei giochi e delle improvvisazioni. Tutto si fa attraverso tecniche ludico teatrali.
Teoricamente il TDO si usa con le persone più oppresse, con chi subisce un sistema oppressivo (maschilismo, razzismo e capitalismo sono i più comuni), ma sarebbe impossibile affrontare, smontare e sormontare il maschilismo evitando il confronto con chi lo veicola.
Si usano tecniche graduali per mettere in scena le situazioni in cui i detenuti si sentono in difficoltà nel gestire le proprie emozioni, pensieri e reazioni. Si parla quindi di disagio più che di oppressione.
Si lavora molto sulle situazioni ‘pericolose’, quelle che potrebbero far tornare in carcere. Si lavora molto sull’approfondire la comprensione delle situazioni difficili vissute.

Ciascuno mostra la propria scena riguardante un problema che tocca tutti (per es. le separazioni). Come facilitatore pongo solo delle domande per guidare l’analisi del problema rappresentato: “Perché ha perso la pazienza in questa scena di separazione”, “secondo voi cosa lo fa sentire giustificato a usare questa strategia?”, “in quale momento si è azionato il pilota automatico?” etc.
Poi si propone ai partecipanti di mostrare cosa farebbero nei panni dell’uomo in difficoltà. “Come gestiresti questa separazione ?”, A turno entrano in scena per mostrare diversi modi di affrontare la situazione. Questo innanzitutto permette loro di vedere che, per ogni situazione, non c’è una reazione meccanica obbligatoria, un ‘dovere maschile’, un’emozione scontata, e sono loro stessi a dimostrarlo. Infatti  sono orgogliosi di mostrare che sanno trovare alternative e soluzioni. In questo modo allargano il loro orizzonte di possibilità e di ruoli, laddove il carcere potrebbe averlo ristretto, condannandoli all’identità di “stupratori”. Scoprono così che non c’è più un solo modo di rispondere a un disagio.
A volte chiedo anche di invertire i ruoli: chi ha agito violenza deve recitare il ruolo della donna che voleva separarsi. Mettendosi nei panni della donna, si indaga sulle emozioni che si provano in quel ruolo e si lavora sulla nozione di autonomia: “può una donna decidere di separarsi?”, “perché solo a certe condizioni?”, “chi decide in quali condizioni?”. Solo gli Italiani hanno accettato di recitare i ruoli femminili; ma tutti sono rimasti spiazzati da questo cambiamento di prospettiva.
Tutte le scene vengono recitate dopo aver fatto una serie di giochi ed esercizi progressivi che permettono di uscire dalla spirale delle giustificazioni e del controllo di tutto ciò che si esprime. Si sviluppano nuove capacità nella spontaneità  e nelle sfide da sormontare, nelle emozioni da gestire, nelle collaborazioni da creare, si lavora sulla comunicazione e l’ascolto, molto limitati anche dalle condizioni di detenzione. Attraverso questi giochi i detenuti possono rendersi conto, guidati dal facilitatore, delle difficoltà che hanno e delle necessità di lavorarci sopra.
L’obiettivo in particolare è quello di fare emergere nella spontaneità i principali disagi affrontati nelle relazioni tra i sessi. Alcuni disagi emergono in modo costante. Prima di tutto la paura che la donna possa essere o diventare indifferente. Sia l’indifferenza di una donna conosciuta, sia quella di una donna che non si conosce affatto. Non a caso l’approccio è un tema chiave. La paura del rifiuto, il timore di non essere all’altezza, di non “rimorchiare” bene fanno dell’approccio un momento di alta tensione. Nell’approccio si cerca di conquistare il consenso della donna, ma questo implica che siano già determinati i ruoli di chi approccia e chi si fa approcciare. Inoltre non basta un solo consenso: per es. la donna può accettare di dire l’ora ma non di andare a bere una birra. Quindi vanno negoziati diversi consensi.
Durante il laboratorio abbiamo vissuto momenti bellissimi. Un detenuto molto educatamente voleva forzare una donna a sedersi, alla fermata dell’autobus. Un altro la voleva convincere che c’erano degli stupratori in giro da cui lei doveva essere protetta. Insomma ci è voluto poco affinché il più maschilista di tutti, dopo 30 anni a Regina Coeli, riconosca: “non so rimorchiare”. Da lì è iniziato un percorso sulla capacità di entrare in relazione con l’altro sesso molto partecipato. Ogni volta si analizzavano le nuove modalità proposte in scena. Un giorno ha partecipato al laboratorio una delle operatrici della Cooperativa Be Free, all’origine del progetto, che dopo le analisi e le valutazioni dei detenuti, ha dato il suo parere sui diversi approcci; quel parere è stato accolto dai detenuti come la massima verità sul tema.
Anche in questo caso, lavorare sull’approccio “pesante”, che va direttamente a sondare la possibilità di avere una relazione sessuale, ma invertendo i ruoli tra uomo e donna, (tra chi è attivo e chi è passivo nelle relazioni sessuali secondo gli stereotipi) ha dato grandi risultati.
I concetti relativi al consenso e all’autonomia sono fondamentali e il detenuto ha grande voglia di approfondirli, purché non sia fatto in modo infantilizzante, purché possa essere lui il perno dell’evoluzione e del cambiamento.
Probabilmente questo lavoro è stato troppo breve per produrre risultati valutabili e pretendere grandi cambiamenti. Ma ha permesso tuttavia di individuare le piste fertili che consentono di evitare lo scontro improduttivo da un lato e le collusioni rischiose dall’altro. È un lavoro che andrebbe fatto in modo costante con i detenuti. Ma come spiegare e far capire  che i detenuti “stupratori” hanno anche bisogno di imparare a entrare in relazione con persone di sesso diverso? Come argomentare che l’approccio, il momento della prima conoscenza di un'altra persona, è un momento privilegiato e complesso per tutte le dinamiche che ci si manifestano, tutti i pregiudizi e gli stereotipi che ci entrano in gioco, tutte le emozioni che scatena? Il TDO è un metodo privilegiato per affrontare questi temi perché offre una palestra per lavorare su situazioni quotidiane, normalmente poco prese in considerazione, o delicate da affrontare.
Ancora più urgente è convincere i politici e gli amministratori che è necessario affrontare le tematiche delle relazioni fra i sessi  a partire dai ragazzi e dalle ragazze e che bisogna cominciare questo lavoro sulla capacità di entrare in relazione e di gestire la frustrazione delle separazioni laddove non si è ancora consolidato il modello stereotipato al quale si aderirà. Non a caso Parteciparte lavora molto con il TDO sugli stereotipi e sulle situazioni conflittuali che ne scaturiscono nelle scuole.
Miriamo alla partecipazione attiva e numerosa dei ragazzi e delle ragazze. Sono loro a creare le scene, sono loro ad analizzare i problemi di genere, ad insegnarci quali sono le regole del maschilismo. Regole scomode anche per i maschi. Con la distanza che da la messa in scena, questo diventa evidente a tutte/i.
Nei laboratori i ragazzi e le ragazze sono ben contenti di potersi confrontare liberamente su quali sono i problemi legati al genere che vivono nella loro quotidianità, di mettere in discussione e trasformare i modelli, di provare alternative per costruire rapporti creativi e rispettosi e di poter essere i protagonisti di questa ricerca e di questa trasformazione. Spesso vogliono anche vedere come ‘l’adulto’ se la cava nelle situazioni…
Perciò più che ricette e kit metodologici, che mi vengono spesso chiesti, credo che il facilitatore debba essere pronto a mettersi in gioco, ad improvvisare sulle problematiche di genere, a proporre il gioco più appropriato al momento, ma più di tutto deve avere rielaborato anche lui i suoi vissuti rispetto ai problemi di genere. Ho scoperto questo grazie a Maschile Plurale, un’associazione dove si condividono esperienze, si rielaborano vissuti, si parte da se stessi, si fa politica, con un’ottica di genere.
Negli spettacoli, dove il pubblico interviene per provare soluzioni, quando una persona prende posizione contro un modello o per inventarne uno diverso, lo fa in nome di tutti. L’evoluzione è sempre decretata e celebrata dal pubblico e sembra che sia poi difficile tornare indietro e riprodurre modelli contro i quali si è lottato, in scena, davanti a tutti, con tanti.
Dato il duplice lavoro – di rielaborazione del passato e di costruzione del futuro - crediamo che abbia un’enorme rilevanza ed efficacia il lavoro sulla prevenzione, prima di quello sul recupero in carcere con i detenuti. Anche perché aspettare il disastro ha un costo altissimo per tutta la società.
Infatti il fenomeno della violenza maschile sulle donne è tanto commentato, ma ben poco combattuto alle radici. Si parla tanto di donne vittime, ma quando si parla di uomini violenti è  solo per mostrarne uno strano o straniero, uno irregolare insomma.
Ci si potrebbe quasi chiedere se questa comunicazione deleteria che tace i costi del maschilismo fa comodo per ricordare alle donne più emancipate che c’è sempre un uomo pronto a rimetterle in riga. E se i media sono i motori di questa campagna controproducente, sarà una bella sfida per il teatro far capire e scardinare le dinamiche politiche che sottendono il problema. Sfida che a Parteciparte abbiamo deciso di raccogliere con spettacoli come “Da paura”, “Amore Mio” o “Brucio d’amore”.
In pieno centro, il Carcere di Regina Coeli ci offre la visione più completa delle periferie del maschile, ai confini, dove si consolidano le regole più dure, quelle che giustificano poi i reati più violenti in tutta la società. Dalla periferia al centro questo materiale diventa un tesoro che permette di individuare alla radice, i moti, le sentenze, le molle più discrete che potrebbero permettere al peggio di accadere. Il Teatro Dell’Oppresso rende visibile tutto questo, in modo che non si possa più non vedere. Ma ci permette anche di decostruire un maschile misero che non regge più il peso di stereotipi invivibili. Ci dà la voglia e gli strumenti per costruire un maschile aperto, plurale, capace di accogliere l’autonomia femminile e tutto l’arcobaleno di desideri tra i sessi.
 
Fonte: http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=37036

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