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domenica 22 gennaio 2017

Diventare Uomini. Relazioni maschili senza oppressioni al Perditempo di Napoli

Il 30 gennaio 2017 alle ore 18.15 si terrà presso il caffè libreria Perditempo, in via san Pietro a Maiella n. 8 a Napoli, la presentazione del libro “Diventare Uomini. Relazioni maschili senza oppressioni” di Lorenzo Gasparrini, edito da Settenove.
La presentazione vedrà la partecipazione dell’autore, della professoressa Elena Tavani (l’Orientale, Napoli) e dei promotori dell’evento, la lettura del testo e un dibattito sulle tematiche del libro stesso animeranno la serata.
Diventare Uomini. Relazioni maschili senza oppressioni è un agile saggio sulla maschilità, scritto da un punto di vista femminista ossia "a partire da sé" che, tenendo conto degli studi femministi e sull'identità di genere, individua, ripercorrendo le varie fasi della crescita di un uomo, i modi attraverso cui il patriarcato opprime non solo le donne e tutte le altre soggettività inferiorizzate, ma anche gli uomini fin dall'infanzia.
L’analisi della maschilità, della costruzione dell’identità e del ruolo di genere, rappresentano la guida alla comprensione del sistema di potere che genera disparità e violenza con ricadute negative per tutta la società.
La scarsa bibliografia in lingua italiana sull’antisessismo maschile si arricchisce con Diventare Uomini. Relazioni maschili senza oppressioni, di un testo che con la sua prosa divulgativa chiara e diretta, senza mai cedere a banalizzazioni, fornisce un prezioso contributo.
In questo momento storico di apertura dei movimenti femministi, con la quarta ondata, l’inclusività è la chiave per l'avanzamento verso la conquista di una reale parità. Uomini antisessisti che decostruiscono il proprio privilegio e il costo che questo privilegio ha per ognuno dovrebbero essere la norma nel panorama culturale italiano, invece il libro di Lorenzo Gasparrini risulta essere una grande novità da questo punto di vista.

Lorenzo Gasparrini è dottore di ricerca in Estetica, attivista e blogger. Ha fatto parte e scritto con il collettivo Femminismo a sud e Intersezioni. I tanti blog e luoghi virtuali nei quali scrive sono raccolti in lorenzogasparrini.noblogs.org e da due anni porta avanti il gruppo di discussione sulla maschilità "Gentlemen's Club" (un nome ironico) presso il collettivo Cagne sciolte di Roma.

Per acquistare il libro via internet: http://www.settenove.it/articoli/diventare-uomini/333

lunedì 13 ottobre 2014

Casa Fiorinda sta chiudendo

A Napoli c'è una sola casa per donne vittime di violenza. Sta chiudendo

Fonte NapoliCittàSociale

La coordinatrice Tania Castellaccio ci racconta il paradosso di Casa Fiorinda

E' l'unica casa che accoglie donne vittime di violenza con o senza figli a Napoli e sta per chiudere. Fiorinda, casa di accoglienza e centro antiviolenza per donne maltrattate,nasce nel 2011, su volontà del Comune di Napoli, dedicata a Fiorinda Marino, una delle tante donne morte per mano dei loro partner. Ci racconta questa storia paradossale Tania Castellaccio, coordinatrice del progetto gestito dalle cooperative sociali Dedalus ed Eva in rete con il Centro Antiviolenza del Comune di Napoli gestito da Arci Donna.
Ogni 2 giorni muore una donna per violenza da parte di un uomo, almeno 1 donna su 3 ha subito violenza nell'arco della sua vita. Nel 2013 in Italia sono state uccise dai loro partner 134 donne. Partiamo dalla fine. Perché il Governo non si occupa delle donne e perché sta chiudendo Casa Fiorinda?
Il Governo ha stanziato con il decreto sul femminicidio 17 milioni che dovrebbero passare per la Regione e o poi per gli enti locali, ma ci vuole tempo...
Casa Fiorinda è finanziata dal Comune di Napoli grazie ad un bando della Presidenza del Consiglio e attraverso un POR. Il progetto si concludeva a maggio, ma per portare a termine percorsi intrapresi con le donne che stavamo seguendo, il Comune di Napoli ha stanziato  40 mila euro per 4 mesi in attesa di un nuovo avviso pubblico per la gestione della casa, che però ad oggi non è ancora uscito. Il 18 ottobre scade la proroga ma poiché i tempi tecnici per espletare l'avviso pubblico sono lenti il rischio, divenuto certezza, è che la casa resti chiusa per mesi, lasciando per strada le nostre ospiti ovvero 4 donne con figli, 2 napoletane, 1 napoletana di origine rumena, e una donna centro americana incinta. Inoltre le 15 donne "ospiti esterne" che seguiamo come centro antiviolenza nel percorso per uscire dalla spirale della violenza sarebbero abbandonate a se stesse.  La volontà politica a mantenere in vita Fiorinda c'è tutta ma ci si sta muovendo con estremo ritardo. La soluzione è che il Comune sostenga il progetto nelle more della lavorazione dell'avviso pubblico.
Qual è l'unicità di Casa Fiorinda?
Casa Fiorinda è l'unica casa per donne maltrattate nel Comune di Napoli e accoglie le donne vittime di violenza sole o con figli che chiedono ascolto, protezione e accoglienza e che da noi trovano operatrici e professioniste che le assistono legalmente nelle separazioni e nella denuncia per maltrattamento, e da un punto di vista psicologico. Abbiamo 6 posti (n.d.r. tanti quanti ne prevede il regolamento regionale). È evidente che abbiamo tante richieste di posti letto inevase: spesso inviamo le donne che necessitano un posto letto in provincia di Caserta dove ci sono 3 case per donne maltrattate. Casa Fiorinda ha inoltre il valore aggiunto di essere un bene sottratto alla camorra e restituito alla società. 
Ci sono però delle case famiglia per donne con figli sul territorio del Comune. Qual è la differenza?
Una casa di accoglienza per donne vittime di violenza è diversa da una casa famiglia perché accoglie donne con difficoltà socio-economiche e con bambini perciò viene sostenuta grazie alle rette pagate dal Comune per i minori (n.d.r. circa 93 euro al giorno per il bambino e 40 euro se c'è la madre che lo accompagna), ma se la donna è sola non è previsto alcun sostegno, mentre casa Fiorinda accoglie anche donne sole. Il Comune di Napoli  sta individuando una strategia per poter sostenere e collocare anche le donne sole, ma c'è bisogno di tempo.
Noi oltre al sostegno psicologico e legale, forniamo un orientamento al mercato del lavoro poiché l'occupazione può garantire  autonomia ed emancipazione.
Come arrivano da voi le donne?
Soprattutto grazie all'indirizzo dell'Arci Donna che gestisce il Centro Antiviolenza del Comune di Napoli che ha sede nel palazzetto Urban; tramite il numero verde 1522 che noi gestiamo tutti i pomeriggi dalle 15.00 fino alle 22.00. Inoltre ci inviano le donne le forze dell'ordine che sono sempre più preparate nell'accogliere in modo adeguato e professionale le donne vittime di maltrattamenti, gli sportelli antiviolenza del pronto soccorso del San Paolo e del Loreto Mare e le assistenti sociali.
Chi sono le donne ha accolto in questi anni?
Dal 2011 ad oggi abbiamo accolto circa 200 persone, di cui 100 hanno chiesto protezione perché scappavano da maltrattamenti e violenza domestica. Nove su 10 erano napoletane.  La casistica ci ha confermato che la violenza sulle donne non ha confini spaziali o culturali, ma è trasversale. In molti casi si trattava di donne provenienti da contesti economici e sociali medio-alti e in più di un caso il partner violento era un poliziotto.
Come si realizza la fuoriuscita da un vissuto violento?
Quando hai subito per anni violenza psicologica, umiliazioni e vessazioni, uscire dalla violenza è sempre difficile. È necessario molto tempo per trovare un'autonomia e reinserirsi socialmente poiché spesso è stato impedito alle donne di lavorare o è stato loro controllato lo stipendio.
I primi 3 mesi sono quelli più delicati, le donne vivono sensi di colpa, ripensamenti proprio perché hanno interiorizzato lo stereotipo del dominio e del possesso maschile. Spesso subiscono le pressioni dei parenti che consigliano "Resisti, per il bene dei figli", mentre è un dato di fatto che i bambini che crescono in contesti violenti sono le prime vittime e rischiano di apprendere un modello relazionale sbagliato e di diventare adulti violenti o sofferenti.
Nonostante vissuti violenti le donne, una volta passati i lividi talvolta tornano dal marito e ricadono nella ruota della violenza: all'inizio il compagno chiede scusa, fa qualche regalo, poi dopo un po' ritorna la violenza, un po' forte, episodio dopo episodio, in un crescendo che può arrivare alla morte. Ecco noi cerchiamo di rompere questo meccanismo e di spiegare alle donne che un solo episodio di violenza è già troppo e che dopo non si può che peggiorare. Per fortuna esistono anche tanti uomini e tante associazioni maschili che lavorano per un processo di emancipazione che deve riguardare sia uomini che donne.
Ma ci sono anche dei casi positivi...
Certo, una volta superati i primi mesi e iniziato il percorso di reinserimento socio-lavorativo la maggior parte delle donne seguite riesce ad affrancarsi dalla violenza.  Solo nell'ultimo anno abbiamo attribuito 16 borse lavoro con aziende sia napoletane che casertane.AdG


giovedì 24 luglio 2014

Violenza domestica e crudeltà sugli animali

VARESE, "RE" DELL'ORO UMILIA LA SUA COMPAGNA E DECAPITA IL GATTO
Mirko Rosa arrestato per maltrattamenti e lesioni

Un gatto decapitato, la compagna umiliata e costretta anche a bere dalla scodella del micio. Emergono inquietanti dettagli sull'arresto di Mirko Rosa, imprenditore 40enne della nota catena compro oro "MirkOro", avvenuto nei giorni scorsi a Castellanza, in provincia di Varese. L'uomo, accusato di maltrattamenti e lesioni, è rinchiuso nel carcere di Busto Arsizio da giovedì scorso. Il quotidiano "La Prealpina" ha raccolto la testimonianza di Giacomo de Luca e di sua figlia Nadia, compagna del manager. De Luca è l'uomo che lo ha aggredito facendolo finire all'ospedale con una ferita all'arcata sopracigliare. La versione della giovane - riferisce il quotidiano varesino - "è la stessa fornita agli inquirenti", che ora stanno verificando la veridicità dei fatti. Intanto, nella notte tra domenica e lunedì, è stato dato alle fiamme il fuoristrada di Rosa.
Tutto sarebbe iniziato nella notte tra mercoledì e giovedì, quando l'imprenditore avrebbe decapitato il gatto di casa, un micetto di pochi mesi comprato qualche giorni prima. Successivamente avrebbe mostrato il corpo senza vita alla convivente, minacciandola: "Ti faccio fare la stessa fine". Questo sarebbe solo l'inizio di questa scena da film dell'orrore. Successivamente Rosa l'avrebbe chiusa in uno sgabuzzino, obbligandola a bere nelle scodella del micio. Poi, non contento, l'avrebbe picchiata, minacciata di essere gettata dalla finestra e forse anche costretta a subire un rapporto sessuale.
L'incubo della 21enne sarebbe durato fino al mattino seguente, quando la giovane - che aveva appuntamento con il pediatra per una visita alla bambina di un anno - avrebbe detto all'uomo di liberarla e che, se non l'avesse fatto, si sarebbe buttata dalla finestra. A quel punto l'imprenditore dell'oro l'avrebbe fatta uscire di casa e lei si sarebbe rifugiata a casa di alcuni amici.
Poi la lite tra il presunto aguzzino e il padre della compagna. La prima telefonata tra Giacomo De Luca e Mirko Rosa sarebbe stata alle 9 di giovedì. Durante la notte la 21enne aveva mandato un messaggio al padre, prima che il compagno distruggesse il suo telefono, ma De Luca aveva il telefono spento. Non appena Rosa e De Luca sarebbero riusciti a parlare al telefono, la conversazione si sarebbe subito scaldata. E, quando ha visto la figlia, il padre l'ha subito portata dai carabinieri per sporgere denuncia. In caserma, all'arrivo di Rosa, la colluttazione tra i due, finita con il "re dell'oro" al pronto soccorso.
Non finisce qui. Perché, nella notte tra domenica e lunedì di questa settimana, intorno alle 3, l'Hummer giallo - simbolo della sfrontata ricchezza del "re dell'oro" - è stato dato alle fiamme dopo essere stato cosparso di benzina. E il mistero su questa torbida vicenda s'infittisce.

Fonte: http://www.nelcuore.org/blog-associazioni/item/varese-manager-dell-oro-decapita-il-gatto-di-casa-e-umilia-la-compagna.html

Massacro di donne a Bagdad

Iraq, massacro di donne a Bagdad. Forse uccise perché prostitute 

Spedizione di un commando armato in un palazzo: 29 morti, tra cui venti donne. Le milizie sciite hanno in passato preso di mira le prostitute e i rivenditori di alcol 

 BAGDAD - Almeno 29 persone, tra cui 20 donne, sono state uccise questa sera in un palazzo di Zayouna, nella zona est di Bagdad. Il massacro è stato compiuto da uomini in divisia mimetica e abiti civili. La polizia intervenuta sul posto ha trovato i corpi delle vittime riversi sulle scale, forse nell'atto di scappare o di nascondersi: "Quando siamo arrivati - ha raccontato un poliziotto alla Reuters - sulle scale abbiamo visto i corpi di un paio di donne, e sangue che scorreva giù dalle scale. Siamo entrati in un appartamento e abbiamo trovato cadaveri ovunque. Alcuni stesi sul divano, altri per terra. Una donna forse ha cercato di nascondersi in un armadio in cucina ed è stata freddata lì". Le milizia sciite sono state in passato accusate di aver condotto omicidi mirati e raid armati proprio in quella zona della capitale ai danni di prostituite e di rivendite di alcolici, in una campagna contro la diffusione del vizio.

Fonte: http://www.repubblica.it/esteri/2014/07/12/news/iraq_massacro_di_donne_a_bagdad-91417373/

giovedì 10 luglio 2014

Primo ok Camera, cade l’obbligo del cognome del padre ai figli

Non conosco il testo del documento, ma i virgolettati riportati nella sembrano indicare, con il riferimento all'ordine alfabetico, una forma razionale e paritaria.

Da Internazionale

Roma, 10 lug. (TMNews) – Cade l’obbligo del cognome paterno, arriva la libertà di scelta per i genitori. La commissione Giustizia alla Camera ha approvato il testo sul doppio cognome, lunedì sarà in aula per la discussione generale. L’obiettivo è chiudere entro la prossima settimana.
“E’ un altro passo in avanti – commenta Donatella Ferranti – verso la parità dei sessi e la piena responsabilità genitoriale. Il figlio ora potrà avere o il cognome paterno o quello materno o entrambi, secondo quando decidono insieme i due genitori. Ma se l’accordo non c’è, il figlio avrà il cognome di tutti e due i genitori in ordine alfabetico “.
Peraltro, ha aggiunto la presidente della commissione Giustizia, “l’obbligo del cognome paterno, simbolo di un retaggio patriarcale fuori del tempo e assurdamente discriminatorio, è stato severamente censurato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e dunque il testo che ora andrà in aula è un atto dovuto, che ci pone finalmente in linea con gli altri paesi europei”.
Questa è una notizia dell’agenzia TMNews.

venerdì 4 luglio 2014

Il millantato istinto materno

Da Intersezioni

L’istinto materno non esiste

Essere donna non implica essere madre, ciononostante le donne subiscono ancora una forte pressione sociale rispetto alla maternità, un’idea che si perpetua attraverso il celebre “istinto materno”. Tuttavia, il desiderio di essere madre (o no) non ha alcuna causa fisiologica provata.
«No, non avrò figli», risponde Alicia Menéndez alle impertinenti domande delle vicine, delle zie, e anche delle amiche. Queste, sorprese, contrattaccano con un  «Ma è perché non ti piacciono i bambini?» o «fra qualche anno cambierai opinione e sentirai la chiamata». Alicia, che ha appena compiuto trent’anni e lavora come assistente amministrativa, assicura che “non voglio avere figli” è il nuovo “non voglio sposarmi”, anche se sostiene che la seconda affermazione non produce lo stesso ‘disordine pubblico’ della prima.
«Ho avuto un compagno per quattro anni ma da poco più di un anno abbiamo deciso di rompere. Lui sapeva di volere dei figli, io sapevo di non volerne. Rispetto, ma a volte mi sorprende – e mi spaventa – la capacità di alcune persone di provare più amore per qualcosa che in ogni caso è un progetto a lungo termine nella propria vita, che per qualcosa che già hanno, qualcosa di reale». Alicia ricorda che giunse un momento in cui l’arrivo di un bambino avrebbe rappresentato una catarsi, il sollievo dopo mesi di discussione. «Capirei se non potessi avere figli, se fossi sterile, ma non accetto che tu non voglia averne potendoli avere», le ripeteva lui.

mercoledì 30 aprile 2014

Storie di un paese violento

Da Intersezioni
L’importanza dell’aborto, tra diritto negato e strumentalizzazioni

Chi legge questo blog probabilmente già è al corrente del fatto che per promuovere il proprio libro Mario Adinolfi ha fondato, nel nome della mamma, dei circoli. Uno scritto e dei circoli contrari ai diritti umani, nello specifico contrari al diritto a un aborto in sicurezza, contrari al diritto a non subire discriminazioni in base al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere, e contrari al diritto di poter morire senza subire accanimento terapeutico.
Le stesse idee misogine, omofobe e autoritarie espresse negli anni passati da Giuliano Ferrara, dalle destre (e pseudosinistre) più o meno organizzate in partiti, movimenti e associazioni, assieme a fanatici religiosi di ogni credo e credenza. In difesa di una presunta “famiglia naturale”. “Famiglia” significa “comunità umana” e, in quanto tale, non può essere “naturale”, con lo stesso significato che diamo all’aggettivo “naturale” quando lo usiamo per descrivere le piante; ormai non esiste neanche più il “paesaggio naturale”, dato che anche ciò che appare come frutto della natura è, in qualche modo, stato oggetto di modificazione da parte dell’essere umano; anche un prato è un paesaggio antropizzato. Il concetto stesso di paesaggio o di pianta è antropico, culturale. La famiglia è, unicamente, culturale. Essa assume forme diverse a seconda del momento storico, in base al quale può fondarsi su valori del tutto estranei alla contemporaneità di chi scrive. Siamo ai fondamentali del ragionamento attorno all’essere umano.
Purtroppo queste persone hanno già segnato punti a loro favore nel momento in cui ci occupiamo delle loro uscite populiste, della loro bassezza umana e pochezza culturale. In più, spararla grossa per creare scompiglio, è una tecnica di imbarbarimento del dibattito, in questi casi il dibattito non esiste nemmeno, siamo ben oltre.

domenica 23 marzo 2014

Intervista a Dolores Juliano di Itziar Abad




Da Intersezioni

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

Intervista a Dolores Juliano di Itziar Abad. Traduzione di Serbilla Serpente revisione di feminoska, articolo originale qui.
Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone
L’antropologa Dolores Juliano sostiene che, siccome “il modello di sposa e madre devota è davvero poco attraente, l’unico modo per ottenere che le donne vi si adeguino è assicurarsi che l’altra possibilità sia peggiore”.
Dolores Juliano (Necochea, Argentina, 1932) ha studiato a fondo le strategie culturali e di dominazione di genere contemporanee, così come i saperi e le pratiche delle collettività oppresse che le fronteggiano. El juego de las astucias. Mujer y construcción de mensajes sociales alternativos (1992); La prostitución: el espejo oscuro (2002); o Excluidas y marginales: una aproximación antropológica (2004) ce lo raccontano bene. Questa dottora in Antropologia e professora dell’Università di Barcellona ha fatto parte, fino al suo pensionamento, del progetto ‘Mujeres bajo sospecha. Memoria y sexualidad (1930-1980)’ condotto da Raquel Osborne. In esso, Juliano analizza i modelli di sessualità vigenti durante il franchismo e come l’omosessualità femminile fosse condannata al silenzio e all’invisibilizzazione.
I modelli di sessualità femminile sono cambiati rispetto a quelli dell’epoca della dittatura, oppure è cambiata la forma ma la sostanza è la stessa?
E’ cambiata la società. La chiesa cattolica mantiene i modelli sessuali tradizionali. L’idea di peccato o di devianza è molto presente in essa e nelle religioni monoteiste. Nel protestantesimo ci sono modelli puritani assolutamente fondamentalisti. Il dettato delle leggi religiose sembra ugualitario, ma nella pratica non è mai stato così.
Queste religioni sono più permissive con la sessualità maschile?
Sì, e ciò ha a che vedere con i modelli religiosi e l’organizzazione sociale. Le società patrilineari e patrilocali sono molto restrittive rispetto alla sessualità femminile.
Patrilineari e patrilocali?
Intendo dire che l’eredità, i beni, l’appartenenza al gruppo e il cognome si trasmettono per linea maschile e la patrilocalità, per parte sua, significa che le nuove coppie si stabiliscono, lavorano o convivono con il gruppo dell’uomo e non con quello della donna. E’ il modello che si è imposto attraverso conquiste e colonizzazioni. Lo status sessuale della donna è sempre sospetto, ed è soggetto a controllo. Dalla sua fedeltà dipende, ad esempio, che il titolo nobiliare venga trasmesso al figlio biologico del marito. Attraverso la donna si trasmettono i mezzi e l’appartenenza, ma resta sempre una straniera ambigua, una donna aliena che si è introdotta nella famiglia dell’uomo. Esiste un doppio standard di moralità.

domenica 23 febbraio 2014

Costruendo un discorso antimaterno


Señora Milton


Da Intersezioni.
Il femminismo tende a ignorare la natura compulsiva della maternità, l’importanza del suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne e a perpetuare il tabù verso qualsiasi discorso contrario. 


L’altro giorno, nella penombra di una riunione notturna, parlando di quelle cose che non si suole menzionare alla luce del giorno, finimmo col parlare di maternità tra amiche, con grande sincerità. E dopo le chiacchiere, fummo in molte a concordare che al femminismo resta molto da dire sulla maternità, anche quando si potrebbe pensare che in merito abbia già detto tutto; in fin dei conti, la maternità è uno dei suoi temi da sempre. Possiamo constatare che, a dispetto del fatto che la maternità è stata studiata, analizzata e messa in questione, e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante all’interno del femminismo, non esiste all’interno di esso una discorso chiaramente antimaterno.
Sebbene la maternità apparentemente sembri essere molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione per continuare ad essere, nel profondo, un discorso prescrittivo che pretende di continuare a mantenere pienamente operativo il binomio donna-madre, nonostante oggi si tratti di una donna moderna e anche di una madre moderna. Il femminismo, a mio parere, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a sottovalutare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne. Il tabù che incombe su qualsiasi discorso antimaterno all’interno del femminismo evidenzia il carattere conflittuale di una questione che non riguarda solamente la configurazione dell’identità delle donne, ma il mantenimento stesso dell’ordine sociale nel suo complesso.

sabato 11 gennaio 2014

Nel COGNOME della MADRE e del PADRE

Nel COGNOME della MADRE e del PADRE - richiesta di emendamento necessario - NO alla casualità e NO alle DONNE SOTTO TUTELA  firma qui.

Condivido la petizione promossa da Iole Natoli che richiede l'emendamento necessario e urgente al Ddl di modifica delle regole di attribuzione del cognome ai figli.

Il testo della petizione:

All’attenzione di firmatarie e firmatari di tutti i Ddl sul cognome della famiglia e dei figli Nel COGNOME della MADRE e del PADRE - richiesta di emendamento necessario NO alla casualità e NO alle DONNE SOTTO TUTELA

Con assoluta serietà d’intenti, chiediamo alle e ai firmatari di tutti i Ddl sul cognome della famiglia e dei figli, già esistenti in Parlamento e di cui si calendarizzerà la discussione, di includere nei loro progetti un emendamento che andiamo adesso a specificare. Ci riferiamo alla necessaria modifica di una regola presente in diversi progetti e totalmente priva di credibilità logica e umana, che affida la priorità nella scelta del cognome o nella sequenza dei cognomi a ordini alfabetici e sorteggi, che allo stato attuale appaiono solo per quel che in sostanza sono: la continuazione nascosta della rimozione infinita del ruolo particolare della donna nella generazione dei figli. Questa rimozione volontaria, che ha condotto al sistema patriarcale della patronimia, è la radice del male sociale che induce altre discriminazioni più profonde, fondando occultamente il presunto diritto di sopraffazione dell’essere maschile sul femminile. Noi riteniamo che una riforma debba fare qualcosa di più di garantire il legittimo desiderio di dare ai figli il proprio cognome solo alle donne più forti o fortunate (quelle cioè che hanno un cogenitore immune da vizi ideologici); riteniamo che debba contribuire a modificare un sistema sociale bacato e ciò può accadere solo col riconoscimento di una parità che non neghi la diversità, ovvero di una parità basata su un pari contributo in termini di impegno psicofisico e relazione tra genitori e figli. La registrazione anagrafica di un figlio avviene in concomitanza con la nascita e poiché il cognome sancisce la relazione di appartenenza a un’area familiare e questa è inizialmente configurabile ESCLUSIVAMENTE mediante la relazione psicofisica col genitore gravido che partorisce, chiediamo che PER PROSSIMITÀ NEONATALE il cognome di quel genitore sia il primo dei cognomi del figlio, senza che tale posizione possa incidere sulla futura libertà del figlio di scegliere quale dei suoi cognomi attribuire alla propria discendenza. Ci si dirà: ma quel genitore è sempre e soltanto la donna. Verissimo e ce ne dispiace. Ove pertanto si voglia evitare di sopraffare nuovamente benché tacitamente le donne e al tempo stesso scongiurare il rischio che i padri possano ritenere non equa per loro tale norma, dichiariamo che riterremo per parte nostra accettabile la regola dell’ordine alfabetico o del sorteggio, a condizione che tale sistema sia stato posto in essere anche prima ovvero nell’assegnazione di gravidanze e parti tra i due genitori, ricorrendo a tutte le procedure biologiche del caso. Certe del favorevole accoglimento di quest’ultima richiesta, auguriamo alle e ai parlamentari interessati un sereno e proficuo lavoro.
Milano, 10 gennaio 2014
Iole Natoli e coloro che appresso firmeranno

A: Valeria Fedeli, Vicepresidente del Senato Alessandra Mussolini, Senatrice Riccardo Nencini, Senatore Laura Garavini, Deputata Fabrizia Giuliani, Deputata Enrico Letta, Presidente del Consiglio Michela Marzano, Deputata Marisa Nicchi, Deputata Pia Locatelli, Deputata Barbara Pollastrini, Deputata Donatella Ferranti, Deputata Titti Di Salvo, Deputata Maria Cecilia Guerra, Senatrice Laura Puppato, Senatrice Giuseppe Civati, Deputato Anna Finocchiaro, Senatrice Rosy Bindi, Deputata Laura Boldrini, Presidente della Camera dei Deputali Pietro Grasso, Presidente del Senato All’attenzione di firmatarie e firmatari di tutti i Ddl sul cognome della famiglia e dei figli Nel COGNOME della MADRE e del PADRE richiesta di emendamento necessario NO alla casualità e NO alle DONNE SOTTO TUTELA Con assoluta serietà d’intenti, chiediamo alle e ai firmatari di tutti i Ddl sul cognome della famiglia e dei figli, già esistenti in Parlamento e di cui si calendarizzerà la... 

Firma qui

lunedì 21 ottobre 2013

Je connais un violeur [Conosco uno stupratore]

Da Intersezioni
Conosco uno stupratore

Mentre cercavo notizie sullo stupro della sedicenne violentata dagli ‘amici’, durante una festa, ho scoperto il tumblr Je connais un violeur [Conosco uno stupratore].
Un progetto francese, partito ad agosto 2013, che raccoglie già tantissime storie di stupro, al fine di spezzare quella falsa narrazione che ci vuole esposte al pericolo solo quando ci avventuriamo fuori dalle mura domestiche, vittime solo quando ci esponiamo allo sguardo degli estranei o incrociamo un ‘pazzo’, ribadendo chiaramente che la maggior parte delle violenze sessuali avvengono a opera di conoscenti e in famiglia.
Come si legge nell’about del tumblr:
L’immagine dello stupratore psicopatico che vive ai margini della società, è un mito che riguarda solo una piccola minoranza di loro. Nel 67% dei casi, la violenza ha avuto luogo presso la casa della vittima o del carnefice, che è un amico o una persona cara. Nel 80% dei casi, l’autore dello stupro era noto alla vittima. Uno stupro su 3 è commesso dal marito o dal partner abituale.
Quanto alle “false accuse” di cui sentiamo parlare quando si tratta di uno stupro, le statistiche parlano chiaro: sono estremamente rare. Al contrario, solo uno stupro su 10 è riferito alla polizia e il 97% degli stupratori non sconta nemmeno un giorno in carcere.
Erano i nostri amici, i nostri partner, i nostri familiari o membri della nostra cerchia di conoscenti. Conosciamo degli stupratori: permetteteci di mostraveli.
I racconti delle vittime vengono resi in forma anonima da Pauline, 27 anni, attivista femminista, ex studentessa di Scienze Politiche.
Autori degli stupri sono padri, fratelli, amici, amanti, cugini, zii. Uomini appartenenti a tutti i ceti sociali. Solo in pochi casi conoscenti o estranei. Attraverso i racconti si percepisce la vergogna, la paura e il senso di colpa generati dallo stupro nelle vittime. Secondo la psichiatra Muriel Salmona, che figura tra i link del blog stesso, la condivisione di queste storie è terapeutica in sé, perché dà alle vittime la sensazione di non essere sole nella difficoltà di comunicare ciò che è loro accaduto, anche a distanza di anni e nell’incredulità di chi le circonda[1].
Se uscire di casa è ritenuto pericoloso, lo è anche restarci, allora tanto vale andare fuori a reclamare il diritto ad essere in ogni posto, in ogni momento.


[1] Le Point.fr, Je connais un violeur : C’est mon père, mon mari, mon oncle…, «http://www.lepoint.fr», 29/09/2013 ore 09:45.

domenica 13 ottobre 2013

RU846, storie di ordinaria follia!

Da Intersezioni

Volentieri condividiamo il resoconto fatto da Guerriera (grazie!) sulla sua esperienza in merito all’accesso alla RU846, sperando che la tenacia con la quale è riuscita a tenere testa ad una situazione allucinante possa infondere coraggio e determinazione a tutte quelle donne che dovessero trovarsi nella stessa situazione… ecco perché è più che mai necessario continuare a lottare! Buona lettura!
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RU846, storie (sur)reali!
Sono nel mondo arabo, ho appena scoperto di essere incinta. Cazzo, potevo fare più attenzione… nel senso, avevo un dubbio prima di partire ma mi sono detta: “Ok, sarà lo stress pre-partenza.. eppoi, ti pare che capita proprio a me e proprio in questo momento?”
Sono dall’altra parte del mondo, ma non facciamoci prendere dal panico. Faccio le analisi, confermato il risultato positivo del test. Mentre cerco di prenotare un volo il più presto possibile, inizio a spulciare i siti sull’argomento e ad avvisare le mie amiche a Roma e Bologna… perché l’obiettivo è uno: RU846!
Panico! Sui siti le informazioni sono tantissime e diversissime. Ognun* pare la pensi a proprio modo. Le informazioni raccolte dalle amiche confermano il delirio di info che non coincidono e si contraddicono.
Contatto Vita di donna, associazione di supporto alle donne, di Roma, sono super disponibili: le ricontatto appena atterrata.
08/10
Devo recarmi al San Camillo alle 6,30 del mattino, all’ambulatorio apposito per la questione, in un sottoscala del reparto di ginecologia. Prendo il treno da Termini per stazione Trastevere, ma sono stanca e super confusa. Sbaglio treno e mi ritrovo a Zagarolo, merda! Arrivo al San Camillo alle 10. Parlo con una infermiera ed una ginecologa, niente da fare, devo tornare il giorno successivo alle 6,30, così da fare l’ecografia e vedere se sono ancora in tempo. Ma non mi fido molto! Il San Camillo è uno dei pochi ospedali a dare la pillola (dubbio rimane su Ostia, dove al telefono sono stati veramente poco disponibili… quando si sono degnati di rispondere, ossia dopo 3 giorni di tentativi). La ginecologa mi dice che comunque prima del 16 non può inserirmi… stiamo parlando della RU846 per la quale il massimo previsto dalla legge è 49 giorni dopo il primo giorno dell’ultimo ciclo, o di un parrucchiere super alla moda? P.s. (non fidatevi di questo conteggio.. 49 giorni dal primo giorno di ultimo ciclo nel caso di ciclo super regolare… la gestazione può infatti cominciare dopo… per cui fate un’ecografia, potete scoprire di essere ancora in tempo nonostante i vostri calcoli sfavorevoli). Chiamo l’ospedale Maggiore di Bologna… al massimo, se dall’ecografia risulterò essere ancora in tempo, prendo il primo treno e me ne vado al Nord. Da Bologna mi avvertono che è necessario il Certificato legale per l’interruzione volontaria (che invece non è necessario a Roma) rilasciato o dal medico di famiglia (il mio è obiettore… ovviamente… strascichi d’infanzia!) o dai consultori familiari. Chiamo il consultorio di Garbatella, domani mattina, dopo l’ecografia al San Camillo, volo da loro per il certificato.
09/10
Arrivo al San Camillo alle 6h30. Scopro che l’ambulatorio apre alle 8. Fanno andare prima le ragazze perché così appena aprono consegnano le carte per chi è lì per la prima volta; se sei assente in questa distribuzione che avviene dalle 8 alle 8h15… sei fuori! Ok, metodo di merda, ma è comunque un metodo. Ma l’ambulatorio è chiuso per davvero… nel senso che siamo 7 ragazze, fuori, sotto la pioggia ad aspettare l’apertura delle porte di vetro oltre le quali si vede già tutta la gente all’interno. E mi sembriamo ree, lì in attesa di estirpare una colpa. Aprono le porte e mi infilo in questa catena di montaggio… stanza 1 consegna primo foglio, stanza 2 consegna altri documenti, stanza per ecografia e la tipa che grida: “Sei fuori!”
Ok, adesso sono in una partita di baseball.
“Scusi, cazzo vuol dire che sono fuori?”
“Che non ce la fai a prendere la pillola”
“Ok, lei però si limiti a dirmi se potenzialmente sarei in tempo”
“Ma le ho detto che non ce la fa, qui abbiamo le liste d’attesa, la infilo nella prassi del chirurgico”
“Senta, mi dia la diagnosi delle settimane di gestazione, che provo altrove”
“Lei è a 6 settimane + 1 giorno, avrebbe 6 giorni ancora, ma qui non è possibile e non pensi di poter trovare una struttura che le riservi un trattamento migliore”
“Mi dia l’ecografia e stia zitta”
“Non si può, è un documento privato”
“La MIA ecografia è un SUO documento privato?”
Finisco nella prassi di “quella che se ne vuole andare” come gridava quella deficiente di infermiera per il corridoio alle sue colleghe. Non tutte sono così idiote, ad alcune spiego le mie intenzioni, capiscono, mi appoggiano e mi fotocopiano in segreto l’ecografia con le settimane di gestazione.
Secondo step: consultorio della Garbatella per il certificato legale e poi Bologna.
“Mi spiace, non c’è la ginecologa oggi”
“Ma come, avevo chiamato ieri, avevo detto per cosa dovevo passare…” Vabbè, si fanno perdonare in fretta… sono due angeli e mi aiutano tantissimo. Le loro informazioni sono completamente scorrette; il San Camillo stesso ha fatto circolare un documento in cui il limite previsto per la RU846 è di 5 settimane + 5 giorni; sto 10 minuti a spiegare alle infermiere che non è così. Chiamano il San Camillo per conferma. Ovviamente, ho ragione io! Chiamano ogni consultorio di Roma per sapere se c’è un ginecologo o una ginecologa disponibili… Nessuno… in tutta Roma, pare che i ginecolog* siano tutt* in aggiornamento/conferenza/vacanza/cazzo ne so! E non solo non ci sono ginecolog* disponibili, ma ovviamente ogni infermiera ha diverse indicazioni sulle procedure per cui ogni volta è un combattere per far valere la nostra versione e non la loro! Trovata una… che a quanto dicono le infermiere è anche la coordinatrice di tutto il settore ginecologico di Roma: ‘sta beneamata sostiene che il certificato fatto a Roma non abbia valore in Emilia Romagna… e meno male che sei la responsabile di ‘sta cippa, ignorante!
[comunque, prima di arrivare al consultorio della Garbatella, da casa, ho chiamato io stessa vari altri consultori; a Roma funziona che in base a dove abiti ti devi rivolgere al consultorio della tua circoscrizione, per cui avevo una serie di indirizzi falsi, (domicilio) da dare in base al consultorio che chiamavo… cacchio me ne frega!... annotazione: uno dei peggiori che ho trovato è il consultorio spenser, della circoscrizione della Prenestina: loro risposta “Possiamo farti venire non prima del 17 per farti parlare con l'assistenza sociale e il 18 con la ginecologa”… e il 19 con quello stronzo di tuo fratello!!! ]
Quando non ci credevo più neanche io, troviamo la dott. Maiocchetti. Fantastica… dice di correre da lei. Si tratta del consultorio di Via Silone 100, 3 ponte (metro Laurentina, bus 776); ho un’ora e mezza di tempo prima che chiuda. CORRO! Arrivo, compilo le carte, mi firma il certificato segnando la postilla urgenza… e non “La invitiamo a pensarci 7 giorni” ; scambiamo due chiacchiere… ci lamentiamo entrambe di questo trattamento riservato alle donne, è uno schifo… nella Asl non sono autorizzate a dare la RU846 ma possono fare l’ IGV chirurgico… incredibile! Dobbiamo lottare, dice lei, sì cara dottora, dobbiamo lottare!
[altro post: all’ospedale di Sant’Andrea, sono stata 15 minuti a spiegare la differenza alla tipa con cui ho parlato tra una 'pillola del giorno dopo' che si dà al Pronto soccorso in codice bianco e la RU846!!!]
L’infermiere della Garbatella aveva anche richiamato l’ospedale di Bologna, per avere conferma del fatto che se fossi stata presente il giorno dopo, mi avrebbe subito inserito nella pratica dell’IVG farmacologica. Dicono di sì, ma che devo assolutamente essere alle 8 del mattino al centro d’analisi in Via Marconi 35 e poi da lì sarei stata trasferita al Maggiore.
Prendo il primo treno… merda quanto costa! Arrivo a Bologna la sera… sono stanchissima!
10/10
Ospedale Maggiore, dai sono al Nord, saranno stereotipi, ma mi sento già più al sicuro. Arrivo a via Marconi… il numero 35 non esiste! Chiamo l’ospedale.
“Senta, io non ho segnato il suo nome, ma lei ieri con chi ha parlato? Perché è al Marconi, che c’entra?”
“Ma come con chi ho parlato? Voi avete il telefono in mezzo alla strada e chiunque passa può rispondere scusi?”
“Io qui sono la responsabile e le dico che non deve far nulla di quello che ‘non so chi’ le ha detto di fare. Ora la segno, venga qui all’ospedale alle 10h30”
Ok, sono in ospedale… aspetto… aspetto… la ginecologa non c’è… le infermiere non la trovano. Ne cercano un’altra… una certa Adelaide. Dopo 4 ore d’attesa, mi fa entrare mi fa un’altra ecografia. 6+4. Ma come 6+4… ieri era 6+1!
“Lo so, ma ogni macchinario ha la sua sensibilità e dato che devo essere io a firmare l’autorizzazione io faccio riferimento ai miei macchinari”
“La sensibilità dei macchinari?? La mia vita è nella mani della sensibilità di un macchinario? Senta, io sono venuta apposta da Roma perché mi era stato garantito che ce l’avrei fatta qui”
“Se fosse stata a 6+1 ce l’avrebbe fatta ma oggi non si può fare, giovedì non le facciamo (????) e poi c’è il week-end (??????) e quindi salta a lunedì e lei non è più in tempo. Vada a prendere l’appuntamento per il chirurgico”
Inizio a sospettare che prendano soldi per ogni chirurgico che fanno! Nel frattempo sento ridere le infermiere di me e del mio esser venuta da Roma. Che faccio, entro e spacco tutto? No, non ti preoccupare, ci penserà il karma, tu continua per la tua strada! Mi prenoto l’appuntamento per il chirurgico, non si sa mai. Nel frattempo però, qualche giorno prima, avevo chiamato Lamezia (unico ospedale della Calabria a fornire il servizio), mi avevano risposto di richiamare oggi. La dottoressa sembra super gentile, mi dice di correre lì, non c’è alcun problema. Vabbè, tutte così hanno detto, poi qualcosa succede sempre. Prenoto un aereo, tanto sono così stanca e poco fiduciosa che male che va, e male andrà, torno a Cosenza, a casa mia a far finta per qualche giorno che sia stato solo un incubo. Arrivo a Lamezia a mezzanotte, vado in albergo, la mattina dopo sono in ospedale.
Finisco subito nel sistema della RU846 senza accorgermene (Fantastica dottora Ermio!)… analisi, nuova ecografia, ordinato ricovero e mi ritrovo con la pillola in mano.
Conclusioni:
1. Il primo che mi dice che gli ospedali funzionano meglio al nord che al sud, lo meno!
2. Dicono che i vari impedimenti siano finalizzati a far riflettere la donna su quello che sta per fare… ma a me è capitato tutto il contrario. Non ho avuto un attimo di pausa e sono arrivata a prendere ‘ste pillole, come l’acqua di un fiume arriva alla foce del mare… senza alcuna consapevolezza. Ma la consapevolezza è tempo e del tempo, noi donne siamo state private!
Qui, in ospedale a Lamezia, ci sono statue di Madonne dappertutto, c’è la cappella… penso non sia proprio legale tutto ciò. Sono circondata da donne incinta ma l’unico mio pensiero è che sono stanca… davvero stanca!
Alcuni consigli per finire : non delegate! Per quanto le vostre amiche e i vostri amici vi vogliano bene, non avranno mai la cura che avrete voi nel raccogliere le info. Ed in più, la colpa non sarà loro, ma di questo mare di informazioni contrastanti sull’argomento (non hanno le idee chiare quelle che lavorano nel campo, figuriamoci le vostre amiche). In mille vi diranno frasi inutili del tipo : “Ma perché non sei andata a Firenze, ma perché non sei andata al Sant’Orsola?” Non date retta… ogni scelta che prendete è un rischio che può costarvi caro, per cui le possibilità sembrano infinite (ed in realtà sono veramente limitate). Fidatevi delle info che voi stesse avete recepito e ovviamente del vostro istinto! Non date retta soprattutto a chi vi dice le solite frasi del cavolo “Dovevi fare attenzione” oppure “Ma scusa, non hai usato precauzioni?” sono persone che forse si accorgeranno di quanto fuori luogo fossero in quel momento, ma voi non avete tempo da perdere, avete cose più importanti a cui pensare!
Non vi arrendete al primo o alla prima che vi dice che non siete in tempo. La legge è 49 giorni (nel senso che entro il 49esimo bisogna prendere la prima pillola), tentate tentate tentate!
Per chi vi ostacolerà non v’è differenza tra il chirurgico e il farmacologico… tanto il corpo è vostro, che gli frega a loro! Invece il vostro corpo è importante e va trattato con riguardo! Penso a chi ha un lavoro o a chi non ha i soldi per affrontare gli spostamenti che ho dovuto affrontare io! Penso a chi non ha la forza d’animo per combattere sola contro questo sistema… o a chi semplicemente avrebbe bisogno di tempo e pace per prendere questa decisione.
Penso a tutte voi e la mia rabbia diviene infinita!

domenica 11 agosto 2013

Da quante cose viene definita una donna?

Gli acquerelli di Jay ci dicono che:
illustrazione di Jay happyblood.tumblr.com
Dal suo blog:
“Le donne sono fantastiche, non sei d’accordo?
Volevo fare una semplice collezione di belle donne in acquerello, così l’ho fatta. Ho deciso di aggiungere del testo di accompagnamento per dargli una voce. Il mio intento non era quello di abolire ogni stereotipo, ma semplicemente di illustrare donne di varie personalità, tipi di corpo, età ed etnie. Ogni donna è bella!”

illustrazione di Jay happyblood.tumblr.com
E’ la semplice idea di Jay, 20 anni, trans e queer, che studia illustrazione al Ringling College of Art and Design a Sarasota, in Florida.
illustrazione di Jay happyblood.tumblr.com
illustrazione di Jay happyblood.tumblr.com

venerdì 9 agosto 2013

Sul Decreto Legge strumentale alla repressione di Stato e al mantenimento del Governo - contro le donne

Metto qui, di seguito, alcuni post che condivido sul Decreto Legge (il cui testo per intero ancora non è in rete) approvato dal Consiglio dei Ministri, che in teoria dovrebbe contrastare la violenza sulle donne (soprattutto se sei moglie e madre), senza porre in atto NESSUNA prevenzione, trattando esclusivamente di inasprimento delle pene (ma le carceri non erano affollate?), aggravanti e ritorno alla minorità delle donne - per le quali si querela d'ufficio e non c'è possibilità di ritirare la denuncia - quindi si denuncerà molto meno. Magicamente tratta anche di cantieri violati - perché serve un decreto contro la violenza sulle donne per fermare la lotta notav - per cui Marta la si può manganellare e palpeggiare tranquillamente e con lei tutte quelle che lottano per i diritti propri e di tutt@.



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Da Abbatto i Muri:
Il Decreto Legge approvato dal Consiglio dei Ministri con norme a contrasto della violenza sulle donne, così come lo vediamo pubblicizzato nei media [1] [2] [3] [4], ha un approccio paternalista e autoritario alla questione, non tiene conto delle proposte delle persone, delle stesse donne che da tanto si occupano del fenomeno e, sul piano della propaganda, impone un piano repressivo inefficace, brandisce aggravanti senza senso e spaccia per nuove alcune soluzioni che esistono già.
Non viene finanziato alcun Osservatorio, utile ad analizzare e definire il fenomeno prima di assumere qualunque decisione, è basato sull’impostazione già espressa dai Ministri Alfano e Cancellieri con l’aiuto della consulente Isabella Rauti per la Violenza di Genere, con l’accordo della vice ministro del Lavoro Dottoressa Guerra che ha già chiarito come le donne vanno tutelate in quanto “risorsa”.
Non stupisce perciò la proposta di aggravanti che colpirebbero uomini che fanno violenza su mogli, madri e ancor meno stupisce l’aggravante per chi userebbe violenza su una donna incinta. Quel che si vuole tutelare, evidentemente, non è la persona ma un ruolo di genere preciso. La lotta contro il femminicidio è dunque rivolta contro chi colpisce donne, madri e mogli, inficiandone la possibilità di essere “risorsa” per la propria peculiarità riproduttiva e il proprio ruolo di cura.
Il Decreto, da quel che si legge, nonostante la difficoltà a reperirne il testo integrale, non si esprime in relazione alla violenza di genere nel suo complesso, includendo gay, lesbiche, trans, migranti rinchiuse nei Cie e separa le vittime in sante e puttane, donne sterili e gravide, soggetti comunque deboli, infantili, incapaci di intendere e volere che incorrerebbero in richiami e sanzioni autoritarie nel caso in cui volessero ritirare una querela.
L’idea della “certezza della pena”, mutuata dalle politiche di destra, con proposta di delazione/segnalazione anonima per denunciare il violento, non ha niente a che fare con un piano preventivo che non interessa il governo. Non interessa investire nella cultura, nell’utilizzo delle reti territoriali esistenti, non interessa in assoluto mettere in discussione gli stessi inneschi culturali che producono discriminazione e violenza nei confronti delle donne. Anzi tali inneschi vengono decisamente riprodotti.
In più il Decreto passa da un argomento all’altro e, coerentemente con l’idea che è sulle forze dell’ordine che decidono di investire invece che su altro, da quel che leggiamo si occupa anche di rafforzare le misure repressive contro chi si oppone in Val Susa alla realizzazione della Tav. Si parla di messa in sicurezza dei cantieri che si traduce in una maggiore militarizzazione ed espropriazione di quel territorio. In più sono previste punizioni più severe per chi osa varcare i confini dell’area in cui è realizzato il cantiere.
Il governo ottiene così consenso su una misura repressiva con l’alibi di norme in difesa delle donne. La lotta contro la violenza sulle donne può essere realizzata legittimando autoritarismo e repressione? E’ possibile allearsi con chi autorizza le forze dell’ordine a manganellare ed arrestare gli/le attivist* #NoTav in nome della lotta contro la violenza sulle donne?
Questo governo si occupa così tanto delle donne che le usa per legittimare soluzioni repressive contro quelle che non restano a casa a fare da madri e mogli. Dunque se resti a casa a svolgere il tuo ruolo di cura forse qualcuno ti dedicherà due righe fingendo di tutelarti. Se invece vai in piazza a rivendicare diritti e a difendere la Val Susa sei cattiva e meriti di essere manganellata.
Sarebbe opportuno, adesso, che tutte le donne che hanno chiaro quello che sta succedendo in Italia sulla pelle delle donne, giacché viene strumentalizzato un tema importante per tante tra noi, si esprimessero e prendessero le distanze dalle posizioni del governo.
E’ questo il momento in cui tante e tanti dovremmo fare sentire la nostra voce perché innanzitutto chi decide di varare un decreto legge su un tema che ci riguarda dovrebbe consultarci e non pianificare strategie che servono solo a fare apparire forte, legittimo, un governo che non è riuscito a fare nulla di concreto per i cittadini e le cittadine che dice di rappresentare. Un governo che giudica prioritaria la costruzione di un’opera inutile e dispendiosa (la Tav Torino-Lione) alla realizzazione di piani concreti che parlino di diritto al reddito, alla casa, alla gratuità di servizi, che aiutino uomini, donne, tantissime persone sempre più piene di problemi economici.
Sono una donna vittima di violenza e non mi interessa l’approvazione di un decreto legge che sancisce un principio: se voglio strumenti di difesa devo innanzitutto legittimare i tutori che useranno i manganelli contro compagni, compagne e amiche che lottano in Val Susa.
Ci sono altre persone, donne, uomini, persone, che hanno voglia di dire con me che tutto ciò non può avvenire in nostro nome?
Not in my name!
Grazie!
  
legittimarepressione
Da dumbles
Oggi hanno partorito il mostroide. Con gran clamore di Evviva! Bene! Bravi! Il governo Letta ha mostrato il costrutto giuridico cioè il DL di prevenzione e contrasto alla violenza di genere.
Tutto il peggio di quello che temevamo, cui avevamo accennato qui: procedimento senza querela di parte, irrevocabilità della querela, delazione, inasprimento delle pene… insomma un dispositivo incardinato  sostanzialmente su due principi: irrilevanza della volontà delle donne (la mancanza di querela di parte corrisponde a questo) e logica “carcerocentrica” come la chiama l’Unione delle camere penali cui pure questo DL non piace perchè demagogico ed inquietante.
…Se è inquietante per loro, figuriamoci per noi…
Ecco, non a caso, nel gioiello di sensibilità verso le donne è ben incastonato un articolo che prevede l’inasprimento delle pene per l’accesso abusivo nei cantieri; quali cantieri? Ma quelli NoTav ovviamente!
Eh già… se “l’assassino ha le chiavi di casa”, può essere che ha anche quelle del cantiere…
D’altra parte è anche vero, visto le violenze e le violazioni sessuali cui è stata sottoposta Marta, militante NoTav.
E qui il picchiatore e molestatore è mandato da chi ti fa il DL a contrasto della violenza di genere.
Il governo delle larghe intese ha trovato il modo di far intendere che difende le donne mentre le considera zero e se ti rompono le scatole (i cantieri) anche le meni. Bene! Bravi! e fess* chi ci crede.
Da Lipperatura:
No, non mi piace. Parlo del decreto legge sul femminicidio così come è stato raccontato. Premetto che non ho avuto modo di studiarlo nei dettagli, e che la sensazione che ho è che la ex ministra Idem avesse un’idea molto diversa (altrimenti, perché convocare le associazioni che si battono contro la violenza, giusto qualche settimana prima di essere messa alla gogna e costretta a farsi da parte?).
Non mi piace perché è un decreto repressivo. E molte di noi hanno detto e ripetuto che nessuna repressione e nessun giro di vite porterà a risultati se non si insiste sulla prevenzione. Scuola. Formazione degli educatori. Libri di testo delle elementari. Educazione al genere, all’affettività, alla sessualità. Da subito. Di questo non si parla.
Non mi piace perché non si parla di centri antiviolenza, e tantomeno della loro moltiplicazione e finanziamento, da quanto è dato almeno capire. Non si  parla di centri di ascolto per uomini abusanti. Non si cerca di capire, formare e prevenire, ma si  pigia sul pedale della guerra fra i sessi, fornendo a chi ancora sputa la parola femminicidio come una caramella mal masticata ottimi argomenti per parlare di espediente securitario.
Non mi piace perché glissa sugli strumenti fondamentali: un osservatorio che monitori i femminicidi, dicendoci quanti sono e come avvengono. Fin qui, le indagini statistiche, come detto centinaia di volte, sono incomplete e generiche.
Non mi piace perché, come ha dichiarato Michela Murgia, la non revocabilità della querela “è una grande responsabilità che lo Stato si assume perché chi impedisce alla vittima di revocare la denuncia deve poter garantire che l’inasprimento degli abusi non ci sarà. O che se ci sarà, la donna verrà protetta. Lo dico perché nella stragrande maggioranza dei casi dal momento della querela le cose per chi ha subito violenze cominciano a peggiorare”. Non solo, aggiunge Michela, “io ho sempre creduto che una donna debba avere la libertà di decidere se vuole o meno denunciare. Per questo non sono molto d’accordo con la procedibilità d’ufficio che prevede anche che possa essere il pronto soccorso a inviare una segnalazione a polizia e carabinieri. Questo vale ancora di più oggi: se una donna, a un certo punto, non se la sente di continuare l’iter processuale, deve poter fare un passo indietro. Non è giusto trasferire questo diritto alle forze dell’ordine. È un’ulteriore sottrazione che si fa a chi di violenze già ne ha subite parecchie”.
Non mi piace perché, come ha scritto Concita De Gregorio, “dire che la pena sarà di un terzo più severa nel caso in cui le vittime siano incinte o mogli o compagne o fidanzate del carnefice è comprensibile, dal punto di vista del legislatore, perché sì che battere una donna che aspetta un bambino o che ha un vincolo di fiducia con chi la aggredisce è più grave. Ma stabilisce anche una discriminazione culturalmente delicatissima verso le donne che non fanno figli e non hanno legami con un uomo. In che senso uccidere una donna non sposata e non madre è meno grave? Vale forse di meno per la società?”.
Non mi piace, perché come ha scritto Enza Panebianco, inserisce misure repressive nei confronti della lotta NoTav, di punto in bianco: ” il Decreto passa da un argomento all’altro e, coerentemente con l’idea che è sulle forze dell’ordine che decidono di investire invece che su altro, da quel che leggiamo si occupa anche di rafforzare le misure repressive contro chi si oppone in Val Susa alla realizzazione della Tav. Si parla di messa in sicurezza dei cantieri che si traduce in una maggiore militarizzazione ed espropriazione di quel territorio. In più sono previste punizioni più severe per chi osa varcare i confini dell’area in cui è realizzato il cantiere. Il governo ottiene così consenso su una misura repressiva con l’alibi di norme in difesa delle donne. La lotta contro la violenza sulle donne può essere realizzata legittimando autoritarismo e repressione? E’ possibile allearsi con chi autorizza le forze dell’ordine a manganellare ed arrestare gli/le attivist* #NoTav in nome della lotta contro la violenza sulle donne?”
Non mi piace perché, a quanto si legge, ha utilizzato la lotta di chi si oppone ai femminicidi e alla violenza sulle donne in chiave rassicurante, consolatoria, paternalista. Perché ha usato quella lotta come un fiore all’occhiello per legittimare l’operato di un governo che definire criticabile è poco.
E’ un passo, mi dicono amiche e compagne di strada. Per me, è un passo falso, compiuto di fretta e compiuto male. In una parola, servirà a poco. La battaglia è culturale, inclusa quella al cyberstalking.
Mi auguro che esista la possibilità di discuterne ancora, nonostante tutto.

giovedì 1 agosto 2013

Andrea.

Perché non cada nel vuoto, perché non si dimentichi.

Storia di Andrea, “la trans di Termini” massacrata alla stazione
-
 La mattina del 29 luglio il suo corpo pieno di lividi e ferite è stato trovato abbandonato al binario 10. 
Andrea aveva solo 28 anni. Sei giorni prima di morire ci aveva raccontato le sue paure e le sue speranze. 
Nonostante tutto.
31 luglio 2013

Fonte redattoresociale.it

Chissà a cosa pensava Andrea ogni notte prima di addormentarsi sopra il suo cartone davanti alla stazione Termini di Roma. Forse pensava alla famiglia in Colombia, a sua madre e a suo padre lasciati quattro anni fa per trovare fortuna in Italia. Forse avrebbe voluto chiamarli, dirgli che la vita non era esattamente come aveva sognato da bambino, quando era ancora un maschio, raccontargli delle botte prese, del braccio rimasto paralizzato, della gamba che si muove a fatica. O forse semplicemente sprofondava subito nel sonno. Era troppo stanca e delusa per pensare.
Certo, non immaginava di morire da sola, ammazzata a bastonate e forse a coltellate nella stazione che era diventata la sua casa. Andrea aveva solo 28 anni. La mattina del 29 luglio il suo corpo pieno di lividi e ferite è stato trovato abbandonato al binario 10.
Tra i viaggiatori che ogni giorno correvano a prendere il treno alla stazione pochi facevano caso a lei. Per tutti era la trans di Termini, quella che passava le sue giornate lungo i binari o davanti all’ingresso della stazione a raccogliere le cicche nei portacenere per racimolare un po’ di tabacco. Un’altra disperata senza nome e senza storia che andava a riempire le file del popolo dei senzatetto della stazione.
Non parlava con chiunque Andrea, non dava confidenza facilmente. La maggior parte del tempo se ne stava seduta a fissare il vuoto. Oppure si trascinava, un passo alla volta, stando attenta a non perdere l’equilibrio, verso la pensilina dell’autobus 714 che l’avrebbe portata alla mensa della Caritas di Colle Oppio a consumare il primo pasto della giornata.
Quando capiva di potersi fidare, però, cambiava espressione, il suo volto bruciato dal sole che dimostrava più anni di quelli che aveva, si illuminava. Così, sei giorni prima di morire ci ha raccontato la sua storia: “La mia casa è Termini, dormo qui da quattro anni. La notte ho paura che qualcuno mi metta le mani addosso”, ci aveva confidato. Andrea era stata aggredita più volte, le avevano rubato il cellulare e il passaporto. “A Ostia un ragazzo mi ha picchiata. Sono stata sette mesi in coma”. Sul suo corpo era rimasto indelebile il ricordo di tutte le botte e i soprusi subiti.
Avrebbe voluto trovare un lavoro ma sapeva che senza documenti, con un braccio paralizzato e una gamba fuori uso, nessuno l’avrebbe mai assunta. Forse è stata proprio la disperazione a spingerla in qualche giro poco raccomandabile di droga o di prostituzione, come ipotizza la polizia. Forse ha chiesto aiuto alle persone sbagliate.
Mentre sorrideva davanti alla telecamera e domandava ridendo se in video veniva bene, Andrea non pensava alla morte. Non pensava di morire pochi giorni dopo con addosso la sua gonna rosa e le sue scarpe da ginnastica. Lei pensava al futuro perché nonostante tutto non aveva perso la speranza. “Vorrei incontrare un ragazzo con tanti soldi che mi faccia lasciare la strada perché è troppa brutta”, ci aveva detto. A ricordare il suo sorriso triste, la sua storia, la sua vita, oggi ci sono solo due o tre senzatetto della stazione, i suoi compagni di viaggio e nessun altro. (Maria Gabriella Lanza)

Fonte redattoresociale.it

Qui l'intervista video.

mercoledì 24 luglio 2013

Alla periferia del maschile. Il lavoro con i "sex offenders" a Regina Coeli

Olivier Malcor, Parteciparte 24 luglio 2013 da zeroviolenzadonne

Lavorare con gli "stupratori occasionali" presenta diverse difficoltà. Una delle principali è la negazione del reato. Si considerano quasi tutti innocenti e vittime di un fraintendimento o di un complotto: "è stato un bacio mal interpretato", "il carabiniere dall'animo poetico ha romanzato la dichiarazione della donna" etc.

Negare il reato per loro ha un costo alto davanti alla legge. Non beneficiano dell’alleggerimento di circa un terzo della pena previsto per chi si riconosce colpevole; invece di fare 4 anni ne fanno 6 per es.
La seconda difficoltà che emerge dal lavoro con loro è la loro forte irritazione per una società che, da un lato promuove e trasmette a tutti i livelli una cultura maschilista e una visione dei ruoli maschili e femminili ben determinata, e dall’altro si stupisce di chi ha concretizzato certi precetti, e li etichetta come i peggiori mostri. Come non pensare all’immagine della donna nella pornografia o alla sua versione chic nella pubblicità, o alla religione che assegna alla donna il ruolo molto limitante di ‘costoletta sussidiaria’ dell’uomo, o ancora ai commentatori delle partite di calcio che invocano la necessità di “penetrare la difesa” o “violare la porta avversaria”, solo per fare qualche esempio.
In questo contesto sarebbe di cattivo gusto andare a dare lezioni ai detenuti su come considerare le donne. E infatti non sono disposti a farsi dare lezioni, anzi, sono loro a “poter aiutare chi sta fuori” e quello che chiamano “lo scontro di opinioni” può anche finire male, visto che scelgono di fare più anni di carcere anziché ammettere il reato.
Per questo motivo il Teatro Dell’Oppresso (TDO) si rivela un metodo privilegiato per affrontare la violenza maschile. Il TDO aiuta le persone a far emergere ed affrontare i disagi e le difficoltà vissute riportandole al sistema più generale che rendono possibili questi disagi. Si parte dal materiale che si manifesta nella spontaneità dei giochi e delle improvvisazioni. Tutto si fa attraverso tecniche ludico teatrali.
Teoricamente il TDO si usa con le persone più oppresse, con chi subisce un sistema oppressivo (maschilismo, razzismo e capitalismo sono i più comuni), ma sarebbe impossibile affrontare, smontare e sormontare il maschilismo evitando il confronto con chi lo veicola.
Si usano tecniche graduali per mettere in scena le situazioni in cui i detenuti si sentono in difficoltà nel gestire le proprie emozioni, pensieri e reazioni. Si parla quindi di disagio più che di oppressione.
Si lavora molto sulle situazioni ‘pericolose’, quelle che potrebbero far tornare in carcere. Si lavora molto sull’approfondire la comprensione delle situazioni difficili vissute.

Ciascuno mostra la propria scena riguardante un problema che tocca tutti (per es. le separazioni). Come facilitatore pongo solo delle domande per guidare l’analisi del problema rappresentato: “Perché ha perso la pazienza in questa scena di separazione”, “secondo voi cosa lo fa sentire giustificato a usare questa strategia?”, “in quale momento si è azionato il pilota automatico?” etc.
Poi si propone ai partecipanti di mostrare cosa farebbero nei panni dell’uomo in difficoltà. “Come gestiresti questa separazione ?”, A turno entrano in scena per mostrare diversi modi di affrontare la situazione. Questo innanzitutto permette loro di vedere che, per ogni situazione, non c’è una reazione meccanica obbligatoria, un ‘dovere maschile’, un’emozione scontata, e sono loro stessi a dimostrarlo. Infatti  sono orgogliosi di mostrare che sanno trovare alternative e soluzioni. In questo modo allargano il loro orizzonte di possibilità e di ruoli, laddove il carcere potrebbe averlo ristretto, condannandoli all’identità di “stupratori”. Scoprono così che non c’è più un solo modo di rispondere a un disagio.
A volte chiedo anche di invertire i ruoli: chi ha agito violenza deve recitare il ruolo della donna che voleva separarsi. Mettendosi nei panni della donna, si indaga sulle emozioni che si provano in quel ruolo e si lavora sulla nozione di autonomia: “può una donna decidere di separarsi?”, “perché solo a certe condizioni?”, “chi decide in quali condizioni?”. Solo gli Italiani hanno accettato di recitare i ruoli femminili; ma tutti sono rimasti spiazzati da questo cambiamento di prospettiva.
Tutte le scene vengono recitate dopo aver fatto una serie di giochi ed esercizi progressivi che permettono di uscire dalla spirale delle giustificazioni e del controllo di tutto ciò che si esprime. Si sviluppano nuove capacità nella spontaneità  e nelle sfide da sormontare, nelle emozioni da gestire, nelle collaborazioni da creare, si lavora sulla comunicazione e l’ascolto, molto limitati anche dalle condizioni di detenzione. Attraverso questi giochi i detenuti possono rendersi conto, guidati dal facilitatore, delle difficoltà che hanno e delle necessità di lavorarci sopra.
L’obiettivo in particolare è quello di fare emergere nella spontaneità i principali disagi affrontati nelle relazioni tra i sessi. Alcuni disagi emergono in modo costante. Prima di tutto la paura che la donna possa essere o diventare indifferente. Sia l’indifferenza di una donna conosciuta, sia quella di una donna che non si conosce affatto. Non a caso l’approccio è un tema chiave. La paura del rifiuto, il timore di non essere all’altezza, di non “rimorchiare” bene fanno dell’approccio un momento di alta tensione. Nell’approccio si cerca di conquistare il consenso della donna, ma questo implica che siano già determinati i ruoli di chi approccia e chi si fa approcciare. Inoltre non basta un solo consenso: per es. la donna può accettare di dire l’ora ma non di andare a bere una birra. Quindi vanno negoziati diversi consensi.
Durante il laboratorio abbiamo vissuto momenti bellissimi. Un detenuto molto educatamente voleva forzare una donna a sedersi, alla fermata dell’autobus. Un altro la voleva convincere che c’erano degli stupratori in giro da cui lei doveva essere protetta. Insomma ci è voluto poco affinché il più maschilista di tutti, dopo 30 anni a Regina Coeli, riconosca: “non so rimorchiare”. Da lì è iniziato un percorso sulla capacità di entrare in relazione con l’altro sesso molto partecipato. Ogni volta si analizzavano le nuove modalità proposte in scena. Un giorno ha partecipato al laboratorio una delle operatrici della Cooperativa Be Free, all’origine del progetto, che dopo le analisi e le valutazioni dei detenuti, ha dato il suo parere sui diversi approcci; quel parere è stato accolto dai detenuti come la massima verità sul tema.
Anche in questo caso, lavorare sull’approccio “pesante”, che va direttamente a sondare la possibilità di avere una relazione sessuale, ma invertendo i ruoli tra uomo e donna, (tra chi è attivo e chi è passivo nelle relazioni sessuali secondo gli stereotipi) ha dato grandi risultati.
I concetti relativi al consenso e all’autonomia sono fondamentali e il detenuto ha grande voglia di approfondirli, purché non sia fatto in modo infantilizzante, purché possa essere lui il perno dell’evoluzione e del cambiamento.
Probabilmente questo lavoro è stato troppo breve per produrre risultati valutabili e pretendere grandi cambiamenti. Ma ha permesso tuttavia di individuare le piste fertili che consentono di evitare lo scontro improduttivo da un lato e le collusioni rischiose dall’altro. È un lavoro che andrebbe fatto in modo costante con i detenuti. Ma come spiegare e far capire  che i detenuti “stupratori” hanno anche bisogno di imparare a entrare in relazione con persone di sesso diverso? Come argomentare che l’approccio, il momento della prima conoscenza di un'altra persona, è un momento privilegiato e complesso per tutte le dinamiche che ci si manifestano, tutti i pregiudizi e gli stereotipi che ci entrano in gioco, tutte le emozioni che scatena? Il TDO è un metodo privilegiato per affrontare questi temi perché offre una palestra per lavorare su situazioni quotidiane, normalmente poco prese in considerazione, o delicate da affrontare.
Ancora più urgente è convincere i politici e gli amministratori che è necessario affrontare le tematiche delle relazioni fra i sessi  a partire dai ragazzi e dalle ragazze e che bisogna cominciare questo lavoro sulla capacità di entrare in relazione e di gestire la frustrazione delle separazioni laddove non si è ancora consolidato il modello stereotipato al quale si aderirà. Non a caso Parteciparte lavora molto con il TDO sugli stereotipi e sulle situazioni conflittuali che ne scaturiscono nelle scuole.
Miriamo alla partecipazione attiva e numerosa dei ragazzi e delle ragazze. Sono loro a creare le scene, sono loro ad analizzare i problemi di genere, ad insegnarci quali sono le regole del maschilismo. Regole scomode anche per i maschi. Con la distanza che da la messa in scena, questo diventa evidente a tutte/i.
Nei laboratori i ragazzi e le ragazze sono ben contenti di potersi confrontare liberamente su quali sono i problemi legati al genere che vivono nella loro quotidianità, di mettere in discussione e trasformare i modelli, di provare alternative per costruire rapporti creativi e rispettosi e di poter essere i protagonisti di questa ricerca e di questa trasformazione. Spesso vogliono anche vedere come ‘l’adulto’ se la cava nelle situazioni…
Perciò più che ricette e kit metodologici, che mi vengono spesso chiesti, credo che il facilitatore debba essere pronto a mettersi in gioco, ad improvvisare sulle problematiche di genere, a proporre il gioco più appropriato al momento, ma più di tutto deve avere rielaborato anche lui i suoi vissuti rispetto ai problemi di genere. Ho scoperto questo grazie a Maschile Plurale, un’associazione dove si condividono esperienze, si rielaborano vissuti, si parte da se stessi, si fa politica, con un’ottica di genere.
Negli spettacoli, dove il pubblico interviene per provare soluzioni, quando una persona prende posizione contro un modello o per inventarne uno diverso, lo fa in nome di tutti. L’evoluzione è sempre decretata e celebrata dal pubblico e sembra che sia poi difficile tornare indietro e riprodurre modelli contro i quali si è lottato, in scena, davanti a tutti, con tanti.
Dato il duplice lavoro – di rielaborazione del passato e di costruzione del futuro - crediamo che abbia un’enorme rilevanza ed efficacia il lavoro sulla prevenzione, prima di quello sul recupero in carcere con i detenuti. Anche perché aspettare il disastro ha un costo altissimo per tutta la società.
Infatti il fenomeno della violenza maschile sulle donne è tanto commentato, ma ben poco combattuto alle radici. Si parla tanto di donne vittime, ma quando si parla di uomini violenti è  solo per mostrarne uno strano o straniero, uno irregolare insomma.
Ci si potrebbe quasi chiedere se questa comunicazione deleteria che tace i costi del maschilismo fa comodo per ricordare alle donne più emancipate che c’è sempre un uomo pronto a rimetterle in riga. E se i media sono i motori di questa campagna controproducente, sarà una bella sfida per il teatro far capire e scardinare le dinamiche politiche che sottendono il problema. Sfida che a Parteciparte abbiamo deciso di raccogliere con spettacoli come “Da paura”, “Amore Mio” o “Brucio d’amore”.
In pieno centro, il Carcere di Regina Coeli ci offre la visione più completa delle periferie del maschile, ai confini, dove si consolidano le regole più dure, quelle che giustificano poi i reati più violenti in tutta la società. Dalla periferia al centro questo materiale diventa un tesoro che permette di individuare alla radice, i moti, le sentenze, le molle più discrete che potrebbero permettere al peggio di accadere. Il Teatro Dell’Oppresso rende visibile tutto questo, in modo che non si possa più non vedere. Ma ci permette anche di decostruire un maschile misero che non regge più il peso di stereotipi invivibili. Ci dà la voglia e gli strumenti per costruire un maschile aperto, plurale, capace di accogliere l’autonomia femminile e tutto l’arcobaleno di desideri tra i sessi.
 
Fonte: http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=37036

mercoledì 17 luglio 2013

Ciò che dovrebbe essere condannato sono gli atti e non le parole che servono a denunciarli

Femminicidio.

Dall'Accademia della Crusca
Quesito: 


C’è necessità di una parola nuova per indicare qualcosa che accade da sempre? Che senso ha sottolineare il sesso di una vittima? Non è offensivo per le donne parlare di loro usando la parola femmina, che pare “più propria dell’animale”? Perché non usare donnicidio, muliericidio, ginocidio o ciò che già abbiamo, uxoricidio? Legittimando femminicidio non provocheremo una proliferazione arbitraria di parole in -cidio?

Femminicidio: i perché di una parola
Recentemente si parla molto di femminicidio (o anche femicidio e femmicidio e del valore delle varianti vedremo dopo) intendendo non solo l’“uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte”. Abbiamo riportato la definizione di femminicidio in Devoto-Oli 2009, ma il termine è attestato anche in ZINGARELLI a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani online, mentre GRADIT 2007 ha femicidio registrato anche nei Neologismi Treccani 2012 come “femmicidio o femicidio”.

Ci sono state e ancora ci sono resistenze all’introduzione del termine, quasi fosse immotivato o semplicemente costituisse un voler forzatamente distinguere tra delitto e delitto semplicemente in base al sesso della vittima; quasi fosse neologismo frutto di una delle tante mode linguistiche più che del bisogno di nominare un nuovo concetto.
In effetti ciò che viene oggi indicato da questa parola è anche storia antica, anche per il nostro paese, come nota Silvia Leonzi in A casa con il nemico pubblicato nel numero di Marzo 2013 della rivista “Il Carabiniere”:

di omicidi femminili commessi da uomini la nostra storia è tristemente piena [...] e allora, perché solo adesso si sente l'esigenza di trovare un nome specifico per questa realtà? Che cos'hanno di diverso queste morti?
Cos'è cambiato nella nostra percezione
di un fenomeno tanto oscuro quanto atavico?

Una risposta possibile a questa domanda è in quanto Michela Murgia scriveva nel suo blog il 2 settembre 2012 a proposito di una notizia pubblicata quel giorno su Repubblica.it in questa forma:
Fano, uccide la moglie in un raptus di gelosia “L'uomo [...] ha accoltellato la donna, che ha tentato di difendersi inutilmente, dopo un violento litigio davanti ai quattro figli…”.

«Nel giornale che vorrei – scrive la Murgia – la notizia sarebbe stata data così: Fano, giovane donna uccisa a coltellate davanti ai suoi figli e poi “Arrestato l'autore del violento femminicidio: era il marito”».
Non si tratta solo di una parola in più, allora, per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi.
Quanta strada, almeno nel nostro paese, sia stata percorsa dalle istituzioni è efficacemente sintetizzato nel testo citato di Silvia Leonzi di cui si ricorda solo un passo a beneficio dei più giovani:


Ed è proprio per la salvaguardia dell'onore che fino al 1981, nel nostro ordinamento, […] per un uomo [che uccide] la moglie, se colto da un impeto d'ira determinato dall'offesa recata [sono previste] pene minori rispetto a un analogo delitto di diverso movente, dal momento che l'oltraggio arrecato all'onore è ben più grave rispetto al delitto riparatore. Infatti, l'articolo 587 del Codice penale, abrogato con la Legge n. 442 del 5 agosto 1981, contempla una pena ridotta per chi uccida la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere "l'onor suo o della famiglia". 

Credo che questo basti a dare conto delle proporzioni e delle conseguenze del rovesciamento del punto di vista auspicato dalla Murgia: non si tratta solo di parole di moda evidentemente.
Alcuni vedono nell’introduzione di femminicidio esclusivamente la sottolineatura (forzata) dell’appartenenza della vittima al sesso femminile, come per esempio si argomenta in un messaggio “postato” sulla pagina Facebook di La lingua batte, rubrica settimanale di Radio3 che si è recentemente occupata di femminicidio:

La parola omicidio deve essere eliminata dal vocabolario giuridico, ma non sostituita dalla parola femminicidio, o da qualsiasi altra parola che indichi una violenza mortale di genere. Siamo tutti esseri umani; perché, quindi, non usiamo umanicidio?

A questa domanda possiamo rispondere che se ci riferiamo a una situazione “neutra”, una donna uccisa nel corso di una rapina in banca, si può parlare di omicidio (o magari chissà in futuro di umanicidio) ma di fronte a una notizia come questa

India, violentata e uccisa a sei anni: Nuovo, agghiacciate caso di stupro nell'Uttar Pradesh: la piccola è stata strangolata e gettata in una discarica (La Repubblica.it 19.04.2013)

#StigmaKills il 19 luglio 2013 a #Roma protesta contro la violenza sulle #sexworkers

ICRSE, il Comitato Internazionale per i Diritti delle Sex Workers in Europa invita tutti i suoi membri, le organizzazioni, gli individui, i/le professionist* del sesso e sue/suoi alleat* a unirsi e protestare contro i recenti omicidi di Jasmine e Dora, contro il violento attacco a Ela e contro tutti/e i/le sex workers in Europa e nel mondo.
LA VIOLENZA CONTRO I/LE SEX WORKERS DEVE FERMARSI.

Qui l'evento facebook.

La Turchia e la Svezia sono stati, durante questa settimana, luogo di omicidi violenti alle sex workers – ma la violenza è costante e tre sex workers sono state uccise in Italia dall’inizio dell’anno. In Francia, Kassandra e Karima sono state assassinate e spinte al suicidio.
Noi chiediamo a tutti i nostri amici e familiari, di protestare contro i sistemici omicidi transfobici e contro la violenza in Turchia e in tutto il mondo. Dora, prostituta trans è stato uccisa questa settimana, ad un’altra sex workers trans in Turchia, Ela, hanno sparato; è stata gravemente ferita ed è improbabile che il suo braccio possa funzionare di nuovo. Dora è la 31esima vittima, dal 2008, transgender di un violento e mortale attacco in Turchia.
Chiediamo a tutti i nostri amici e familiari di protestare contro il modello svedese, che ha portato via i figli di Jasmine e ha dato la custodia al suo ex marito violento che infine l’ha assassinata. Gli assistenti sociali e lo Stato svedese si sono rifiutati di ascoltare Jasmine. Perché, d’altronde, ascoltare una sex worker che si ritiene non sappia cosa è bene per lei? Questa criminalizzazione messa in atto dal sistema è costata a Jasmine la sua vita.
In tutti i paesi in Europa e in tutto il mondo, i/le sex workers vengono assassinati perché le nostre vite sono viste come meno degne di altre. Noi non siamo cittadin* a pieno titolo e questo stato di discriminazione giustifica lo stigma che ci viene inflitto e la violenza soffriamo. E ‘ ora di dire NO a tutte le violenze contro i/le sex workers! NO a ignorare/zittire le nostre voci, NO alla sottrazione dei nostri figli! NO ad attacchi, stupri e omicidi!
Le iniziative di protesta saranno realizzate in molti paesi, in tutto il mondo, venerdì 19 luglio alle 15:00. Incoraggiamo i membri del Comitato Internazionale per i Diritti delle Sex Workers in Europa e tutte le organizzazioni e gli individui a organizzare manifestazioni, proteste, azioni presso le ambasciate turche, svedesi, italiane, o presso qualunque altro luogo simbolico.
Noi daremo aggiornamenti su questa pagina con informazioni sulle proteste, comunicati stampa dell’ICRSE, immagini, banner che potrebbe essere utile condividere etc. Se avete bisogno di aiuto in qualsiasi modo, chiedete info sulla pagina (facebook o Evento) e forse qualcuno può essere in grado di offrire sostegno.
In solidarietà.

LONDON
https://www.facebook.com/events/257055747752775/?ref=25

PARIS
https://www.facebook.com/events/208533619301833/?ref=25

BERLIN
https://www.facebook.com/events/337753779688209/?ref=25

GLASGOW
https://www.facebook.com/events/485660881519727/?ref=25

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