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lunedì 13 ottobre 2014

Casa Fiorinda sta chiudendo

A Napoli c'è una sola casa per donne vittime di violenza. Sta chiudendo

Fonte NapoliCittàSociale

La coordinatrice Tania Castellaccio ci racconta il paradosso di Casa Fiorinda

E' l'unica casa che accoglie donne vittime di violenza con o senza figli a Napoli e sta per chiudere. Fiorinda, casa di accoglienza e centro antiviolenza per donne maltrattate,nasce nel 2011, su volontà del Comune di Napoli, dedicata a Fiorinda Marino, una delle tante donne morte per mano dei loro partner. Ci racconta questa storia paradossale Tania Castellaccio, coordinatrice del progetto gestito dalle cooperative sociali Dedalus ed Eva in rete con il Centro Antiviolenza del Comune di Napoli gestito da Arci Donna.
Ogni 2 giorni muore una donna per violenza da parte di un uomo, almeno 1 donna su 3 ha subito violenza nell'arco della sua vita. Nel 2013 in Italia sono state uccise dai loro partner 134 donne. Partiamo dalla fine. Perché il Governo non si occupa delle donne e perché sta chiudendo Casa Fiorinda?
Il Governo ha stanziato con il decreto sul femminicidio 17 milioni che dovrebbero passare per la Regione e o poi per gli enti locali, ma ci vuole tempo...
Casa Fiorinda è finanziata dal Comune di Napoli grazie ad un bando della Presidenza del Consiglio e attraverso un POR. Il progetto si concludeva a maggio, ma per portare a termine percorsi intrapresi con le donne che stavamo seguendo, il Comune di Napoli ha stanziato  40 mila euro per 4 mesi in attesa di un nuovo avviso pubblico per la gestione della casa, che però ad oggi non è ancora uscito. Il 18 ottobre scade la proroga ma poiché i tempi tecnici per espletare l'avviso pubblico sono lenti il rischio, divenuto certezza, è che la casa resti chiusa per mesi, lasciando per strada le nostre ospiti ovvero 4 donne con figli, 2 napoletane, 1 napoletana di origine rumena, e una donna centro americana incinta. Inoltre le 15 donne "ospiti esterne" che seguiamo come centro antiviolenza nel percorso per uscire dalla spirale della violenza sarebbero abbandonate a se stesse.  La volontà politica a mantenere in vita Fiorinda c'è tutta ma ci si sta muovendo con estremo ritardo. La soluzione è che il Comune sostenga il progetto nelle more della lavorazione dell'avviso pubblico.
Qual è l'unicità di Casa Fiorinda?
Casa Fiorinda è l'unica casa per donne maltrattate nel Comune di Napoli e accoglie le donne vittime di violenza sole o con figli che chiedono ascolto, protezione e accoglienza e che da noi trovano operatrici e professioniste che le assistono legalmente nelle separazioni e nella denuncia per maltrattamento, e da un punto di vista psicologico. Abbiamo 6 posti (n.d.r. tanti quanti ne prevede il regolamento regionale). È evidente che abbiamo tante richieste di posti letto inevase: spesso inviamo le donne che necessitano un posto letto in provincia di Caserta dove ci sono 3 case per donne maltrattate. Casa Fiorinda ha inoltre il valore aggiunto di essere un bene sottratto alla camorra e restituito alla società. 
Ci sono però delle case famiglia per donne con figli sul territorio del Comune. Qual è la differenza?
Una casa di accoglienza per donne vittime di violenza è diversa da una casa famiglia perché accoglie donne con difficoltà socio-economiche e con bambini perciò viene sostenuta grazie alle rette pagate dal Comune per i minori (n.d.r. circa 93 euro al giorno per il bambino e 40 euro se c'è la madre che lo accompagna), ma se la donna è sola non è previsto alcun sostegno, mentre casa Fiorinda accoglie anche donne sole. Il Comune di Napoli  sta individuando una strategia per poter sostenere e collocare anche le donne sole, ma c'è bisogno di tempo.
Noi oltre al sostegno psicologico e legale, forniamo un orientamento al mercato del lavoro poiché l'occupazione può garantire  autonomia ed emancipazione.
Come arrivano da voi le donne?
Soprattutto grazie all'indirizzo dell'Arci Donna che gestisce il Centro Antiviolenza del Comune di Napoli che ha sede nel palazzetto Urban; tramite il numero verde 1522 che noi gestiamo tutti i pomeriggi dalle 15.00 fino alle 22.00. Inoltre ci inviano le donne le forze dell'ordine che sono sempre più preparate nell'accogliere in modo adeguato e professionale le donne vittime di maltrattamenti, gli sportelli antiviolenza del pronto soccorso del San Paolo e del Loreto Mare e le assistenti sociali.
Chi sono le donne ha accolto in questi anni?
Dal 2011 ad oggi abbiamo accolto circa 200 persone, di cui 100 hanno chiesto protezione perché scappavano da maltrattamenti e violenza domestica. Nove su 10 erano napoletane.  La casistica ci ha confermato che la violenza sulle donne non ha confini spaziali o culturali, ma è trasversale. In molti casi si trattava di donne provenienti da contesti economici e sociali medio-alti e in più di un caso il partner violento era un poliziotto.
Come si realizza la fuoriuscita da un vissuto violento?
Quando hai subito per anni violenza psicologica, umiliazioni e vessazioni, uscire dalla violenza è sempre difficile. È necessario molto tempo per trovare un'autonomia e reinserirsi socialmente poiché spesso è stato impedito alle donne di lavorare o è stato loro controllato lo stipendio.
I primi 3 mesi sono quelli più delicati, le donne vivono sensi di colpa, ripensamenti proprio perché hanno interiorizzato lo stereotipo del dominio e del possesso maschile. Spesso subiscono le pressioni dei parenti che consigliano "Resisti, per il bene dei figli", mentre è un dato di fatto che i bambini che crescono in contesti violenti sono le prime vittime e rischiano di apprendere un modello relazionale sbagliato e di diventare adulti violenti o sofferenti.
Nonostante vissuti violenti le donne, una volta passati i lividi talvolta tornano dal marito e ricadono nella ruota della violenza: all'inizio il compagno chiede scusa, fa qualche regalo, poi dopo un po' ritorna la violenza, un po' forte, episodio dopo episodio, in un crescendo che può arrivare alla morte. Ecco noi cerchiamo di rompere questo meccanismo e di spiegare alle donne che un solo episodio di violenza è già troppo e che dopo non si può che peggiorare. Per fortuna esistono anche tanti uomini e tante associazioni maschili che lavorano per un processo di emancipazione che deve riguardare sia uomini che donne.
Ma ci sono anche dei casi positivi...
Certo, una volta superati i primi mesi e iniziato il percorso di reinserimento socio-lavorativo la maggior parte delle donne seguite riesce ad affrancarsi dalla violenza.  Solo nell'ultimo anno abbiamo attribuito 16 borse lavoro con aziende sia napoletane che casertane.AdG


giovedì 24 luglio 2014

Violenza domestica e crudeltà sugli animali

VARESE, "RE" DELL'ORO UMILIA LA SUA COMPAGNA E DECAPITA IL GATTO
Mirko Rosa arrestato per maltrattamenti e lesioni

Un gatto decapitato, la compagna umiliata e costretta anche a bere dalla scodella del micio. Emergono inquietanti dettagli sull'arresto di Mirko Rosa, imprenditore 40enne della nota catena compro oro "MirkOro", avvenuto nei giorni scorsi a Castellanza, in provincia di Varese. L'uomo, accusato di maltrattamenti e lesioni, è rinchiuso nel carcere di Busto Arsizio da giovedì scorso. Il quotidiano "La Prealpina" ha raccolto la testimonianza di Giacomo de Luca e di sua figlia Nadia, compagna del manager. De Luca è l'uomo che lo ha aggredito facendolo finire all'ospedale con una ferita all'arcata sopracigliare. La versione della giovane - riferisce il quotidiano varesino - "è la stessa fornita agli inquirenti", che ora stanno verificando la veridicità dei fatti. Intanto, nella notte tra domenica e lunedì, è stato dato alle fiamme il fuoristrada di Rosa.
Tutto sarebbe iniziato nella notte tra mercoledì e giovedì, quando l'imprenditore avrebbe decapitato il gatto di casa, un micetto di pochi mesi comprato qualche giorni prima. Successivamente avrebbe mostrato il corpo senza vita alla convivente, minacciandola: "Ti faccio fare la stessa fine". Questo sarebbe solo l'inizio di questa scena da film dell'orrore. Successivamente Rosa l'avrebbe chiusa in uno sgabuzzino, obbligandola a bere nelle scodella del micio. Poi, non contento, l'avrebbe picchiata, minacciata di essere gettata dalla finestra e forse anche costretta a subire un rapporto sessuale.
L'incubo della 21enne sarebbe durato fino al mattino seguente, quando la giovane - che aveva appuntamento con il pediatra per una visita alla bambina di un anno - avrebbe detto all'uomo di liberarla e che, se non l'avesse fatto, si sarebbe buttata dalla finestra. A quel punto l'imprenditore dell'oro l'avrebbe fatta uscire di casa e lei si sarebbe rifugiata a casa di alcuni amici.
Poi la lite tra il presunto aguzzino e il padre della compagna. La prima telefonata tra Giacomo De Luca e Mirko Rosa sarebbe stata alle 9 di giovedì. Durante la notte la 21enne aveva mandato un messaggio al padre, prima che il compagno distruggesse il suo telefono, ma De Luca aveva il telefono spento. Non appena Rosa e De Luca sarebbero riusciti a parlare al telefono, la conversazione si sarebbe subito scaldata. E, quando ha visto la figlia, il padre l'ha subito portata dai carabinieri per sporgere denuncia. In caserma, all'arrivo di Rosa, la colluttazione tra i due, finita con il "re dell'oro" al pronto soccorso.
Non finisce qui. Perché, nella notte tra domenica e lunedì di questa settimana, intorno alle 3, l'Hummer giallo - simbolo della sfrontata ricchezza del "re dell'oro" - è stato dato alle fiamme dopo essere stato cosparso di benzina. E il mistero su questa torbida vicenda s'infittisce.

Fonte: http://www.nelcuore.org/blog-associazioni/item/varese-manager-dell-oro-decapita-il-gatto-di-casa-e-umilia-la-compagna.html

lunedì 15 luglio 2013

L’antisessismo sessista

Sulla sentenza per lo stupro di Montalto di Castro, sulla lotta delle donne, sul bambino di Rosy che sarà dato in adozione….ovvero sull’antisessismo sessista.
E’ stata emessa la sentenza per gli otto ragazzi, all’epoca dei fatti minorenni, rei confessi, che sei anni fa hanno stuprato in gruppo una ragazza di quattordici anni in una pineta di Montalto di Castro a margine di una festa di compleanno.
Il tribunale dei minori di Roma, presieduto da Debora Tripiccioni, che lo scorso gennaio aveva sospeso il processo giunto al termine della fase dibattimentale e nella quale il PM aveva chiesto quattro anni per ciascuno dei ragazzi, ha decretato che gli stupratori saranno sottoposti al regime della messa in prova per 24 mesi. Svolgeranno cioè lavori socialmente utili due volte alla settimana e potranno continuare a studiare e a lavorare e a condurre normalmente la loro vita.
Alla fine di questo periodo e in base al giudizio che sul loro comportamento sarà dato dagli assistenti sociali e dal giudice delegato a seguire i loro progressi, potranno anche ottenere la dichiarazione di estinzione del reato loro contestato. Quello di violenza sessuale di gruppo per aver stuprato a turno una loro coetanea.
Questo è quanto riportato in maniera scarna dai media ed è la fine di una storia di grande violenza e non solo per quello che hanno fatto alla ragazza i suoi coetanei, ma per quello che le ha fatto il paese in cui abitava, Montalto di Castro, attraverso l’atteggiamento ipocrita e sessista, minimizzando il tutto come “bravata”, dicendo che lei se l’è cercata perché indossava la minigonna e attraverso il sindaco PD, zio di uno degli otto, che si è dichiarato pronto a stanziare dei soldi per il reinserimento dei ragazzi e neanche un euro per lei.
E’ stata costretta ad andare via dal paese, a vivere in un’altra città, a prendere coscienza a soli quattordici anni dell’orrore di questa società, di cui la sentenza dell’11 luglio scorso non è che l’atto esemplare.
La così detta “giustizia” di questa società non ci appartiene, né i suoi tribunali, né le sue carceri e non ci appartiene chiedere condanne esemplari per nessuno, ma le sentenze che i tribunali esprimono sono una cartina di tornasole della gerarchia dei valori di questo sistema patriarcale e capitalista, della sua struttura portante e dei suoi metri di giudizio:
-quindici anni di reclusione per “devastazione e saccheggio” a chi ha manifestato al G8 di Genova nel 2001 e sei anni per chi ha manifestato  il 15 ottobre 2011 a Roma……
-tre anni e sei mesi per i poliziotti, tra cui anche una donna, che hanno ucciso Federico
Aldrovandi e nessuna condanna per chi ha ucciso Stefano Cucchi, Carlo Giuliani, Giuseppe Uva….
-mesi di galera per chi ruba al supermercato, venti anni per chi rapina una banca…..
La gerarchia di valori che esprime questo elenco significa che al primo posto della pericolosità sociale sta chi manifesta dissenso politico  o semplicemente alterità nei confronti di questa società perché basta solo la partecipazione ad una manifestazione per subire pesanti condanne.
Sullo stesso piano c’è la tutela della proprietà privata. Anche un paio di magliette rubate all’Oviesse sono costate ad una ragazza la traduzione in cella di sicurezza nella caserma del Quadraro qui a Roma e lo stupro di gruppo da parte di tre carabinieri e un vigile urbano ( a proposito, che fine hanno fatto costoro? C’è uno straccio di processo o non è dato sapere?).
Non parliamo, poi, se qualcuno/a osa  rubare dei cibi , qualche salame o qualche formaggio dagli scaffali di un supermercato. Le patrie galere sono piene di gente detenuta per reati così.
Le istituzioni in divisa hanno una totale impunità, tanto che questo è chiaramente un benefit per il loro “lavoro”, come qualcuna/o si ostina ancora a chiamarlo, come per un impiegato sono i buoni pasto.
La società neoliberista ha annullato il valore della vita umana, perché anche la vita degli individui è considerata una merce, ha senso solo se può essere in qualche modo e fino a quando fornisce possibilità di profitto.
Quindi, giù, giù, nella scala dei valori troviamo l‘uso di un corpo, il suo abuso , la sua eliminazione.
Perché questo nullo  e/o bassissimo valore dell’essere umano che impregna l’impostazione socio-economica della società  dovrebbe trovare una risposta  diversa quando si tratta di una donna o della violenza che subisce?
Il neoliberismo è la configurazione attuale del capitalismo e del patriarcato e, come ogni configurazione ha i suoi modi particolari di esprimersi.
Uno di questi è la strumentalizzazione della violenza sulle donne, sulle diversità e dei diritti umani.
Per cui, da una parte sbandiera attenzione e riprovazione nei confronti di questi aspetti e approva  convenzioni, come quella di Istanbul, propone Task Force, spende parole e convegni, crea associazioni, ma fondamentalmente, dall’altra, lo scopo è creare controllo sociale, leggi securitarie, inasprimento delle pene e strumenti di asservimento.
Così può militarizzare il territorio qui da noi  e portare le guerre neocoloniali nel terzo mondo.
Mai vista una società tanto ipocrita e mistificante dove regna l’antirazzismo razzista, l’antisessismo sessista, la carità pelosa e il devastante “politicamente corretto”.
Il bambino di Rosy, la ragazza uccisa pochi giorni fa dal compagno a casa dei genitori dove si era rifugiata, sarà dato in adozione perché i nonni sono stati giudicati troppo poveri per mantenerlo. Anche la povertà è una condanna. Se non sei capace di mantenere tuo nipote, vuol dire che sei un inetto/a e ti sarà portato via. L’idea di dare del denaro direttamente ai nonni  perché possano mantenere il bambino viene da questa società considerata “immorale”: non si danno dei soldi a chi non è in grado di guadagnarseli.
Una società che sbandiera tanta attenzione ai minori da multare, denunciare, privare della potestà chi viene sorpreso ad elemosinare con i figli/e per strada e tanto violenta da recidere affetti e legami familiari con una freddezza nazista.
Che cosa significa tutto questo per noi che vogliamo lottare contro la violenza maschile sulle donne?
Significa non farsi irretire dalle manifestazioni di attenzione del potere, non farsi strumentalizzare, ribadire una distanza incolmabile.
La nostra liberazione passa attraverso l’autodifesa, l’autorganizzazione, il rifiuto della delega, la presa in carico della lotta, la creazione di luoghi di donne e di reti di donne in autonomia consapevoli  della necessità dell’uscita da questa società.
Le coordinamenta

sabato 17 novembre 2012

Violenza di genere: la violenza degli uomini


“Trans Manicure” from the series Perceptual Beauty (photo and video works) © Michelle Marie Murphy 2011
Alcuni miei pensieri riguardanti la violenza degli uomini sulle donne, sono sparsi in diverse e-mail giunte in lista, li ho scritti in tempi diversi. Sono frammenti di una riflessione sempre in corso, che non pretende di essere né definitiva né risolutoria. Ovviamente per me esistono dei punti fermi, come esistono per altre persone, ma ho imparato che il punto fermo, centrale in un contesto, può collocarsi al margine dell’area attorno a un altro punto fermo, fino a creare un disegno molto grande e complesso. Mi sorprende non poco chi guarda a questi disegni parlando di semplificazioni, lo trovo errato. Dunque.
In una mail di luglio 2012, per spiegare in che modo la violenza sulle donne (la violenza di genere – che non è solo lo stupro o il femminicidio) riguarda tutti gli uomini, scrivevo:
Sono antirazzista, ma sono bianca e sono occidentale, pur non essendo direttamente razzista io non posso negare che, quando gli altri mi vedono accanto a una donna nera, “brillo” e lei no. E’ questo credo il discorso. Brillo perché ho una serie di risonanze falsamente “positive” agli occhi di una cultura razzista, mentre lei che è nera, invece, ha risonanze negative. Ora, anche se io non la discrimino, non posso non tenere conto del fatto che lei, rispetto a me, viene percepita, a prima vista, come una “zulù”, pure se è una docente universitaria di fisica, parla otto lingue e ha formulato una teoria che cambierà la scienza, mentre io tutte queste cose non le sono e non le faccio, però “brillo”. E non posso evitare di assumermi la responsabilità culturale (che determina anche la realtà sociale) di questa discriminazione razziale, per cui né io né lei veniamo percepite correttamente. Anche se io direttamente non la chiamo “negra”, quando qualcuno uguale a me (bianco occidentale) lo fa, riguarda anche me. Suppongo che questo sia il discorso anche per gli uomini e il maschilismo, quindi se qualcuno dice: gli italiani sono razzisti e devono fare i conti con questa realtà, certamente generalizza e comprende anche me che razzista cerco di non esserlo, ma condividendo la cultura italiana, mio malgrado perché in una cultura ci nasci per caso, anche io faccio parte di quella cultura e devo considerare quel razzismo. Poi i discorsi si articolano, ma non la sento una cosa tanto sbagliata o offensiva. Anche perché se io mi metto assieme a una persona di origini africane, indipendentemente da ciò che fa o è, verrò percepita come una persona “sporca”, che se la fa con le “bestie”.
Questo frammento a mio parere è ancora valido. Il parallelismo tra razzismo e maschilismo è molto chiaro. Io, bianca occidentale, sono immagine del razzismo, anche quando non agisco in modo razzista, e partecipo quindi alla cultura razzista. Allo stesso modo ogni uomo è immagine del maschilismo, anche quando non è maschilista, e partecipa alla cultura maschilista.
La violenza sulle donne (considero donne tutti i soggetti che in questa identità si riconoscono o vengono incasellate in questa identità) o la violenza di genere è un fatto culturale, legato ad una cultura patriarcale espressa dagli uomini  per lunghissimo tempo e ancora attivissima.
Questa è la riflessione ‘base’.
Domanda. Bisogna ribadire questa cosa, ogni volta che si tenta di parlare delle violenze agite dagli altri generi?
C’è chi ritiene necessario farlo, sembra che ci sia bisogno di un linguaggio esplicito, molto didascalico, per poter parlare di violenza attraverso un blog che raccoglie centinaia di post in cui la questione viene analizzata fino all’osso. In ragione del fatto che il patriarcato e il maschilismo si servono di ogni strumento per negare la violenza sulle donne. Può darsi che serva, forse c’è lungimiranza in questa posizione. Ma non dipende anche dal contesto? Non è necessario valutare, complessivamente, il luogo in cui una riflessione si trova, per capire che non si ‘ridimensiona’, ‘rivaluta’, ‘revisiona’ la violenza degli uomini sulle donne, trattando delle altre violenze che da quel sistema derivano? Se da quel sistema derivano?
Quando parlo di queste cose, non ho nessun timore di essere considerata ‘misandrica’, termine che mi fa addirittura sorridere, e che per me è paragonabile a ‘nazifemministe’, due minchionate. Diversamente le accuse di revisionismo e di maternalismo – o di non avere un’impostazione etica (come se esistesse un’unica etica) – mi offendono, offendono cioè la mia intelligenza. Ma fino a un certo punto, poi mando a quel paese chi mi offende ripetutamente e via, ma resta che il discorso è bloccato.
Non ho mai pensato che la violenza agita dagli uomini potesse essere scomparsa o messa in discussione, la disparità di potere economico, politico, sociale, culturale, degli uomini rispetto alle donne è ancora talmente grave che non ci si può confondere – ad esempio io guardo con grandissimo sospetto a tutti gli uomini che mi voglio salvare da me stessa -, nemmeno quando si tratta di parlare di un uomo che è stato preso a padellate dalla compagna, e merita di essere ascoltato, ho timori. Peraltro, è vero che le donne agiscono da ‘guardiane’ con le altre donne, ma non solo, ci sono donne che coscientemente, volontariamente, usano gli stessi strumenti degli uomini patriarcali, presi direttamente dall’arsenale del patriarcato, per dominare donne e uomini. Sono donne-uomo?
E’ connaturato al mio modo d’essere femminista (modo d’essere in costante centramento ovviamente) non essere contro i maschi, non ho bisogno di ribadirlo. Cioè tutto ciò che non ritorna sulla definizione di violenza degli uomini, non è in contrapposizione con essa. Non è un piacere o una cortesia che faccio al fallo guardare male l’espressione violenza maschile, la rifiuto come rifiuto la definizione di ‘mestieri femminili’, ‘attitudine femminile’ intesi come connaturati al mio sesso biologico. E’ una questione fondamentale, che fonda il mio pensiero, non attribuire alla biologia un ruolo determinante nelle dinamiche di genere. Perché quella impostazione, il maschio è cattivo per natura e la femmina buona (vittima) per natura, non solo mi ristabilisce un paradigma patriarcale, mi fa perdere ampie fette di riflessione che, invece, mi possono aiutare a capire come si sviluppa la violenza di genere e come posso contrastarla.
Il discorso sull’uomo, come soggetto culturale, è quindi diverso dal discorso sul maschio, deve essere chiaro. Perché serve a me, alla mia possibilità di capire, prima che al maschio. E non è vero che tra maschio e uomo non c’è confusione, la confusione, la deriva di questa confusione (o la finalità, dovuta ai fascismi che si trovano nella lotta alla violenza sulle donne e sui bambini) sono, per esempio, i metodi di castrazione per i pedofili sbandierati come soluzione a quel tipo di violenza – sia chiaro non sto mettendo sullo stesso piano la pedofilia femminile, che ha una casistica inferiore – perché, se il problema è nel maschio, nei suoi attributi, allora come me la spieghi la pedofilia nella femmina? Cosa castri alle donne, la clitoride?
La definizione di violenza di genere, quella dell’ONU (La violenza di genere è “uno dei meccanismi sociali decisivi che costringono le donne a una posizione subordinata agli uomini”), non parla appunto di maschi ma di uomini.
L’intervento di E. in lista è molto importante perché amplia il discorso e, in questo ampliamento, aggiungendo complessità, ci permette di guardare meglio una dinamica che, sebbene sia stata espressa per lungo tempo nella coppia eterosessuale, uomo-donna, perché era l’unica coppia possibile, evidentemente non è una sua esclusiva, ma appartiene a un sistema appunto, che si ricrea in continuazione e al quale si può partecipare a prescindere dal sesso biologico.
La violenza all’interno delle coppie lesbiche non sembra essere diversa, ci dice E., da quella nelle coppie etero. In una coppia lesbica il pene fisicamente non c’è.
Tra le altre cose, anche io penso che un concetto di coppia in cui l’esclusività sia colonna portante, dove cioè il possesso dell’altr* è fondamentale, rappresenti il luogo in cui questa dinamica maggiormente si espliciti. In base a ciò considero la cultura patriarcale, che avvantaggia sicuramente gli uomini (ma nel contempo toglie loro libertà), non esclusiva del maschio. Senza temere che questo mi metta in discussione la violenza degli uomini sulle donne.
Dato che oggi ci troviamo a confrontarci con altre forme di relazione e una pluralità di generi espressi a partire comunque da due soli sessi biologici, parlare di violenza maschile, fotografa sicuramente la realtà mediatica, funzionale ai discorsi autoritari, ma non la realtà tutta.
Chiunque assuma la posizione dell’uomo, nel sistema di dominio patriarcale, non agisce forse la stessa la violenza che, comunemente ed erroneamente, viene detta ‘maschile’, e colpisce chiunque assuma la posizione della donna (cioè di non-uomo)?
Questo non assolve nessuno, aggrava la posizione di tutt*.
Spero di avervi rassicurat* abbastanza.

Da fas

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