di Lea Melandri
“L’identificazione non con il bambino (persona distinta dalla madre) ma con il feto (parte indifferenziata della madre) è alla base degli interventi ‘per la vita’ del papa, un’identificazione che cancella la vita della madre spostandola dalla persona reale a quella virtuale: è la vita del feto, parte nobile della madre, a decretare la vita o la morte di lei…la donna muore e il figlio è la sua rinascita, la sua resurrezione”.
La contrapposizione violenta fra vita della madre e vita del feto da parte della Chiesa cattolica - scrive Luisa Accati nel suo libro Il mostro e la bella (Raffaello Cortina Editore 1998)- cresce dalla fine del ‘500, dal Concilio di Trento a oggi, dal momento in cui avviene “il passaggio all’autorità ecclesiastica, cioè a un gruppo per norma costituito da uomini e solo da uomini celibi, del controllo sulle donne, per quanto riguarda sia il matrimonio sia la morale sessuale”.
Con la vittoria dei figli sui padri, la Vergine Madre diventa il simbolo del divieto di incesto per gli uomini: “Vergine Madre significa che la madre rimane sempre vergine per il figlio, cioè sempre inaccessibile sessualmente. Il simbolico in tanto è politicamente efficace in quanto converte la difficoltà degli uomini a separarsi dalla madre in una contraddizione della identità delle donne: fa di un problema degli uomini un compito delle donne”.
La coppia madre-figlio, su cui si può ipotizzare si siano costruite le figure della dualità -femminile/maschile, biologia/storia, corpo/mente, ecc.-, nonostante i cambiamenti che ha subito nel corso del tempo e ad opera di culture diverse, conserva i segni di un amore che si è configurato fin dall’origine indisgiungibile da un atto di guerra: il ‘desiderio primordiale’ del figlio di tornare a fondersi col corpo della madre si è convertito storicamente nel dominio dei padri, nell’imposizione di un modello unico di sessualità, penetrativo e generativo, impugnato come un’arma in difesa dell’identità maschile.
Il luogo da cui si origina la vita è diventato teatro della più feroce e più duratura legge di sopravvivenza -morte tua, vita mia-, anche se non sempre la nascita del figlio ha comportato la morte fisica della madre, ma quella morte di sé che è il sacrificio del proprio desiderio, dei propri interessi, della propria esistenza come persona.
L’onnipotenza attribuita alla madre, come corpo che genera da sé e che può riprendersi in ogni momento la parte che si è da lei separata, ha il suo corrispettivo in quella del figlio che, capovolte le parti, torna da adulto a celebrare la ‘vittoria sul trauma della nascita’, occupando una terra che considera propria, carne della sua carne.
La fecondazione diventa allora il traguardo essenziale della sessualità maschile, prova visibile del potere generativo dell’uomo e conferma della sua potenza virile. Se i contadini del mio paese –come di tutti i paesi del mondo- si vantavano al bar di aver messo incinta le loro mogli, Sàndor Ferenczi, uno dei più interessanti allievi di Freud, nel saggio Thalassa (1924), introduce suggestivi scenari marini per attribuire al coito la certezza dell’uscita da pericolose acque materne:
“Quando l’unione più intima tra due esseri umani di sesso diverso si è realizzata grazie alla costruzione di un ponte fatto di baci, abbracci e penetrazione del pene, allora si combatte la lotta finale e decisiva fra il desiderio di donare e di conservare la secrezione genitale…Allorché, con l’eiaculazione la lotta finisce, la secrezione si separa dal corpo dell’uomo, ma in modo tale che questa secrezione si trova messa la riparo in un luogo sicuro e appropriato, all’interno del corpo femminile. Tuttavia, questa sollecitudine ci induce a supporre che vi sia anche un processo di identificazione tra la secrezione e l’Io: in tal senso il coito potrebbe fin d’ora implicare un triplice processo identificatorio: identificazione dell’intero organismo con l’organo genitale, identificazione con il partner e identificazione con la secrezione genitale…tutta questa evoluzione, comprendente quindi anche il coito, non può avere altro scopo se non un tentativo dell’Io di tornare all’interno del corpo materno, situazione nella quale la frattura così dolorosa tra l’Io e il mondo ancora non esisteva…Nell’atto sessuale non si tratta semplicemente di deporre in luogo sicuro il prodotto della secrezione, ma anche dell’instaurarsi di uno stretto rapporto tra questo atto e la fecondazione.”
Abituati come ormai siamo, dalle tecnologie riproduttive, a parlare di spermatozoi e ovociti, gameti e embrioni, come fossero persone, la “favola filogenetica” di Ferenczi, che vede nel “membro virile” un “piccolo Io in formato ridotto”, spinto dalla nostalgia a tornare alla sua dimora originaria, e a riattraversarla per essere sicuro della propria nascita, non può che fare tenerezza. Rispetto all’ “immacolata concezione” del culto cattolico di Maria e all’ “immacolata fecondazione” dei laboratori scientifici, dove il desiderio e la sessualità scompaiono persino dalla memoria, il corpo a corpo tra l’uomo e la donna qui è ancora al centro della nascita, prima di sparire dietro l’abbraccio fusionale, desiderato e temuto, della madre e del figlio. Non sfugge a Ferenczi l’aspetto “cruento” del coito: la lotta di due avversari che tentano di “forzare l’accesso al corpo dell’altro”, le armi che garantiscono il privilegio maschile, le compensazioni dietro cui la donna nasconde la sua sconfitta.
“Noi supponiamo che sia la regressione ipnotica alla situazione intrauterina a stordire la femmina al momento della conquista, e che la riproduzione fantasmatica di questa situazione ottimale le fornisca una compensazione per essere costretta a subire l’atto sessuale che, in sé, è per lei fonte di pena”. Difficile trovare una definizione più realistica della vicenda che ancora oggi unisce e contrappone un sesso all’altro -“una grandiosa lotta il cui esito doveva decidere su quale dei due dovessero ricadere le cure e le sofferenze della maternità, nonché il ruolo passivo della genialità”-, e delle sue conseguenze psicologiche -“la donna possiede una saggezza e una bontà innate superiori a quelle dell’uomo, in compenso l’uomo deve contenere la propria brutalità sviluppando maggiormente l’intelligenza e il super-Io morale”.
La campagna contro l’aborto e il fronte opposto, schierato alla difesa delle leggi che in vari Paesi del mondo ne garantiscono la praticabilità, hanno quasi sempre in comune, oltre al rituale ossessivo della ripetizione, la tendenza a farne una “questione femminile”, sia che la vedano come colpa, dramma, o autodeterminazione, libertà di scelta della donna. Gli uomini, nella veste di accusanti o di difensori solidali, possono parlarne con la distanza di chi non è parte in causa, con la premura o la violenza di chi sa di avere a che fare con la ‘risorsa’ più preziosa per la continuità della specie.
Mi stupisco sempre, dopo oltre trenta anni di femminismo, che si possa parlare di gravidanze, desiderate o indesiderate, senza risalire a quell’antecedente che è la sessualità. Eppure sono tante le ragioni che spingono verso questa ‘cesura’, a partire dalla forza con cui il movimento delle donne ha attaccato l’identificazione della donna con la madre, per arrivare all’effetto di cancellazione operato dalle tecnologie riproduttive, al lento spostamento della nascita fuori dal corpo della donna, fuori da corpi pensanti e desideranti, sedimento di storie individuali e collettive.
La ‘naturalizzazione’ del rapporto tra i sessi affiora oggi vistosamente sulla scena pubblica come riduzionismo biologico, e trova al suo fianco l’alleato di sempre: la religione. Ma, insieme al fondamento ideologico di un dominio divenuto ‘senso comune’, struttura portante e indiscussa di tutte le civiltà costruite dall’uomo, si va facendo strada anche la consapevolezza della centralità che ha avuto finora la coppia madre-figlio nello sviluppo della storia umana.
Non è un caso che sia una “religione del Figlio”, la Chiesa cattolica romana memore del Concilio di Trento, a reagire con particolare virulenza alla rottura di un ‘ordine naturale e divino’ fondato sul sacrifico materno, oggi incrinato dalla secolarizzazione dei costumi e, soprattutto, dall’affermarsi di una soggettività femminile meno vincolata al destino che le è stato imposto. Nel progressivo eclissarsi delle due figure genitoriali, sempre meno necessarie nella fase iniziale del processo riproduttivo, e della madre stessa per il progredire delle tecniche di rianimazione di feti prematuri, è il prete ad assumere su di sé la figure della madre e del figlio nascituro, a farsi paladino di una idea di ‘Vita’ che ha perso ogni consistenza corporea e sessuale.
L’ “immaginario sacro cristiano” - come nota Luisa Accati- non ammette l’Eros, anzi rappresenta la fertilità come una madre casta”, ma la mariologia è “carica di fantasmi incestuosi”, che oggi, per arginare il ‘libertinismo’ sessuale delle donne, trascolorano nella fredda, necrofila sacralizzazione di feti e embrioni. Nell’affannosa corsa per portare il figlio in salvo dal risorto ‘potere di vita e di morte’ delle madri, la schiera degli ecclesiastici si è sorprendentemente arricchita di “atei devoti”, di “comunisti creaturali”, di politici ‘realisticamente’ decisi a cercare consenso a qualunque costo.
Spirito di crociata e pragmatismo cinico contribuiscono a spingere il sacro verso le sue più arcaiche parentele con la magia, il sensazionalismo, l’orrido e lo stupefacente, che la televisione ha oggi il potere di amplificare, contaminare e diffondere a dismisura. Ne abbiamo avuto un saggio nella diretta di Porta a Porta su Lourdes, altre manifestazioni si annunciano con l’esposizione di reliquie di santi e con la riesumazione del cadavere di Padre Pio. L’ambiguità del sacro -“lordura e santità”, “puro e impuro”- è oggi più che mai scoperta, mentre sembra scomparire la materia prima del “perturbante”: il corpo femminile, la sua fantasmatica onnipotenza generativa e sessuale.
Per ritrovarla, basta scostarsi dal circo mediatico che occupa la scena pubblica e scavare nei luoghi che ancora conservano traccia di un sentire profondo, lucido nella sua visionarietà, veritiero nella sua spudoratezza, trasgressivo e, al medesimo tempo, quasi banale nella sua fedeltà a ‘sensi’ comuni.
In una insolita ‘scrittura di esperienza’ -Arnaldo Bressan, Esercizi laterali di piacere (edizioni del leone 1993)- il legame tra sessualità e fecondazione svela l’immaginario che lo sorregge, il desiderio incestuoso che impronta la vita sessuale adulta, piegando la relazione tra uomini e donne verso quel primo corpo a corpo che formano insieme la madre e il figlio.
“Solo nell’eventualità o nel rischio dell’impregnanza il piacere è obbligato alla propria profondità, intensità e luce…La capisco. Infine, rischia lei sola: il ventre ‘occupato’ per nove mesi, il, parto, le conseguenze. Ma soltanto se considera la gravidanza un peso, dolore il parto e la maternità una schiavitù: se non esce dal banale e dal kitsch e non li sente come passaggi di piacere simili a quelli che dall’alba la conducono, fatalmente, al mezzogiorno di sé.”
“Lo si chiami neotenia, simbiosi, istinto, bisogno, amore materno, piacere: lei riepiloga in esso l’evoluzione e la storia, nostra e di ogni altra specie; e soltanto in questo senso di onnipotenza si svela l’irrefrenabile mistero per cui sulla Terra, ogni anno, centinaia di milioni di donne partoriscono dove le condizioni per farlo sono più proibitive; e che da noi ci siano donne che letteralmente impazziscono pur di avere un figlio.”
“Partorire, sì. Ma allattare, Francisca: inturgidirsi, ergersi, penetrare!...sentirsi venir meno di languore nel salire ed eiacularsi del suo latte: denso e lento, o chiaro e sottile, seme amoroso tra verginali labbra cieche e fameliche, contro una gola che esige da lei -con unghie convulse e schiumose gengive- il solo rapporto incestuoso e omosessuale considerato naturale, consentito da tutti e glorificato da millenni (anche se le Madonne che allattano, sicuramente per il loro aspetto troppo conturbante, sono assai meno frequenti di quelle in stato di frigida quiete rispetto al Bambino).”
La “carne più bramata”, quella di cui ogni essere umano conserva memoria e “privati simboli corporei”, è la stessa che incontra nella sua vita sessuale adulta, cristallizzata nel ruolo che le ha assegnato un ‘ordine’ senza tempo: genere, entità collettiva senza volto, “centro” di quella “vasta cattedrale” che è l’infanzia -per usare una suggestiva immagine di Virginia Woolf-, ma anche linea continua di una dipendenza filiale che finisce quasi sempre solo con la morte.
Combattere solo con le armi della razionalità la feroce, impietosa misoginia che anima la “crociata” dei “figli celibi” e dei loro adepti, non servirà a molto, se non si comincia a scalfire l’immaginario con cui raccoglie consenso, ma soprattutto se non si mette in discussione il dominio che l’uomo gli ha costruito sopra.
questo articolo è apparso nell'inserto domenicale di Liberazione del 17 febbraio 2008
con il titolo Il segreto dei feticisti: concupiscono la madre
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