Da Starbucks col collega: arrestata
Ci risiamo: iper-conservatori sauditi (sempre più forti) contro riformatori (ogni giorno più deboli). Ma anche Riad contro Gedda. Ovvero: la dura regione del Najd, terra di Islam wahhabita e codici beduini, contro il dolce e (relativamente) liberale Hijàz, da sempre cosmopolita per commerci e pellegrinaggi. In mezzo — come spesso avviene — una donna, che vive barricata in casa da giorni e ora teme perfino per la propria vita. Yara (il cognome è meglio non diffonderlo), 37 anni, partner di una società finanziaria, madre di tre figli, doppia nazionalità americana (nata in Libia da genitori giordani, è cresciuta in Utah) e saudita (come il marito, di Gedda appunto, dove vive la famiglia). Che il 4 febbraio è stata incarcerata a Riad per khulwa, promiscuità: insieme a un collega siriano era stata «sorpresa » in pieno giorno (ma loro certo non si nascondevano) in un moderno e trendy caffè Starbucks della capitale. Seduti a parlare di lavoro nel «settore famiglie », dove ristoranti e caffè relegano le donne e i gruppi misti, legali se composti da consanguinei o coniugati.
Yara, abituata agli Stati Uniti prima e a Gedda poi, non ci ha pensato molto ad entrare con il collega in quel caffè al pian terreno del loro ufficio, dov’era saltata l’elettricità e non poteva usare il laptop. Portava la regolare abaiya (il soprabitone nero) e lo hijab (il velo in testa). Non aveva intenzioni trasgressive. Ma una telefonata anonima alla «Commissione per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio», leggi la polizia religiosa o mutawwa (come è chiamata con un certo disprezzo nel Regno), ha dato il via all’ennesimo dramma saudita. Un uomo con barba e tunica corta (segni di «ascetismo»), che non ha voluto identificarsi, ha intimato al siriano di uscire (poi è stato arrestato), a Yara di firmare l’ammissione del suo peccato-reato. Rifiutatasi (la donna non sa leggere l’arabo, tra l’altro), è stata trascinata in un taxi, privata di borsa e cellulare (per impedirle di avvisare il marito), consegnata alla centrale mutawwa (e non alla polizia normale come avrebbe dovuto per legge).
Ha dovuto subire la filippica di uno shaikh («finirai bruciata all’inferno»), firmare la confessione. Con l’impronta digitale, come si addice alle donne secondo i mutawwa. Che non contenti l’hanno spedita al carcere di Malaz: spogliata, perquisita, maltrattata, trattenuta per sei ore e liberata solo per l’intervento del marito Hatim, precipitatosi a Riad per salvarla. «Una storia terribile, uno dei tanti abusi commessi dalla polizia religiosa che è protetta dall’alto e spadroneggia soprattutto a Riad», dice al Corriere Khalid Al Maeena, direttore del quotidiano Arab News di Gedda, l’unico che sta seguendo il caso di Yara giorno per giorno, con relativa libertà di critica anche perché in inglese. I quotidiani arabi ne hanno parlato meno, è vero. Ma questo non ha evitato una denuncia della Commissione contro gli editorialisti Abdullah Al Alami di Al Watan e Abdullah Abou Alsamh di Okaz: il primo per aver definito il caso di Yara un «rapimento»; il secondo per aver messo in dubbio l’interpretazione di khulwa data dai mutawwa.
Dopo le critiche di media, organismi per i diritti umani, Onu e molti intellettuali, la Commissione è infatti passata al contrattacco. Due giorni fa ha smentito la ricostruzione dei fatti pubblicata da Arab News con le parole della protagonista. «È una peccatrice e ha infranto la legge: lavorare insieme è haram, proibito, per donne e uomini non parenti», ha ribadito la polizia «morale», che conta 10 mila effettivi uomini e donne, è guidata da una sorta di ministro e fa capo al Re. E che è stata recentemente implicata in due omicidi, nonché in una serie di casi al di fuori di ogni rispetto dei diritti umani (una povera donna analfabeta, ad esempio, è stata condannata a morte per «stregoneria»). Yara, intanto, ha deciso di tacere. Giura che non rimetterà più piede a Riad. Pensa di tornarsene in America. «Temiamo per le nostre vite, e ulteriori persecuzioni — dice il marito —. Adesso molti sauditi sono furiosi e usano la storia di Yara per dire "basta con questa gente, con i mutawwa". Ma che abbiano ragione o no, noi non vogliamo trovarci nel mezzo».
Cecilia Zecchinelli
21 febbraio 2008(ultima modifica: 22 febbraio 2008)
Fonte: Corriere.it
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