Il caso della coppia di Milano che aveva chiesto la diagnosi preimpianto
Un giudice di Firenze ha dato loro ragione. La replica dell'istituto toscano
"Il rifiuto di svolgere test sugli embrioni è avvenuto a norma di legge"
Mentre l'avvocato dell'associazione "Madre provetta" sottolinea il valore della sentenza.
FIRENZE - "Il rifiuto di svolgere test sugli embrioni è avvenuto a norma di legge. Non si poteva decidere diversamente", osserva l'avvocato Cristina Baldi, spiegando perché il Centro Demetra si era espresso negativamente sulla richiesta di una coppia milanese, che avrebbe voluto effettuare la diagnosi preimpianto sugli embrioni fecondati. Diritto di cui invece è titolare, secondo quanto ha stabilito un'ordinanza di un giudice di Firenze. L'avvocato Baldi sottolinea però come "la decisione del giudice sia stata estremamente coraggiosa aprendo spiragli significativi per una revisione della legge".
Infatti l'ordinanza viene accolta con soddisfazione non soltanto dalla coppia interessata, ma anche dallo stesso Centro Demetra: "Questa decisione - sostengono Claudia Livi ed Elisabetta Chelo,
responsabili del Centro - apre nuove prospettive per un recupero di una autonomia decisionale del medico che, sino a qui è stato sostanzialmente costretto dalla legge ad una scelta terapeutica obbligata. Come si legge nel dispositivo, l'operatore è tenuto ad operare 'secondo le migliori regole della scienza in relazione alla salute della madre' come d'altra parte previste dallo stesso codice deontologico medico".
La coppia aveva chiesto la diagnosi preimpianto dal momento che la donna è portatrice di una grave malattia, la esostosi, malattia genetica che porta all'accrescimento esagerato della cartilagine delle ossa: c'è una percentuale molto elevata che venga trasmessa al figlio, esiste la possibilità che sia mortale.
"La decisione scardina la legge sulla fecondazione assistita", ha detto, riferendosi alla sentenza di Firenze, l'avvocato Gianni Baldini, docente di biodiritto all'università di Firenze e legale dell'associazione "Madre provetta". "Questa malattia - ha spiegato Baldini - ha una trasmissibilità superiore al 50%, ecco perché la coppia ha chiesto il test sugli embrioni".
Grande apprezzamento esprime anche Monica Soldano, presidente dell'associazione Madre Provetta che da anni si batte "per modificare nell'interesse dei pazienti una legge brutta e crudele, causa di un esodo dal nostro Paese di tante coppie (secondo l'Istat circa il 20% delle giovani coppie manifesta problemi procreativi) che vanno a cercare soluzione all'estero".
Donatella Poretti, parlamentare radicale della Rosa nel Pugno e segretaria della Commissione Affari Sociali, ricorda che "mancano "9 giorni alla scadenza delle famigerate linee guida. La capogruppo dei Verdi in commissione Giustizia alla Camera, Paola Balducci, osserva che "la sentenza di Firenze, che, di fatto, aggiorna le linee guida che ad oggi vietano la diagnosi preimpianto degli embrioni, è un provvedimento da accogliere con favore".
Anche il professor Severino Antinori plaude alla sentenza: "Mi pare una sentenza assolutamente importante che fa chiarezza e dice che questa legge 40 viola i diritti umani, i diritti alla salute e alla procreazione. Credo che debba indurre finalmente il ministro alla Salute Livia Turco a fare un cambiamento alle linee guida, a fare qualcosa di sinistra".
Padre Roberto Colombo, docente dell'Università Cattolica di Milano e direttore del Laboratorio di biologia molecolare genetica umana dello stesso ateneo, ritiene invece che "la genetica preimpianto aprirebbe la strada a una concezione eugenetica della procreazione geneticamente assistita".
(22 dicembre 2007)
domenica 23 dicembre 2007
Fecondazione, il giudice dà ragione alle donne
di MIRIAM MAFAI
Adesso, dopo le due sentenze del Tribunale di Cagliari e di quello di Firenze, la parola passa al ministro della Salute, Livia Turco che dovrà sbrogliare la complicata matassa della norma più assurda contenuta nella nostra legge sulla fecondazione assistita. La norma impedisce infatti quella diagnosi preimpianto considerata del tutto normale fino al febbraio del 2004.
Che da quel giorno, data di approvazione della legge, è stata sempre richiesta e messa in atto non per selezionare il colore degli occhi del nascituro (come qualcuno polemicamente sostiene) ma per impedire la trasmissione al figlio di gravi malattie da parte di una coppia di genitori che ne sia affetta. La norma è stata giustamente definita "feroce" perché, quando applicata, obbligherebbe la madre a subire l'impianto di tutti gli embrioni prodotti, fatta salva la possibilità di ricorrere poi all'aborto una volta accertati nel feto rischi di malformazione o malattie genetiche.
Una donna sarda, talassemica, ha rifiutato qualche mese fa di subire questa violenza. Ha fatto ricorso al Tribunale di Cagliari che le ha dato ragione affermando che l'embrione, sottoposto alla diagnosi genetica poteva essere impiantato solo nel caso si fosse rivelato sano, evitando in questo caso il doloroso ricorso all'aborto. Ieri una analoga sentenza, del Tribunale di Firenze, ha sostenuto, con altrettanta nettezza, lo stesso principio, facendo riferimento non solo a una precedente sentenza della nostra Corte Costituzionale, ma anche alla Convenzione di Oviedo che consente i test prenatali, purché non abbiano finalità eugenetica.
Il Centro medico cui la madre, affetta da una grave e rara malattia genetica si era rivolta, dovrà dunque provvedere all'impianto solo quando avrà verificato le buone condizioni dell'embrione.
Le precedenti "linee guida" , emesse nel luglio 2004 sotto la gestione del ministro Sirchia, che mettevano fuori legge l'indagine genetica reimpianto vanno dunque disapplicate, afferma l'ordinanza del Tribunale di Firenze. Le nuove "linee guida" la cui responsabilità spetta al ministro della Salute dovranno, inevitabilmente, tener conto di queste sentenze della magistratura che tutelano il diritto della madre e insieme il diritto alla salute del nascituro.
Ancora una volta, come nel controverso caso del testamento biologico in discussione al Senato, siamo di fronte ad uno di quei problemi che si è convenuto chiamare "eticamente sensibili". Un problema cioè che divide le coscienze e rischia di vedere schierati e contrapposti, da una parte i laici e dall'altra la Chiesa Cattolica contraria ad ogni intervento sull'embrione.
L'inizio della vita e la sua conclusione non sono più affidati, come è accaduto per tutta la storia dell'umanità, alla natura (o a una volontà superiore). La nascita e la morte sono eventi sui quali ormai incide in modo decisivo la medicina, la scienza, la volontà dell'uomo, della sua capacità di scegliere.
E' una condizione del tutto nuova, aperta a prospettive affascinanti ma anche, per alcuni versi inquietanti. Mai prima d'ora una donna ha potuto decidere se e come divenire madre, mai prima d'ora una donna ha potuto - grazie ai progressi della medicina - mettere il nascituro al riparo da gravi malattie ereditarie.
Il legislatore non può, in questi casi così delicati, imporre una scelta che, anche se confortata dalla maggioranza non consente la convivenza di valori diversi. Vale la pena a questo proposito di citare un liberale come Dworkin che scriveva: "L'istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettatele".
La laicità, che ci è cara, consiste proprio in questo: nella capacità di allargare l'area dei diritti di ognuno di noi senza imporne l'adozione a nessuno. E' la scelta che venne fatta in occasione del voto sul divorzio e sull'aborto. E' la scelta che, speriamo, verrà adottata in occasione della elaborazione delle nuove linee guida per l'applicazione della legge sulla fecondazione assistita.
Adesso, dopo le due sentenze del Tribunale di Cagliari e di quello di Firenze, la parola passa al ministro della Salute, Livia Turco che dovrà sbrogliare la complicata matassa della norma più assurda contenuta nella nostra legge sulla fecondazione assistita. La norma impedisce infatti quella diagnosi preimpianto considerata del tutto normale fino al febbraio del 2004.
Che da quel giorno, data di approvazione della legge, è stata sempre richiesta e messa in atto non per selezionare il colore degli occhi del nascituro (come qualcuno polemicamente sostiene) ma per impedire la trasmissione al figlio di gravi malattie da parte di una coppia di genitori che ne sia affetta. La norma è stata giustamente definita "feroce" perché, quando applicata, obbligherebbe la madre a subire l'impianto di tutti gli embrioni prodotti, fatta salva la possibilità di ricorrere poi all'aborto una volta accertati nel feto rischi di malformazione o malattie genetiche.
Una donna sarda, talassemica, ha rifiutato qualche mese fa di subire questa violenza. Ha fatto ricorso al Tribunale di Cagliari che le ha dato ragione affermando che l'embrione, sottoposto alla diagnosi genetica poteva essere impiantato solo nel caso si fosse rivelato sano, evitando in questo caso il doloroso ricorso all'aborto. Ieri una analoga sentenza, del Tribunale di Firenze, ha sostenuto, con altrettanta nettezza, lo stesso principio, facendo riferimento non solo a una precedente sentenza della nostra Corte Costituzionale, ma anche alla Convenzione di Oviedo che consente i test prenatali, purché non abbiano finalità eugenetica.
Il Centro medico cui la madre, affetta da una grave e rara malattia genetica si era rivolta, dovrà dunque provvedere all'impianto solo quando avrà verificato le buone condizioni dell'embrione.
Le precedenti "linee guida" , emesse nel luglio 2004 sotto la gestione del ministro Sirchia, che mettevano fuori legge l'indagine genetica reimpianto vanno dunque disapplicate, afferma l'ordinanza del Tribunale di Firenze. Le nuove "linee guida" la cui responsabilità spetta al ministro della Salute dovranno, inevitabilmente, tener conto di queste sentenze della magistratura che tutelano il diritto della madre e insieme il diritto alla salute del nascituro.
Ancora una volta, come nel controverso caso del testamento biologico in discussione al Senato, siamo di fronte ad uno di quei problemi che si è convenuto chiamare "eticamente sensibili". Un problema cioè che divide le coscienze e rischia di vedere schierati e contrapposti, da una parte i laici e dall'altra la Chiesa Cattolica contraria ad ogni intervento sull'embrione.
L'inizio della vita e la sua conclusione non sono più affidati, come è accaduto per tutta la storia dell'umanità, alla natura (o a una volontà superiore). La nascita e la morte sono eventi sui quali ormai incide in modo decisivo la medicina, la scienza, la volontà dell'uomo, della sua capacità di scegliere.
E' una condizione del tutto nuova, aperta a prospettive affascinanti ma anche, per alcuni versi inquietanti. Mai prima d'ora una donna ha potuto decidere se e come divenire madre, mai prima d'ora una donna ha potuto - grazie ai progressi della medicina - mettere il nascituro al riparo da gravi malattie ereditarie.
Il legislatore non può, in questi casi così delicati, imporre una scelta che, anche se confortata dalla maggioranza non consente la convivenza di valori diversi. Vale la pena a questo proposito di citare un liberale come Dworkin che scriveva: "L'istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettatele".
La laicità, che ci è cara, consiste proprio in questo: nella capacità di allargare l'area dei diritti di ognuno di noi senza imporne l'adozione a nessuno. E' la scelta che venne fatta in occasione del voto sul divorzio e sull'aborto. E' la scelta che, speriamo, verrà adottata in occasione della elaborazione delle nuove linee guida per l'applicazione della legge sulla fecondazione assistita.
Il giudice: sì ai test sugli embrioni E' possibile la diagnosi preventiva
Firenze, sentenza accoglie il ricorso di una donna affetta da una rara malattia
"Lecito anche rifiutare i tre impianti se la salute è in pericolo"
di MARINA CAVALLIERI
ROMA - Arriva da Firenze l'ordinanza, con valore di sentenza, che scardina la legge sulla fecondazione assistita. Il giudice ha accolto il ricorso di una coppia e ha stabilito che le linee guida che vietano la diagnosi preimpianto degli embrioni sono inapplicabili perché contro la legge stessa e contro la Costituzione. È possibile quindi la diagnosi preventiva se c'è il rischio di trasmettere una grave malattia genetica, è lecito rifiutare il numero obbligatorio di tre embrioni se una gravidanza gemellare può compromettere la salute della donna.
Torna ancora nelle aule giudiziarie la battaglia sulla procreazione assistita, e dopo il caso del tribunale di Cagliari arriva un altro giudice a dare ragione alle coppie che lottano per cambiare le norme. Questa volta a sollevare la questione è stata una coppia trentenne di Milano, lei è portatrice di una grave malattia, la esostosi, malattia genetica che porta all'accrescimento esagerato della cartilagine delle ossa: c'è una percentuale molto elevata che venga trasmessa al figlio, esiste la possibilità che sia mortale.
La coppia si rivolge al centro Demetra di Firenze e chiede di poter fare la diagnosi preimpianto, inoltre chiede che la fivet sia adeguata allo stato di salute della donna che non può rischiare una gravidanza gemellare. Il centro risponde che tutto questo la legge non lo consente. "La coppia deve per forza sottoporsi alla roulette russa con il rischio di avere gli embrioni malati", racconta l'avvocato Gianni Baldini che ha curato il ricorso. "Così i coniugi si rivolgono al sito www. madreprovetta. org per chiedere una consulenza e iniziamo un'azione legale".
Alla base del ricorso, spiega l'avvocato, ci sono diverse considerazioni. "C'è il fatto che la legge 40 non stabilisce espressamente il divieto di diagnosi preimpianto, sono le linee guida a stabilirlo dicendo che le indagini preventive non possono essere di natura genetica ma solo osservazionale cioè morfologica". Questo divieto incide su un diritto soggettivo assoluto, dice l'avvocato Baldini, qual è quello dell'autodeterminazione, incide sul diritto alla procreazione cosciente e responsabile, al consenso informato.
"Il giudice Isabella Mariani accoglie il ricorso, "dicendo che è fondata l'illegittimità delle linee guida che espressamente disapplica, un provvedimento con efficacia vincolante per altri giudizi e per il Tar". Il giudice inoltre prende altre due iniziative contrarie alla legge. "Condanna il centro ad eseguire la diagnosi e stabilisce la crioconservazione degli embrioni malati, che la legge vieta, e dice che il medico deve seguire le regole della migliore scienza ed esperienza con specifico riguardo alla salute della donna. Questo è un altro colpo al cuore della legge 40, perché ristabilisce l'ordine gerarchico previsto dalla Costituzione e dalla legge 194 che antepone la salute della donna a quella del nascituro".
L'ordinanza non è revocabile, vale quanto una sentenza, se il centro Demetra non ricorre in appello diventa definitiva. È la seconda sentenza a favore della diagnosi preimpianto nel caso di malattie genetiche, a settembre il tribunale di Cagliari aveva dato ragione ad una donna portatrice di talassemia. "Da quando è andata in vigore la legge arrivano molte richieste di sostegno legale, è aumentato il contenzioso giudiziario, la legge 40 è avvertita contro il bene della coppia", dice Monica Soldano, presidente dell'associazione "Madreprovetta", "la legge viene sempre più percepita come ostile a un progetto genitoriale".
(22 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
"Lecito anche rifiutare i tre impianti se la salute è in pericolo"
di MARINA CAVALLIERI
ROMA - Arriva da Firenze l'ordinanza, con valore di sentenza, che scardina la legge sulla fecondazione assistita. Il giudice ha accolto il ricorso di una coppia e ha stabilito che le linee guida che vietano la diagnosi preimpianto degli embrioni sono inapplicabili perché contro la legge stessa e contro la Costituzione. È possibile quindi la diagnosi preventiva se c'è il rischio di trasmettere una grave malattia genetica, è lecito rifiutare il numero obbligatorio di tre embrioni se una gravidanza gemellare può compromettere la salute della donna.
Torna ancora nelle aule giudiziarie la battaglia sulla procreazione assistita, e dopo il caso del tribunale di Cagliari arriva un altro giudice a dare ragione alle coppie che lottano per cambiare le norme. Questa volta a sollevare la questione è stata una coppia trentenne di Milano, lei è portatrice di una grave malattia, la esostosi, malattia genetica che porta all'accrescimento esagerato della cartilagine delle ossa: c'è una percentuale molto elevata che venga trasmessa al figlio, esiste la possibilità che sia mortale.
La coppia si rivolge al centro Demetra di Firenze e chiede di poter fare la diagnosi preimpianto, inoltre chiede che la fivet sia adeguata allo stato di salute della donna che non può rischiare una gravidanza gemellare. Il centro risponde che tutto questo la legge non lo consente. "La coppia deve per forza sottoporsi alla roulette russa con il rischio di avere gli embrioni malati", racconta l'avvocato Gianni Baldini che ha curato il ricorso. "Così i coniugi si rivolgono al sito www. madreprovetta. org per chiedere una consulenza e iniziamo un'azione legale".
Alla base del ricorso, spiega l'avvocato, ci sono diverse considerazioni. "C'è il fatto che la legge 40 non stabilisce espressamente il divieto di diagnosi preimpianto, sono le linee guida a stabilirlo dicendo che le indagini preventive non possono essere di natura genetica ma solo osservazionale cioè morfologica". Questo divieto incide su un diritto soggettivo assoluto, dice l'avvocato Baldini, qual è quello dell'autodeterminazione, incide sul diritto alla procreazione cosciente e responsabile, al consenso informato.
"Il giudice Isabella Mariani accoglie il ricorso, "dicendo che è fondata l'illegittimità delle linee guida che espressamente disapplica, un provvedimento con efficacia vincolante per altri giudizi e per il Tar". Il giudice inoltre prende altre due iniziative contrarie alla legge. "Condanna il centro ad eseguire la diagnosi e stabilisce la crioconservazione degli embrioni malati, che la legge vieta, e dice che il medico deve seguire le regole della migliore scienza ed esperienza con specifico riguardo alla salute della donna. Questo è un altro colpo al cuore della legge 40, perché ristabilisce l'ordine gerarchico previsto dalla Costituzione e dalla legge 194 che antepone la salute della donna a quella del nascituro".
L'ordinanza non è revocabile, vale quanto una sentenza, se il centro Demetra non ricorre in appello diventa definitiva. È la seconda sentenza a favore della diagnosi preimpianto nel caso di malattie genetiche, a settembre il tribunale di Cagliari aveva dato ragione ad una donna portatrice di talassemia. "Da quando è andata in vigore la legge arrivano molte richieste di sostegno legale, è aumentato il contenzioso giudiziario, la legge 40 è avvertita contro il bene della coppia", dice Monica Soldano, presidente dell'associazione "Madreprovetta", "la legge viene sempre più percepita come ostile a un progetto genitoriale".
(22 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
venerdì 21 dicembre 2007
Dalle canzoni dello Zecchino d'oro allo sfruttamento della prostituzione
Nel 1969 Vincenza Pastorelli fu protagonista all'Antoniano a 4 anni con "Il gatto nero"
Gestiva due centri massaggi nel Salento ma aveva vinto un concorso da maestra elementare
Vincenza Pastorelli allo Zecchino d'oro del '69 quando aveva 4 anni
BARI - Nel 1969 Vincenza fu protagonista all'Antoniano di Bologna, a soli quattro anni scalò le hit con la canzone 'Volevo un gatto nero', autentico successo anche internazionale: tre milioni di copie vendute in Giappone (il Festival fu vinto da Paolo Lanzini con "Tippy, un tenero coniglietto").
Oggi quella bimba bionda che arrossiva davanti a Mago Zurlì torna agli onori della cronaca ma per una vicenda di tutt'altro tenore: l'ex piccola diva Vincenza Pastorelli, oggi quarantaduenne, è stata arrestata dai carabinieri a Lecce per sfruttamento della prostituzione. Insieme con lei è finito in manette Pasquale Trevisi, suo ex fidanzato, di 29 anni, in cura presso una comunità terapeutica.
I carabinieri hanno appurato che la coppia aveva gestito a Guagnano e a Lecce, due case d'appuntamento, nelle quali si prostituivano quattro ragazze. Nelle case d'appuntamento camuffate da centri massaggi, l'ex protagonista dello Zecchino d'oro leggeva anche le carte ai clienti che volevano previsioni sul futuro. Gli affari andavano bene: secondo gli inquirenti, in un giorno, l'incasso raggiungeva anche i 1.000 euro, metà dei quali spettavano alla tenutaria che pagava le spese dell'appartamento.
Le due case di Guagnano e Lecce sono state chiuse a fine agosto, quando la donna ha vinto la cattedra per maestra elementare a Stradella dove si è trasferita interrompendo il rapporto col fidanzato. Per circa un mese, le due case sono state gestite dalle prostitute, che continuavano però a riconoscere la percentuale alla Pastorelli, pronta a minacciarle se non le inviavano i soldi.
Cino Tortorella, in arte Mago Zurlì, commenta addolorato: "E' una brutta cosa, che mi addolora profondamente, mi dispiace soprattutto che si avvicini una notizia così sgradevole allo Zecchino d'oro. Dal '69 hanno partecipato alle selezioni più di un milione di bambini, e su un milione di bambini può succedere anche questo".
(20 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
Gestiva due centri massaggi nel Salento ma aveva vinto un concorso da maestra elementare
Vincenza Pastorelli allo Zecchino d'oro del '69 quando aveva 4 anni
BARI - Nel 1969 Vincenza fu protagonista all'Antoniano di Bologna, a soli quattro anni scalò le hit con la canzone 'Volevo un gatto nero', autentico successo anche internazionale: tre milioni di copie vendute in Giappone (il Festival fu vinto da Paolo Lanzini con "Tippy, un tenero coniglietto").
Oggi quella bimba bionda che arrossiva davanti a Mago Zurlì torna agli onori della cronaca ma per una vicenda di tutt'altro tenore: l'ex piccola diva Vincenza Pastorelli, oggi quarantaduenne, è stata arrestata dai carabinieri a Lecce per sfruttamento della prostituzione. Insieme con lei è finito in manette Pasquale Trevisi, suo ex fidanzato, di 29 anni, in cura presso una comunità terapeutica.
I carabinieri hanno appurato che la coppia aveva gestito a Guagnano e a Lecce, due case d'appuntamento, nelle quali si prostituivano quattro ragazze. Nelle case d'appuntamento camuffate da centri massaggi, l'ex protagonista dello Zecchino d'oro leggeva anche le carte ai clienti che volevano previsioni sul futuro. Gli affari andavano bene: secondo gli inquirenti, in un giorno, l'incasso raggiungeva anche i 1.000 euro, metà dei quali spettavano alla tenutaria che pagava le spese dell'appartamento.
Le due case di Guagnano e Lecce sono state chiuse a fine agosto, quando la donna ha vinto la cattedra per maestra elementare a Stradella dove si è trasferita interrompendo il rapporto col fidanzato. Per circa un mese, le due case sono state gestite dalle prostitute, che continuavano però a riconoscere la percentuale alla Pastorelli, pronta a minacciarle se non le inviavano i soldi.
Cino Tortorella, in arte Mago Zurlì, commenta addolorato: "E' una brutta cosa, che mi addolora profondamente, mi dispiace soprattutto che si avvicini una notizia così sgradevole allo Zecchino d'oro. Dal '69 hanno partecipato alle selezioni più di un milione di bambini, e su un milione di bambini può succedere anche questo".
(20 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
Dalle canzoni dello Zecchino d'oro allo sfruttamento della prostituzione
Nel 1969 Vincenza Pastorelli fu protagonista all'Antoniano a 4 anni con "Il gatto nero"
Gestiva due centri massaggi nel Salento ma aveva vinto un concorso da maestra elementare
Vincenza Pastorelli allo Zecchino d'oro del '69 quando aveva 4 anni
BARI - Nel 1969 Vincenza fu protagonista all'Antoniano di Bologna, a soli quattro anni scalò le hit con la canzone 'Volevo un gatto nero', autentico successo anche internazionale: tre milioni di copie vendute in Giappone (il Festival fu vinto da Paolo Lanzini con "Tippy, un tenero coniglietto").
Oggi quella bimba bionda che arrossiva davanti a Mago Zurlì torna agli onori della cronaca ma per una vicenda di tutt'altro tenore: l'ex piccola diva Vincenza Pastorelli, oggi quarantaduenne, è stata arrestata dai carabinieri a Lecce per sfruttamento della prostituzione. Insieme con lei è finito in manette Pasquale Trevisi, suo ex fidanzato, di 29 anni, in cura presso una comunità terapeutica.
I carabinieri hanno appurato che la coppia aveva gestito a Guagnano e a Lecce, due case d'appuntamento, nelle quali si prostituivano quattro ragazze. Nelle case d'appuntamento camuffate da centri massaggi, l'ex protagonista dello Zecchino d'oro leggeva anche le carte ai clienti che volevano previsioni sul futuro. Gli affari andavano bene: secondo gli inquirenti, in un giorno, l'incasso raggiungeva anche i 1.000 euro, metà dei quali spettavano alla tenutaria che pagava le spese dell'appartamento.
Le due case di Guagnano e Lecce sono state chiuse a fine agosto, quando la donna ha vinto la cattedra per maestra elementare a Stradella dove si è trasferita interrompendo il rapporto col fidanzato. Per circa un mese, le due case sono state gestite dalle prostitute, che continuavano però a riconoscere la percentuale alla Pastorelli, pronta a minacciarle se non le inviavano i soldi.
Cino Tortorella, in arte Mago Zurlì, commenta addolorato: "E' una brutta cosa, che mi addolora profondamente, mi dispiace soprattutto che si avvicini una notizia così sgradevole allo Zecchino d'oro. Dal '69 hanno partecipato alle selezioni più di un milione di bambini, e su un milione di bambini può succedere anche questo".
(20 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
Gestiva due centri massaggi nel Salento ma aveva vinto un concorso da maestra elementare
Vincenza Pastorelli allo Zecchino d'oro del '69 quando aveva 4 anni
BARI - Nel 1969 Vincenza fu protagonista all'Antoniano di Bologna, a soli quattro anni scalò le hit con la canzone 'Volevo un gatto nero', autentico successo anche internazionale: tre milioni di copie vendute in Giappone (il Festival fu vinto da Paolo Lanzini con "Tippy, un tenero coniglietto").
Oggi quella bimba bionda che arrossiva davanti a Mago Zurlì torna agli onori della cronaca ma per una vicenda di tutt'altro tenore: l'ex piccola diva Vincenza Pastorelli, oggi quarantaduenne, è stata arrestata dai carabinieri a Lecce per sfruttamento della prostituzione. Insieme con lei è finito in manette Pasquale Trevisi, suo ex fidanzato, di 29 anni, in cura presso una comunità terapeutica.
I carabinieri hanno appurato che la coppia aveva gestito a Guagnano e a Lecce, due case d'appuntamento, nelle quali si prostituivano quattro ragazze. Nelle case d'appuntamento camuffate da centri massaggi, l'ex protagonista dello Zecchino d'oro leggeva anche le carte ai clienti che volevano previsioni sul futuro. Gli affari andavano bene: secondo gli inquirenti, in un giorno, l'incasso raggiungeva anche i 1.000 euro, metà dei quali spettavano alla tenutaria che pagava le spese dell'appartamento.
Le due case di Guagnano e Lecce sono state chiuse a fine agosto, quando la donna ha vinto la cattedra per maestra elementare a Stradella dove si è trasferita interrompendo il rapporto col fidanzato. Per circa un mese, le due case sono state gestite dalle prostitute, che continuavano però a riconoscere la percentuale alla Pastorelli, pronta a minacciarle se non le inviavano i soldi.
Cino Tortorella, in arte Mago Zurlì, commenta addolorato: "E' una brutta cosa, che mi addolora profondamente, mi dispiace soprattutto che si avvicini una notizia così sgradevole allo Zecchino d'oro. Dal '69 hanno partecipato alle selezioni più di un milione di bambini, e su un milione di bambini può succedere anche questo".
(20 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
giovedì 20 dicembre 2007
Stupro di gruppo a Dorgali, condanna in appello
Ribaltata la sentenza di assoluzione pronunciata dal tribunale dei minori
Simonetta Selloni
Cinque anni al ragazzo ritenuto complice delle violenze su una donna di cinquant’anni
SASSARI. In primo grado era stato assolto dall'accusa di aver partecipato allo stupro di gruppo compiuto in una villetta alla periferia di Dorgali, il 14 febbraio di tre anni fa. Ma Sebastiano Sale, 20 anni (e minorenne all'epoca dei fatti), è stato condannato dai giudici della sezioni minori corte d'appello di Sassari una pena esemplare: 5 anni. Un verdetto che ribalta completamente la sentenza assolutoria pronunciata un anno fa dal tribunale dei minori del capoluogo sassarese, che aveva completamente scagionato il giovane, difeso dall'avvocato Basilio Brodu.
Contro la sentenza di primo grado aveva proposto appello il pubblico ministero, Luisella Fenu, che aveva solleciatato la condanna di Sale a 10 anni di carcere. I capi di imputazione erano pesanti: sequestro di persona, furto, oltre che gli abusi sessuali compiuti nei confronti di una donna di cinquant'anni, che aveva denunciato di esser stata violentata da tre persone. Le indagini avevano condotto all'arresto e alla condanna di altri due giovani, tutti di Dorgali. Uno, Luigi Fancello, l'unico maggiorenne del gruppo, era stato condannato a 5 anni (con rito abbreviato) dal tribunale di Nuoro, mentre Gabriele Piredda, 21 anni, minorenne all'epoca dei fatti, si è visto attribuire 3 anni e dieci mesi dai giudici del tribunale dei minori di Sassari.
Sale era stato chiamato in causa da Piredda, che era stato arrestato appena una settimana prima di lui. Contro Piredda, così come Fancello, c'era la prova del Dna: nella villetta dove era stato compiuto lo stupro erano stati recuperati alcuni profilattici utilizzati dai malviventi. Gli inquirenti erano riusciti a risalire al profilo genetico, che, messo a confronto con quello di Fancello e Piredda, aveva dato esito positivo. Nei confronti di Sebastiano Sale invece non c'era la prova del Dna. L'accusa gli attribuiva il ruolo del bandito, che, con una pistola alla mano, avrebbe incitato gli altri due componenti il gruppo alla violenza, avrebbe frugato tra le cose della donna, rubando persino 50 euro dalla sua borsetta.
Le indagini su questo punto, o meglio, su questa figura, avevano preso diverse strade. In un primo tempo, al principio dell'inchiesta, la figura del "terzo uomo" sarebbe stata attribuita al fratello della vittima. L'uomo però (difeso dall'avvocato Cecilia Bassu) era stato interrogato, aveva dato le sue spiegazioni, ed effettivamente era stato scagionato dalla successiva incriminazione di Sebastiano Sale.
I giudici di primo grado avevano però creduto alla tesi difensiva. Completamente ribaltata dai giudici d'appello, presidente Marongiu, consiglieri Demuro e Giacalone e integrata da due esperti psicologi. A Sale sono state concesse le attenuanti generiche e la diminuente dovuta alla minore età.
A guardare tra le righe della vicenda, i verdetti hanno identificato una sorta di baby-gang, composta da due 17enni e un maggiorenne (per pochi giorni), che, armi in pugno, avrebbe portato a termine uno stupro nei confronti di una povera donna di cinquant'anni. Tutti e tre i suoi aguzzini, messi insieme, superano di poco l'età della loro vittima; una storia tremenda, sulla quale Dorgali era insorta, dando vita a manifestazioni di sdegno e condanna.
(19 dicembre 2007)
Fonte: espresso.repubblica.it
Simonetta Selloni
Cinque anni al ragazzo ritenuto complice delle violenze su una donna di cinquant’anni
SASSARI. In primo grado era stato assolto dall'accusa di aver partecipato allo stupro di gruppo compiuto in una villetta alla periferia di Dorgali, il 14 febbraio di tre anni fa. Ma Sebastiano Sale, 20 anni (e minorenne all'epoca dei fatti), è stato condannato dai giudici della sezioni minori corte d'appello di Sassari una pena esemplare: 5 anni. Un verdetto che ribalta completamente la sentenza assolutoria pronunciata un anno fa dal tribunale dei minori del capoluogo sassarese, che aveva completamente scagionato il giovane, difeso dall'avvocato Basilio Brodu.
Contro la sentenza di primo grado aveva proposto appello il pubblico ministero, Luisella Fenu, che aveva solleciatato la condanna di Sale a 10 anni di carcere. I capi di imputazione erano pesanti: sequestro di persona, furto, oltre che gli abusi sessuali compiuti nei confronti di una donna di cinquant'anni, che aveva denunciato di esser stata violentata da tre persone. Le indagini avevano condotto all'arresto e alla condanna di altri due giovani, tutti di Dorgali. Uno, Luigi Fancello, l'unico maggiorenne del gruppo, era stato condannato a 5 anni (con rito abbreviato) dal tribunale di Nuoro, mentre Gabriele Piredda, 21 anni, minorenne all'epoca dei fatti, si è visto attribuire 3 anni e dieci mesi dai giudici del tribunale dei minori di Sassari.
Sale era stato chiamato in causa da Piredda, che era stato arrestato appena una settimana prima di lui. Contro Piredda, così come Fancello, c'era la prova del Dna: nella villetta dove era stato compiuto lo stupro erano stati recuperati alcuni profilattici utilizzati dai malviventi. Gli inquirenti erano riusciti a risalire al profilo genetico, che, messo a confronto con quello di Fancello e Piredda, aveva dato esito positivo. Nei confronti di Sebastiano Sale invece non c'era la prova del Dna. L'accusa gli attribuiva il ruolo del bandito, che, con una pistola alla mano, avrebbe incitato gli altri due componenti il gruppo alla violenza, avrebbe frugato tra le cose della donna, rubando persino 50 euro dalla sua borsetta.
Le indagini su questo punto, o meglio, su questa figura, avevano preso diverse strade. In un primo tempo, al principio dell'inchiesta, la figura del "terzo uomo" sarebbe stata attribuita al fratello della vittima. L'uomo però (difeso dall'avvocato Cecilia Bassu) era stato interrogato, aveva dato le sue spiegazioni, ed effettivamente era stato scagionato dalla successiva incriminazione di Sebastiano Sale.
I giudici di primo grado avevano però creduto alla tesi difensiva. Completamente ribaltata dai giudici d'appello, presidente Marongiu, consiglieri Demuro e Giacalone e integrata da due esperti psicologi. A Sale sono state concesse le attenuanti generiche e la diminuente dovuta alla minore età.
A guardare tra le righe della vicenda, i verdetti hanno identificato una sorta di baby-gang, composta da due 17enni e un maggiorenne (per pochi giorni), che, armi in pugno, avrebbe portato a termine uno stupro nei confronti di una povera donna di cinquant'anni. Tutti e tre i suoi aguzzini, messi insieme, superano di poco l'età della loro vittima; una storia tremenda, sulla quale Dorgali era insorta, dando vita a manifestazioni di sdegno e condanna.
(19 dicembre 2007)
Fonte: espresso.repubblica.it
venerdì 14 dicembre 2007
"Io, violentata nel paradiso dei turisti"
La donna era su una barca da immersioni insieme ad altre dieci persone
"Sapevo di essere in un paese musulmano: non mi facevo vedere mai in costume"
Il dramma di un'italiana alle Maldive
Nel Paese lo stupro non è reato: "Mi hanno detto che non c'è una legge"
di CATERINA PASOLINI
"Io, violentata nel paradiso dei turisti"
Il dramma di un'italiana alle Maldive
Un atollo delle Maldive
ROMA - Ultima notte di quiete nel paradiso dei turisti tra spiagge bianche, acque limpide e barriere coralline. Poi all'improvviso la violenza. "Sento ancora le sue mani addosso, il cuscino premuto sulla bocca fino a togliermi il fiato per non farmi gridare, mentre quell'uomo mi schiaccia, mi imprigiona col suo peso e mi stupra".
Per una giovane architetta bolognese in vacanza in barca alle Maldive con un gruppo di dieci subacquei il sogno pagato 1300 euro con un biglietto last minute si è trasformato in un inferno. Violentata da un marinaio dell'equipaggio, trattata come una che "ha avuto un brutto sogno", guardata con "indifferenza dalla polizia di Malé tanto lì la violenza contro le donne non è neppure considerato un reato".
Elena, nome, città e mestiere di fantasia per proteggere chi ha già subito troppo, parla con tono pacato ma la rabbia è profonda come la ferita di chi ha subito una doppia violenza. E si sente trattato come una cosa, come un oggetto neppure degno di essere protetto dalla legge, che punisce i ladri ma non gli stupratori. "La violenza mi poteva capitare ovunque, a Milano come a Roma, ma almeno da noi è reato". Un delitto contro la persona dal '96, prima era solo contro la pubblica morale.
Parla, racconta, rivive cercando di mettere una barriera di distacco, senza enfasi, con la lucidità di chi vuole giustizia. Con la concretezza di chi è abituato a girare il mondo, di chi ha viaggiato dall'Africa all'oriente, conosce mondi e tradizioni diverse e non metterebbe mai in imbarazzo chi ha culture opposte. "Tanto che sapendo di essere in un paese musulmano non stavo in costume anche perché facendo quattro immersioni al giorno si viveva praticamente con la muta", dice. Quasi ci fosse bisogno di sottolineare che lei non ha messo in tentazione nessuno, che non cercava avventure. Come se dovesse giustificarsi per aver subito violenza.
"Siamo partiti a fine novembre, ci siamo ritrovati a Malé con la comitiva italiana, tutti appassionati di fondali, e il giorno dopo siamo partiti per la crociera". Ogni giorno un atollo diverso, una barriera nuova accompagnati dal doney, la piccola imbarcazione per le gite con le bombole, oltre alla barca dove dormivano turisti e nove persone di equipaggio.
Una settimana da sogno. Poi la violenza. "Quella notte l'equipaggio maldiviano deve aver bevuto, non ci sono abituati. Verso le quattro di notte mi sveglio, c'è qualcuno nella mia stanza, mi si getta addosso mi preme il cuscino sulla faccia mi violenta senza che riesca a gridare. Quando ce la faccio a divincolarmi scappa nel buio e io finalmente chiamo aiuto".
Accorrono gli altri turisti, ma l'atteggiamento del capitano è ambiguo. "Mi dice: è stato solo un brutto sogno, però si scusa a nome dell'equipaggio e mi chiede di non chiamare la polizia". Ma Elena ha già parlato col console italiano che le ha consigliato di fare la denuncia e con un carabiniere che era in barca si fa portare dalla police a Malè. "Raccolgono la mia versione, mi dicono che tanto lì non c'è una legge per la violenza alle donne, ma io non mi fermo. Voglio giustizia, voglio che tutti sappiano come sono le leggi in certi paesi, cosa può accadere se un tour operator organizza le cose in modo superficiale".
(14 dicembre 2007)
"Sapevo di essere in un paese musulmano: non mi facevo vedere mai in costume"
Il dramma di un'italiana alle Maldive
Nel Paese lo stupro non è reato: "Mi hanno detto che non c'è una legge"
di CATERINA PASOLINI
"Io, violentata nel paradiso dei turisti"
Il dramma di un'italiana alle Maldive
Un atollo delle Maldive
ROMA - Ultima notte di quiete nel paradiso dei turisti tra spiagge bianche, acque limpide e barriere coralline. Poi all'improvviso la violenza. "Sento ancora le sue mani addosso, il cuscino premuto sulla bocca fino a togliermi il fiato per non farmi gridare, mentre quell'uomo mi schiaccia, mi imprigiona col suo peso e mi stupra".
Per una giovane architetta bolognese in vacanza in barca alle Maldive con un gruppo di dieci subacquei il sogno pagato 1300 euro con un biglietto last minute si è trasformato in un inferno. Violentata da un marinaio dell'equipaggio, trattata come una che "ha avuto un brutto sogno", guardata con "indifferenza dalla polizia di Malé tanto lì la violenza contro le donne non è neppure considerato un reato".
Elena, nome, città e mestiere di fantasia per proteggere chi ha già subito troppo, parla con tono pacato ma la rabbia è profonda come la ferita di chi ha subito una doppia violenza. E si sente trattato come una cosa, come un oggetto neppure degno di essere protetto dalla legge, che punisce i ladri ma non gli stupratori. "La violenza mi poteva capitare ovunque, a Milano come a Roma, ma almeno da noi è reato". Un delitto contro la persona dal '96, prima era solo contro la pubblica morale.
Parla, racconta, rivive cercando di mettere una barriera di distacco, senza enfasi, con la lucidità di chi vuole giustizia. Con la concretezza di chi è abituato a girare il mondo, di chi ha viaggiato dall'Africa all'oriente, conosce mondi e tradizioni diverse e non metterebbe mai in imbarazzo chi ha culture opposte. "Tanto che sapendo di essere in un paese musulmano non stavo in costume anche perché facendo quattro immersioni al giorno si viveva praticamente con la muta", dice. Quasi ci fosse bisogno di sottolineare che lei non ha messo in tentazione nessuno, che non cercava avventure. Come se dovesse giustificarsi per aver subito violenza.
"Siamo partiti a fine novembre, ci siamo ritrovati a Malé con la comitiva italiana, tutti appassionati di fondali, e il giorno dopo siamo partiti per la crociera". Ogni giorno un atollo diverso, una barriera nuova accompagnati dal doney, la piccola imbarcazione per le gite con le bombole, oltre alla barca dove dormivano turisti e nove persone di equipaggio.
Una settimana da sogno. Poi la violenza. "Quella notte l'equipaggio maldiviano deve aver bevuto, non ci sono abituati. Verso le quattro di notte mi sveglio, c'è qualcuno nella mia stanza, mi si getta addosso mi preme il cuscino sulla faccia mi violenta senza che riesca a gridare. Quando ce la faccio a divincolarmi scappa nel buio e io finalmente chiamo aiuto".
Accorrono gli altri turisti, ma l'atteggiamento del capitano è ambiguo. "Mi dice: è stato solo un brutto sogno, però si scusa a nome dell'equipaggio e mi chiede di non chiamare la polizia". Ma Elena ha già parlato col console italiano che le ha consigliato di fare la denuncia e con un carabiniere che era in barca si fa portare dalla police a Malè. "Raccolgono la mia versione, mi dicono che tanto lì non c'è una legge per la violenza alle donne, ma io non mi fermo. Voglio giustizia, voglio che tutti sappiano come sono le leggi in certi paesi, cosa può accadere se un tour operator organizza le cose in modo superficiale".
(14 dicembre 2007)
martedì 11 dicembre 2007
Il 90% degli stupri commesso da italiani Il rischio maggiore da familiari e conoscenti
Una ricerca dell'Istat sfata molti luoghi comuni sui reati a sfondo sessuale. Secondo i dati resi noti dall'istituto solo il 10% delle violenze arriva da stranieri.
ROMA - Non sono immigrati ma italiani i responsabili della piaga della violenza sulle donne nel nostro Paese. Secondo le stime dell'Istat, non più del 10% degli stupri commessi in Italia è attribuibile a stranieri, contro un 69% di violenze domestiche commesso a opera di partner, mariti e fidanzati. Dati che fanno crollare d'un colpo il luogo comune che associa l'immigrazione a una diminuzione della sicurezza nelle città italiane.
Secondo l'Istat, che oggi ha aperto, nella sua sede centrale a Roma, il Global Forum sulle statistiche di genere, solo il 6% degli stupri in Italia è commesso da persone estranee alla vittima: "Se anche considerassimo che di questi autori estranei la metà sono immigrati - ha spiegato Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell'istituto di statistica - si arriverebbe al 3% degli stupri; se ci aggiungessimo il 50% dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al 10% del totale degli stupri a opera di stranieri".
Le forze politiche di sinistra denunciano una realtà "oscurata e alterata" dai media e "strumentalizzata dai partiti di minoranza". "Una doccia fredda per il narcisismo nazionale": così il portavoce dell'Idv, Leoluca Orlando, commenta la ricerca. Paola Balducci, responsabile giustizia del Sole che ride, ricorda "l'ostruzionismo della destra che alla Camera ha ritardato l'approvazione del disegno di legge contro le discriminazioni sessuali e la violenza sulle donne" e evidenzia la necessità di "un salto di qualità nelle politiche culturali e informative". "I dati rafforzano le ragioni e lo spirito della manifestazione del 24 novembre" commenta la senatrice Prc Giovanna Capelli.
Il lavoro dell'Istat non si ferma qui. "Ora dovremo porre l'attenzione - osserva Luigi Biggeri, presidente dell'istituto - anche su altre tematiche come la discriminazione, terreno difficilissimo ma che ormai necessita di essere misurato in tutte le sue manifestazioni".
(10 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
ROMA - Non sono immigrati ma italiani i responsabili della piaga della violenza sulle donne nel nostro Paese. Secondo le stime dell'Istat, non più del 10% degli stupri commessi in Italia è attribuibile a stranieri, contro un 69% di violenze domestiche commesso a opera di partner, mariti e fidanzati. Dati che fanno crollare d'un colpo il luogo comune che associa l'immigrazione a una diminuzione della sicurezza nelle città italiane.
Secondo l'Istat, che oggi ha aperto, nella sua sede centrale a Roma, il Global Forum sulle statistiche di genere, solo il 6% degli stupri in Italia è commesso da persone estranee alla vittima: "Se anche considerassimo che di questi autori estranei la metà sono immigrati - ha spiegato Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell'istituto di statistica - si arriverebbe al 3% degli stupri; se ci aggiungessimo il 50% dei conoscenti, al massimo si arriverebbe al 10% del totale degli stupri a opera di stranieri".
Le forze politiche di sinistra denunciano una realtà "oscurata e alterata" dai media e "strumentalizzata dai partiti di minoranza". "Una doccia fredda per il narcisismo nazionale": così il portavoce dell'Idv, Leoluca Orlando, commenta la ricerca. Paola Balducci, responsabile giustizia del Sole che ride, ricorda "l'ostruzionismo della destra che alla Camera ha ritardato l'approvazione del disegno di legge contro le discriminazioni sessuali e la violenza sulle donne" e evidenzia la necessità di "un salto di qualità nelle politiche culturali e informative". "I dati rafforzano le ragioni e lo spirito della manifestazione del 24 novembre" commenta la senatrice Prc Giovanna Capelli.
Il lavoro dell'Istat non si ferma qui. "Ora dovremo porre l'attenzione - osserva Luigi Biggeri, presidente dell'istituto - anche su altre tematiche come la discriminazione, terreno difficilissimo ma che ormai necessita di essere misurato in tutte le sue manifestazioni".
(10 dicembre 2007)
Fonte: repubblica.it
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