Come vuoi che le cose cambino? Ho pensato quando sono arrivata alla pagina x del libro che sto leggendo. Si tratta di un libro che suggerisce una serie di attività ludiche che dovrebbero tenere impegnate le ragazzine e i ragazzini. Non è importante il titolo o l'autore, è un libro per educatori, anche per educatrici. Il gioco è quello del palleggio. La scheda ne spiega lo svolgimento, le possibili varianti e poi, alla fine, mi suggerisce, con estrema naturalezza, di escludere le bambine da questo gioco, perché non adatto alle loro caratteristiche fisiche. Certo, lo fa attraverso un altro giro di parole, dice che i maschi 'lo preferiscono', aggiunge che lo preferiscono 'perché più indicato alle loro caratteristiche fisiche'. E pure le caratteristiche fisiche nell'infanzia non sono affatto accentuate in relazione al sesso, ma dipendono dal diverso sviluppo degli individui. Possiamo avere maschi alti e bassi, grossi e mingherlini, così femmine alte e robuste, basse e magroline, ecc. L'idea di fondo è chiaramente sessista. I maschi palleggiano, le femmine stanno fuori a fare il tifo, probabilmente. Forse l'aria stranita della bambina nell'illustrazione è dovuta proprio a quella pallonata che sembra avere avuto in testa, una pallonata che l'ha stordita. Perché se stai in disparte sempre, poi, non sai come pararle. Aggiunge
che questo gioco 'favorisce l'aggregazione tra elementi che non si
conoscono'. Un consiglio, allora, lo do io: quale migliore occasione per far giocare assieme
maschi e femmine?
domenica 22 dicembre 2013
mercoledì 18 dicembre 2013
Perché, chi è perfetto?
Sulla Bahnhofstrasse di Zurigo il 2
dicembre sono comparsi, nelle vetrine di un negozio di abiti, dei
manichini inusuali. Le reazioni dei passanti sono state di stupore, dato
che questi manichini rompevano la serialità del modello umano
idealizzato, che di norma fa mostra di sé nelle vetrine, e riproducevano
corpi affetti da disabilità fisiche.
Si tratta di una campagna promossa dall’associazione ProInfirmis.
Come ripete una delle frasi più condivise di facebook: “Non siamo
nati per essere perfetti ma veri.” Nessun corpo vero è seriale. Quindi,
avvicinatevi!*Testo a commento del video su youtube, traduzione di Serbilla.I manichini disabili susciteranno sguardi attoniti sulla Bahnhofstrasse di Zurigo oggi.
Tra i manichini perfetti ci saranno figure scoliotiche o con la malattia delle ossa fragili, come modelli all’ultima moda. Uno avrà gli arti corti, l’altro la spina dorsale malformata. La campagna è stata ideata per la Giornata internazionale delle persone con disabilità da Pro Infirmis, un’organizzazione per disabili. Intitolata “Perché, chi è perfetto? Avvicinati”, è stata progettata per provocare una riflessione sull’accettazione delle persone con disabilità. Il direttore, Alain Gsponer, ha documentato la campagna con un cortometraggio. I manichini sono rappresentazioni tridimensionali, a grandezza naturale, di Miss Handicap 2010, Jasmin Rechsteiner, del conduttore radiofonico e critico cinematografico Alex Oberholzer, dell’atleta Urs Kolly, della blogger Nadja Schmid e dell’attore Erwin Aljukic.
“Inseguiamo spesso degli ideali invece di accettare la vita in tutta la sua diversità. Pro Infirmis si sforza soprattutto di promuovere l’accettazione della disabilità e l’inclusione delle persone con disabilità”, dice Mark Zumbühl, membro di Pro Infirmis Executive Board, descrivendo la campagna.*
lunedì 2 dicembre 2013
Morta di parto: Barbara, mamma 32enne, muore di parto in Calabria. Gravissima la sua bambina
Venerdì 1 Novembre 2013
La donna, si sottolinea nella nota, «è giunta in Pronto soccorso in una condizione comatosa, è stata trasferita subito in sala operatoria e operata immediatamente. La bambina - continua la nota - è risultata in evidente stato di asfissia ed è stata trasferita all'istante presso l'Annunziata, quale presidio Hub di riferimento. La madre, dopo l'intervento è stata presa in carico dall'èquipe dei rianimatori di Castrovillari che diagnosticavano l'embolia polmonare mentre le condizioni generali e gli esami di laboratorio precipitavano velocemente. Malgrado gli sforzi fatti per sostenere la funzione cardiorespiratoria, e preannunciato dal peggioramento dei parametri vitali, verso le sei del mattino subentrava l'exitus». «I familiari della donna - prosegue la nota - informati minuto per minuto dell'evolversi della situazione e, pur nel dolore, hanno ringraziato il personale e la direzione per gli sforzi profusi dal team che ha preso in carico la loro congiunta. Essendo la morte per parto codificata come un evento sentinella dal Ministero della Salute, la Direzione ospedaliera ha ritenuto opportuno aprire comunque un'inchiesta interna, malgrado non vi sia a tutt'oggi alcun elemento che faccia sospettare responsabilità nella conduzione del caso, poichè sono stati rispettati protocolli e procedure». La Direzione dell'ospedale e la Direzione dell'Asp esprimono i loro sentimenti di «profondo cordoglio ai familiari e si impegnano a collaborare pienamente con la magistratura nel caso dovesse emergere l'esigenza di approfondire le indagini per determinare l'esatta dinamica di questo evento indesiderato».
Fonte:http://www.leggo.it/NEWS/ITALIA/barbara_mamma_32enne_muore_di_parto_in_calabria._gravissima_la_sua_bambina/notizie/348604.shtml
domenica 1 dicembre 2013
Giornata mondiale per la lotta all'AIDS 2013
L'AIDS, non solo il 1 dicembre. da Intersezioni
Il test dell’HIV come funziona? Qui.
Come si indossa il preservativo femminile? Qui.
Come si indossa il preservativo maschile? Qui.
Come si usa il preservativo digitale? Qui.
Fonte http://intersezioni.noblogs.org/post/2013/12/01/aids-non-solo-il-1-dicembre/
Poche parole, oggi, per dire che l’AIDS
esiste, esiste tutto l’anno, non solo il 1 dicembre, e non è l’unica
malattia a trasmissione sessuale. Controllare la propria salute permette
di tenere al sicuro sé stess@ e chi amiamo o chi semplicemente
condivide con noi un momento di intimità.
Tutti gli organismi rischiano di ammalarsi, al di là delle predisposizioni, delle debolezze e delle costituzioni. Bastano pochi gesti per mettere tra noi e alcune malattie, mortali e no, una barriera pressocché sicura. Questi gesti richiedono pochi secondi, possono essere compiuti con il coinvolgimento de@ partner.
Usate il preservativo, maschile o femminile. Usate una protezione per le dita se entrate in contatto con parti intime sanguinanti. Fate il test periodicamente, se donate il sangue vi verrà fatto anche il test dell’HIV.
Qualche link:Tutti gli organismi rischiano di ammalarsi, al di là delle predisposizioni, delle debolezze e delle costituzioni. Bastano pochi gesti per mettere tra noi e alcune malattie, mortali e no, una barriera pressocché sicura. Questi gesti richiedono pochi secondi, possono essere compiuti con il coinvolgimento de@ partner.
Usate il preservativo, maschile o femminile. Usate una protezione per le dita se entrate in contatto con parti intime sanguinanti. Fate il test periodicamente, se donate il sangue vi verrà fatto anche il test dell’HIV.
Il test dell’HIV come funziona? Qui.
Come si indossa il preservativo femminile? Qui.
Come si indossa il preservativo maschile? Qui.
Come si usa il preservativo digitale? Qui.
Fonte http://intersezioni.noblogs.org/post/2013/12/01/aids-non-solo-il-1-dicembre/
lunedì 21 ottobre 2013
Je connais un violeur [Conosco uno stupratore]
Da Intersezioni
Conosco uno stupratore
Conosco uno stupratore
Mentre cercavo notizie sullo stupro della sedicenne violentata dagli ‘amici’, durante una festa, ho scoperto il tumblr Je connais un violeur [Conosco uno stupratore].
Un progetto francese, partito ad agosto 2013, che raccoglie già tantissime storie di stupro, al fine di spezzare quella falsa narrazione che ci vuole esposte al pericolo solo quando ci avventuriamo fuori dalle mura domestiche, vittime solo quando ci esponiamo allo sguardo degli estranei o incrociamo un ‘pazzo’, ribadendo chiaramente che la maggior parte delle violenze sessuali avvengono a opera di conoscenti e in famiglia.
Come si legge nell’about del tumblr:Un progetto francese, partito ad agosto 2013, che raccoglie già tantissime storie di stupro, al fine di spezzare quella falsa narrazione che ci vuole esposte al pericolo solo quando ci avventuriamo fuori dalle mura domestiche, vittime solo quando ci esponiamo allo sguardo degli estranei o incrociamo un ‘pazzo’, ribadendo chiaramente che la maggior parte delle violenze sessuali avvengono a opera di conoscenti e in famiglia.
L’immagine dello stupratore psicopatico che vive ai margini della società, è un mito che riguarda solo una piccola minoranza di loro. Nel 67% dei casi, la violenza ha avuto luogo presso la casa della vittima o del carnefice, che è un amico o una persona cara. Nel 80% dei casi, l’autore dello stupro era noto alla vittima. Uno stupro su 3 è commesso dal marito o dal partner abituale.Quanto alle “false accuse” di cui sentiamo parlare quando si tratta di uno stupro, le statistiche parlano chiaro: sono estremamente rare. Al contrario, solo uno stupro su 10 è riferito alla polizia e il 97% degli stupratori non sconta nemmeno un giorno in carcere.Erano i nostri amici, i nostri partner, i nostri familiari o membri della nostra cerchia di conoscenti. Conosciamo degli stupratori: permetteteci di mostraveli.
I racconti delle vittime vengono resi in
forma anonima da Pauline, 27 anni, attivista femminista, ex studentessa
di Scienze Politiche.
Autori degli stupri sono padri, fratelli,
amici, amanti, cugini, zii. Uomini appartenenti a tutti i ceti sociali.
Solo in pochi casi conoscenti o estranei. Attraverso i racconti si
percepisce la vergogna, la paura e il senso di colpa generati dallo
stupro nelle vittime. Secondo la psichiatra Muriel Salmona, che figura
tra i link del blog stesso, la condivisione di queste storie è
terapeutica in sé, perché dà alle vittime la sensazione di non essere
sole nella difficoltà di comunicare ciò che è loro accaduto, anche a
distanza di anni e nell’incredulità di chi le circonda[1].
Se uscire di casa è ritenuto pericoloso, lo è anche restarci, allora
tanto vale andare fuori a reclamare il diritto ad essere in ogni posto,
in ogni momento.
[1] Le Point.fr, Je connais un violeur : C’est mon père, mon mari, mon oncle…, «http://www.lepoint.fr», 29/09/2013 ore 09:45.
domenica 13 ottobre 2013
RU846, storie di ordinaria follia!
Da Intersezioni
Volentieri condividiamo il resoconto fatto da Guerriera (grazie!) sulla sua esperienza in merito all’accesso alla RU846, sperando che la tenacia con la quale è riuscita a tenere testa ad una situazione allucinante possa infondere coraggio e determinazione a tutte quelle donne che dovessero trovarsi nella stessa situazione… ecco perché è più che mai necessario continuare a lottare! Buona lettura!
Volentieri condividiamo il resoconto fatto da Guerriera (grazie!) sulla sua esperienza in merito all’accesso alla RU846, sperando che la tenacia con la quale è riuscita a tenere testa ad una situazione allucinante possa infondere coraggio e determinazione a tutte quelle donne che dovessero trovarsi nella stessa situazione… ecco perché è più che mai necessario continuare a lottare! Buona lettura!
RU846, storie (sur)reali!
Sono nel mondo arabo, ho appena scoperto di essere incinta. Cazzo,
potevo fare più attenzione… nel senso, avevo un dubbio prima di partire
ma mi sono detta: “Ok, sarà lo stress pre-partenza.. eppoi, ti pare che
capita proprio a me e proprio in questo momento?”
Sono dall’altra parte del mondo, ma non facciamoci prendere dal panico. Faccio le analisi, confermato il risultato positivo del test. Mentre cerco di prenotare un volo il più presto possibile, inizio a spulciare i siti sull’argomento e ad avvisare le mie amiche a Roma e Bologna… perché l’obiettivo è uno: RU846!
Panico! Sui siti le informazioni sono tantissime e diversissime. Ognun* pare la pensi a proprio modo. Le informazioni raccolte dalle amiche confermano il delirio di info che non coincidono e si contraddicono.
Contatto Vita di donna, associazione di supporto alle donne, di Roma, sono super disponibili: le ricontatto appena atterrata.
Sono dall’altra parte del mondo, ma non facciamoci prendere dal panico. Faccio le analisi, confermato il risultato positivo del test. Mentre cerco di prenotare un volo il più presto possibile, inizio a spulciare i siti sull’argomento e ad avvisare le mie amiche a Roma e Bologna… perché l’obiettivo è uno: RU846!
Panico! Sui siti le informazioni sono tantissime e diversissime. Ognun* pare la pensi a proprio modo. Le informazioni raccolte dalle amiche confermano il delirio di info che non coincidono e si contraddicono.
Contatto Vita di donna, associazione di supporto alle donne, di Roma, sono super disponibili: le ricontatto appena atterrata.
08/10
Devo recarmi al San Camillo alle 6,30 del mattino, all’ambulatorio apposito per la questione, in un sottoscala del reparto di ginecologia. Prendo il treno da Termini per stazione Trastevere, ma sono stanca e super confusa. Sbaglio treno e mi ritrovo a Zagarolo, merda! Arrivo al San Camillo alle 10. Parlo con una infermiera ed una ginecologa, niente da fare, devo tornare il giorno successivo alle 6,30, così da fare l’ecografia e vedere se sono ancora in tempo. Ma non mi fido molto! Il San Camillo è uno dei pochi ospedali a dare la pillola (dubbio rimane su Ostia, dove al telefono sono stati veramente poco disponibili… quando si sono degnati di rispondere, ossia dopo 3 giorni di tentativi). La ginecologa mi dice che comunque prima del 16 non può inserirmi… stiamo parlando della RU846 per la quale il massimo previsto dalla legge è 49 giorni dopo il primo giorno dell’ultimo ciclo, o di un parrucchiere super alla moda? P.s. (non fidatevi di questo conteggio.. 49 giorni dal primo giorno di ultimo ciclo nel caso di ciclo super regolare… la gestazione può infatti cominciare dopo… per cui fate un’ecografia, potete scoprire di essere ancora in tempo nonostante i vostri calcoli sfavorevoli). Chiamo l’ospedale Maggiore di Bologna… al massimo, se dall’ecografia risulterò essere ancora in tempo, prendo il primo treno e me ne vado al Nord. Da Bologna mi avvertono che è necessario il Certificato legale per l’interruzione volontaria (che invece non è necessario a Roma) rilasciato o dal medico di famiglia (il mio è obiettore… ovviamente… strascichi d’infanzia!) o dai consultori familiari. Chiamo il consultorio di Garbatella, domani mattina, dopo l’ecografia al San Camillo, volo da loro per il certificato.
Devo recarmi al San Camillo alle 6,30 del mattino, all’ambulatorio apposito per la questione, in un sottoscala del reparto di ginecologia. Prendo il treno da Termini per stazione Trastevere, ma sono stanca e super confusa. Sbaglio treno e mi ritrovo a Zagarolo, merda! Arrivo al San Camillo alle 10. Parlo con una infermiera ed una ginecologa, niente da fare, devo tornare il giorno successivo alle 6,30, così da fare l’ecografia e vedere se sono ancora in tempo. Ma non mi fido molto! Il San Camillo è uno dei pochi ospedali a dare la pillola (dubbio rimane su Ostia, dove al telefono sono stati veramente poco disponibili… quando si sono degnati di rispondere, ossia dopo 3 giorni di tentativi). La ginecologa mi dice che comunque prima del 16 non può inserirmi… stiamo parlando della RU846 per la quale il massimo previsto dalla legge è 49 giorni dopo il primo giorno dell’ultimo ciclo, o di un parrucchiere super alla moda? P.s. (non fidatevi di questo conteggio.. 49 giorni dal primo giorno di ultimo ciclo nel caso di ciclo super regolare… la gestazione può infatti cominciare dopo… per cui fate un’ecografia, potete scoprire di essere ancora in tempo nonostante i vostri calcoli sfavorevoli). Chiamo l’ospedale Maggiore di Bologna… al massimo, se dall’ecografia risulterò essere ancora in tempo, prendo il primo treno e me ne vado al Nord. Da Bologna mi avvertono che è necessario il Certificato legale per l’interruzione volontaria (che invece non è necessario a Roma) rilasciato o dal medico di famiglia (il mio è obiettore… ovviamente… strascichi d’infanzia!) o dai consultori familiari. Chiamo il consultorio di Garbatella, domani mattina, dopo l’ecografia al San Camillo, volo da loro per il certificato.
09/10
Arrivo al San Camillo alle 6h30. Scopro che l’ambulatorio apre alle 8. Fanno andare prima le ragazze perché così appena aprono consegnano le carte per chi è lì per la prima volta; se sei assente in questa distribuzione che avviene dalle 8 alle 8h15… sei fuori! Ok, metodo di merda, ma è comunque un metodo. Ma l’ambulatorio è chiuso per davvero… nel senso che siamo 7 ragazze, fuori, sotto la pioggia ad aspettare l’apertura delle porte di vetro oltre le quali si vede già tutta la gente all’interno. E mi sembriamo ree, lì in attesa di estirpare una colpa. Aprono le porte e mi infilo in questa catena di montaggio… stanza 1 consegna primo foglio, stanza 2 consegna altri documenti, stanza per ecografia e la tipa che grida: “Sei fuori!”
Ok, adesso sono in una partita di baseball.
“Scusi, cazzo vuol dire che sono fuori?”
“Che non ce la fai a prendere la pillola”
“Ok, lei però si limiti a dirmi se potenzialmente sarei in tempo”
“Ma le ho detto che non ce la fa, qui abbiamo le liste d’attesa, la infilo nella prassi del chirurgico”
“Senta, mi dia la diagnosi delle settimane di gestazione, che provo altrove”
“Lei è a 6 settimane + 1 giorno, avrebbe 6 giorni ancora, ma qui non è possibile e non pensi di poter trovare una struttura che le riservi un trattamento migliore”
“Mi dia l’ecografia e stia zitta”
“Non si può, è un documento privato”
“La MIA ecografia è un SUO documento privato?”
Finisco nella prassi di “quella che se ne vuole andare” come gridava quella deficiente di infermiera per il corridoio alle sue colleghe. Non tutte sono così idiote, ad alcune spiego le mie intenzioni, capiscono, mi appoggiano e mi fotocopiano in segreto l’ecografia con le settimane di gestazione.
Secondo step: consultorio della Garbatella per il certificato legale e poi Bologna.
“Mi spiace, non c’è la ginecologa oggi”
“Ma come, avevo chiamato ieri, avevo detto per cosa dovevo passare…” Vabbè, si fanno perdonare in fretta… sono due angeli e mi aiutano tantissimo. Le loro informazioni sono completamente scorrette; il San Camillo stesso ha fatto circolare un documento in cui il limite previsto per la RU846 è di 5 settimane + 5 giorni; sto 10 minuti a spiegare alle infermiere che non è così. Chiamano il San Camillo per conferma. Ovviamente, ho ragione io! Chiamano ogni consultorio di Roma per sapere se c’è un ginecologo o una ginecologa disponibili… Nessuno… in tutta Roma, pare che i ginecolog* siano tutt* in aggiornamento/conferenza/vacanza/cazzo ne so! E non solo non ci sono ginecolog* disponibili, ma ovviamente ogni infermiera ha diverse indicazioni sulle procedure per cui ogni volta è un combattere per far valere la nostra versione e non la loro! Trovata una… che a quanto dicono le infermiere è anche la coordinatrice di tutto il settore ginecologico di Roma: ‘sta beneamata sostiene che il certificato fatto a Roma non abbia valore in Emilia Romagna… e meno male che sei la responsabile di ‘sta cippa, ignorante!
[comunque, prima di arrivare al consultorio della Garbatella, da casa, ho chiamato io stessa vari altri consultori; a Roma funziona che in base a dove abiti ti devi rivolgere al consultorio della tua circoscrizione, per cui avevo una serie di indirizzi falsi, (domicilio) da dare in base al consultorio che chiamavo… cacchio me ne frega!... annotazione: uno dei peggiori che ho trovato è il consultorio spenser, della circoscrizione della Prenestina: loro risposta “Possiamo farti venire non prima del 17 per farti parlare con l'assistenza sociale e il 18 con la ginecologa”… e il 19 con quello stronzo di tuo fratello!!! ]
Quando non ci credevo più neanche io, troviamo la dott. Maiocchetti. Fantastica… dice di correre da lei. Si tratta del consultorio di Via Silone 100, 3 ponte (metro Laurentina, bus 776); ho un’ora e mezza di tempo prima che chiuda. CORRO! Arrivo, compilo le carte, mi firma il certificato segnando la postilla urgenza… e non “La invitiamo a pensarci 7 giorni” ; scambiamo due chiacchiere… ci lamentiamo entrambe di questo trattamento riservato alle donne, è uno schifo… nella Asl non sono autorizzate a dare la RU846 ma possono fare l’ IGV chirurgico… incredibile! Dobbiamo lottare, dice lei, sì cara dottora, dobbiamo lottare!
[altro post: all’ospedale di Sant’Andrea, sono stata 15 minuti a spiegare la differenza alla tipa con cui ho parlato tra una 'pillola del giorno dopo' che si dà al Pronto soccorso in codice bianco e la RU846!!!]
L’infermiere della Garbatella aveva anche richiamato l’ospedale di Bologna, per avere conferma del fatto che se fossi stata presente il giorno dopo, mi avrebbe subito inserito nella pratica dell’IVG farmacologica. Dicono di sì, ma che devo assolutamente essere alle 8 del mattino al centro d’analisi in Via Marconi 35 e poi da lì sarei stata trasferita al Maggiore.
Prendo il primo treno… merda quanto costa! Arrivo a Bologna la sera… sono stanchissima!
Arrivo al San Camillo alle 6h30. Scopro che l’ambulatorio apre alle 8. Fanno andare prima le ragazze perché così appena aprono consegnano le carte per chi è lì per la prima volta; se sei assente in questa distribuzione che avviene dalle 8 alle 8h15… sei fuori! Ok, metodo di merda, ma è comunque un metodo. Ma l’ambulatorio è chiuso per davvero… nel senso che siamo 7 ragazze, fuori, sotto la pioggia ad aspettare l’apertura delle porte di vetro oltre le quali si vede già tutta la gente all’interno. E mi sembriamo ree, lì in attesa di estirpare una colpa. Aprono le porte e mi infilo in questa catena di montaggio… stanza 1 consegna primo foglio, stanza 2 consegna altri documenti, stanza per ecografia e la tipa che grida: “Sei fuori!”
Ok, adesso sono in una partita di baseball.
“Scusi, cazzo vuol dire che sono fuori?”
“Che non ce la fai a prendere la pillola”
“Ok, lei però si limiti a dirmi se potenzialmente sarei in tempo”
“Ma le ho detto che non ce la fa, qui abbiamo le liste d’attesa, la infilo nella prassi del chirurgico”
“Senta, mi dia la diagnosi delle settimane di gestazione, che provo altrove”
“Lei è a 6 settimane + 1 giorno, avrebbe 6 giorni ancora, ma qui non è possibile e non pensi di poter trovare una struttura che le riservi un trattamento migliore”
“Mi dia l’ecografia e stia zitta”
“Non si può, è un documento privato”
“La MIA ecografia è un SUO documento privato?”
Finisco nella prassi di “quella che se ne vuole andare” come gridava quella deficiente di infermiera per il corridoio alle sue colleghe. Non tutte sono così idiote, ad alcune spiego le mie intenzioni, capiscono, mi appoggiano e mi fotocopiano in segreto l’ecografia con le settimane di gestazione.
Secondo step: consultorio della Garbatella per il certificato legale e poi Bologna.
“Mi spiace, non c’è la ginecologa oggi”
“Ma come, avevo chiamato ieri, avevo detto per cosa dovevo passare…” Vabbè, si fanno perdonare in fretta… sono due angeli e mi aiutano tantissimo. Le loro informazioni sono completamente scorrette; il San Camillo stesso ha fatto circolare un documento in cui il limite previsto per la RU846 è di 5 settimane + 5 giorni; sto 10 minuti a spiegare alle infermiere che non è così. Chiamano il San Camillo per conferma. Ovviamente, ho ragione io! Chiamano ogni consultorio di Roma per sapere se c’è un ginecologo o una ginecologa disponibili… Nessuno… in tutta Roma, pare che i ginecolog* siano tutt* in aggiornamento/conferenza/vacanza/cazzo ne so! E non solo non ci sono ginecolog* disponibili, ma ovviamente ogni infermiera ha diverse indicazioni sulle procedure per cui ogni volta è un combattere per far valere la nostra versione e non la loro! Trovata una… che a quanto dicono le infermiere è anche la coordinatrice di tutto il settore ginecologico di Roma: ‘sta beneamata sostiene che il certificato fatto a Roma non abbia valore in Emilia Romagna… e meno male che sei la responsabile di ‘sta cippa, ignorante!
[comunque, prima di arrivare al consultorio della Garbatella, da casa, ho chiamato io stessa vari altri consultori; a Roma funziona che in base a dove abiti ti devi rivolgere al consultorio della tua circoscrizione, per cui avevo una serie di indirizzi falsi, (domicilio) da dare in base al consultorio che chiamavo… cacchio me ne frega!... annotazione: uno dei peggiori che ho trovato è il consultorio spenser, della circoscrizione della Prenestina: loro risposta “Possiamo farti venire non prima del 17 per farti parlare con l'assistenza sociale e il 18 con la ginecologa”… e il 19 con quello stronzo di tuo fratello!!! ]
Quando non ci credevo più neanche io, troviamo la dott. Maiocchetti. Fantastica… dice di correre da lei. Si tratta del consultorio di Via Silone 100, 3 ponte (metro Laurentina, bus 776); ho un’ora e mezza di tempo prima che chiuda. CORRO! Arrivo, compilo le carte, mi firma il certificato segnando la postilla urgenza… e non “La invitiamo a pensarci 7 giorni” ; scambiamo due chiacchiere… ci lamentiamo entrambe di questo trattamento riservato alle donne, è uno schifo… nella Asl non sono autorizzate a dare la RU846 ma possono fare l’ IGV chirurgico… incredibile! Dobbiamo lottare, dice lei, sì cara dottora, dobbiamo lottare!
[altro post: all’ospedale di Sant’Andrea, sono stata 15 minuti a spiegare la differenza alla tipa con cui ho parlato tra una 'pillola del giorno dopo' che si dà al Pronto soccorso in codice bianco e la RU846!!!]
L’infermiere della Garbatella aveva anche richiamato l’ospedale di Bologna, per avere conferma del fatto che se fossi stata presente il giorno dopo, mi avrebbe subito inserito nella pratica dell’IVG farmacologica. Dicono di sì, ma che devo assolutamente essere alle 8 del mattino al centro d’analisi in Via Marconi 35 e poi da lì sarei stata trasferita al Maggiore.
Prendo il primo treno… merda quanto costa! Arrivo a Bologna la sera… sono stanchissima!
10/10
Ospedale Maggiore, dai sono al Nord, saranno stereotipi, ma mi sento già più al sicuro. Arrivo a via Marconi… il numero 35 non esiste! Chiamo l’ospedale.
“Senta, io non ho segnato il suo nome, ma lei ieri con chi ha parlato? Perché è al Marconi, che c’entra?”
“Ma come con chi ho parlato? Voi avete il telefono in mezzo alla strada e chiunque passa può rispondere scusi?”
“Io qui sono la responsabile e le dico che non deve far nulla di quello che ‘non so chi’ le ha detto di fare. Ora la segno, venga qui all’ospedale alle 10h30”
Ok, sono in ospedale… aspetto… aspetto… la ginecologa non c’è… le infermiere non la trovano. Ne cercano un’altra… una certa Adelaide. Dopo 4 ore d’attesa, mi fa entrare mi fa un’altra ecografia. 6+4. Ma come 6+4… ieri era 6+1!
“Lo so, ma ogni macchinario ha la sua sensibilità e dato che devo essere io a firmare l’autorizzazione io faccio riferimento ai miei macchinari”
“La sensibilità dei macchinari?? La mia vita è nella mani della sensibilità di un macchinario? Senta, io sono venuta apposta da Roma perché mi era stato garantito che ce l’avrei fatta qui”
“Se fosse stata a 6+1 ce l’avrebbe fatta ma oggi non si può fare, giovedì non le facciamo (????) e poi c’è il week-end (??????) e quindi salta a lunedì e lei non è più in tempo. Vada a prendere l’appuntamento per il chirurgico”
Inizio a sospettare che prendano soldi per ogni chirurgico che fanno! Nel frattempo sento ridere le infermiere di me e del mio esser venuta da Roma. Che faccio, entro e spacco tutto? No, non ti preoccupare, ci penserà il karma, tu continua per la tua strada! Mi prenoto l’appuntamento per il chirurgico, non si sa mai. Nel frattempo però, qualche giorno prima, avevo chiamato Lamezia (unico ospedale della Calabria a fornire il servizio), mi avevano risposto di richiamare oggi. La dottoressa sembra super gentile, mi dice di correre lì, non c’è alcun problema. Vabbè, tutte così hanno detto, poi qualcosa succede sempre. Prenoto un aereo, tanto sono così stanca e poco fiduciosa che male che va, e male andrà, torno a Cosenza, a casa mia a far finta per qualche giorno che sia stato solo un incubo. Arrivo a Lamezia a mezzanotte, vado in albergo, la mattina dopo sono in ospedale.
Finisco subito nel sistema della RU846 senza accorgermene (Fantastica dottora Ermio!)… analisi, nuova ecografia, ordinato ricovero e mi ritrovo con la pillola in mano.
Ospedale Maggiore, dai sono al Nord, saranno stereotipi, ma mi sento già più al sicuro. Arrivo a via Marconi… il numero 35 non esiste! Chiamo l’ospedale.
“Senta, io non ho segnato il suo nome, ma lei ieri con chi ha parlato? Perché è al Marconi, che c’entra?”
“Ma come con chi ho parlato? Voi avete il telefono in mezzo alla strada e chiunque passa può rispondere scusi?”
“Io qui sono la responsabile e le dico che non deve far nulla di quello che ‘non so chi’ le ha detto di fare. Ora la segno, venga qui all’ospedale alle 10h30”
Ok, sono in ospedale… aspetto… aspetto… la ginecologa non c’è… le infermiere non la trovano. Ne cercano un’altra… una certa Adelaide. Dopo 4 ore d’attesa, mi fa entrare mi fa un’altra ecografia. 6+4. Ma come 6+4… ieri era 6+1!
“Lo so, ma ogni macchinario ha la sua sensibilità e dato che devo essere io a firmare l’autorizzazione io faccio riferimento ai miei macchinari”
“La sensibilità dei macchinari?? La mia vita è nella mani della sensibilità di un macchinario? Senta, io sono venuta apposta da Roma perché mi era stato garantito che ce l’avrei fatta qui”
“Se fosse stata a 6+1 ce l’avrebbe fatta ma oggi non si può fare, giovedì non le facciamo (????) e poi c’è il week-end (??????) e quindi salta a lunedì e lei non è più in tempo. Vada a prendere l’appuntamento per il chirurgico”
Inizio a sospettare che prendano soldi per ogni chirurgico che fanno! Nel frattempo sento ridere le infermiere di me e del mio esser venuta da Roma. Che faccio, entro e spacco tutto? No, non ti preoccupare, ci penserà il karma, tu continua per la tua strada! Mi prenoto l’appuntamento per il chirurgico, non si sa mai. Nel frattempo però, qualche giorno prima, avevo chiamato Lamezia (unico ospedale della Calabria a fornire il servizio), mi avevano risposto di richiamare oggi. La dottoressa sembra super gentile, mi dice di correre lì, non c’è alcun problema. Vabbè, tutte così hanno detto, poi qualcosa succede sempre. Prenoto un aereo, tanto sono così stanca e poco fiduciosa che male che va, e male andrà, torno a Cosenza, a casa mia a far finta per qualche giorno che sia stato solo un incubo. Arrivo a Lamezia a mezzanotte, vado in albergo, la mattina dopo sono in ospedale.
Finisco subito nel sistema della RU846 senza accorgermene (Fantastica dottora Ermio!)… analisi, nuova ecografia, ordinato ricovero e mi ritrovo con la pillola in mano.
Conclusioni:
1. Il primo che mi dice che gli ospedali funzionano meglio al nord che al sud, lo meno!
2. Dicono che i vari impedimenti siano finalizzati a far riflettere la donna su quello che sta per fare… ma a me è capitato tutto il contrario. Non ho avuto un attimo di pausa e sono arrivata a prendere ‘ste pillole, come l’acqua di un fiume arriva alla foce del mare… senza alcuna consapevolezza. Ma la consapevolezza è tempo e del tempo, noi donne siamo state private!
2. Dicono che i vari impedimenti siano finalizzati a far riflettere la donna su quello che sta per fare… ma a me è capitato tutto il contrario. Non ho avuto un attimo di pausa e sono arrivata a prendere ‘ste pillole, come l’acqua di un fiume arriva alla foce del mare… senza alcuna consapevolezza. Ma la consapevolezza è tempo e del tempo, noi donne siamo state private!
Qui, in ospedale a Lamezia, ci sono statue di Madonne dappertutto,
c’è la cappella… penso non sia proprio legale tutto ciò. Sono circondata
da donne incinta ma l’unico mio pensiero è che sono stanca… davvero
stanca!
Alcuni consigli per finire : non delegate! Per quanto le vostre amiche e i vostri amici vi vogliano bene, non avranno mai la cura che avrete voi nel raccogliere le info. Ed in più, la colpa non sarà loro, ma di questo mare di informazioni contrastanti sull’argomento (non hanno le idee chiare quelle che lavorano nel campo, figuriamoci le vostre amiche). In mille vi diranno frasi inutili del tipo : “Ma perché non sei andata a Firenze, ma perché non sei andata al Sant’Orsola?” Non date retta… ogni scelta che prendete è un rischio che può costarvi caro, per cui le possibilità sembrano infinite (ed in realtà sono veramente limitate). Fidatevi delle info che voi stesse avete recepito e ovviamente del vostro istinto! Non date retta soprattutto a chi vi dice le solite frasi del cavolo “Dovevi fare attenzione” oppure “Ma scusa, non hai usato precauzioni?” sono persone che forse si accorgeranno di quanto fuori luogo fossero in quel momento, ma voi non avete tempo da perdere, avete cose più importanti a cui pensare!
Alcuni consigli per finire : non delegate! Per quanto le vostre amiche e i vostri amici vi vogliano bene, non avranno mai la cura che avrete voi nel raccogliere le info. Ed in più, la colpa non sarà loro, ma di questo mare di informazioni contrastanti sull’argomento (non hanno le idee chiare quelle che lavorano nel campo, figuriamoci le vostre amiche). In mille vi diranno frasi inutili del tipo : “Ma perché non sei andata a Firenze, ma perché non sei andata al Sant’Orsola?” Non date retta… ogni scelta che prendete è un rischio che può costarvi caro, per cui le possibilità sembrano infinite (ed in realtà sono veramente limitate). Fidatevi delle info che voi stesse avete recepito e ovviamente del vostro istinto! Non date retta soprattutto a chi vi dice le solite frasi del cavolo “Dovevi fare attenzione” oppure “Ma scusa, non hai usato precauzioni?” sono persone che forse si accorgeranno di quanto fuori luogo fossero in quel momento, ma voi non avete tempo da perdere, avete cose più importanti a cui pensare!
Non vi arrendete al primo o alla prima che vi dice che non siete in
tempo. La legge è 49 giorni (nel senso che entro il 49esimo bisogna
prendere la prima pillola), tentate tentate tentate!
Per chi vi ostacolerà non v’è differenza tra il chirurgico e il
farmacologico… tanto il corpo è vostro, che gli frega a loro! Invece il
vostro corpo è importante e va trattato con riguardo! Penso a chi ha un
lavoro o a chi non ha i soldi per affrontare gli spostamenti che ho
dovuto affrontare io! Penso a chi non ha la forza d’animo per combattere
sola contro questo sistema… o a chi semplicemente avrebbe bisogno di
tempo e pace per prendere questa decisione.
Penso a tutte voi e la mia rabbia diviene infinita!
mercoledì 18 settembre 2013
Su depressione, sperma e sesso orale – la ricerca
Da Intersezioni
Avrei voluto intitolare questo post: “Donne, la depressione si può curare facendo sesso orale: fatevela leccare!”, sarebbe stato di impatto, ma dato che la depressione è un disturbo serio nessun@ è autorizzat@ a scrivere stupidaggini in merito.
Avrei voluto intitolare questo post: “Donne, la depressione si può curare facendo sesso orale: fatevela leccare!”, sarebbe stato di impatto, ma dato che la depressione è un disturbo serio nessun@ è autorizzat@ a scrivere stupidaggini in merito.
Solo un@ specialista (medic@ di medicina
generale, psicolog@ o psichiatra) può diagnosticare il disturbo
depressivo e aiutarvi a guarire con il metodo a voi più congeniale,
metodo che nulla ha a che vedere con l’ingestione di sperma. Non solo
fare pompini non fa guarire dalla depressione, ma farli senza protezione
ci espone al rischio di contrarre ogni tipo di malattia sessualmente
trasmissibile. Oltre a continuare ad essere depresse rischiamo
seriamente di contrarre AIDS, HpV, Erpes, epatiti e altre malattie non
mortali, ma che ci costringono a lunghe cure mediche (le quali,
piuttosto, favoriscono il calo d’umore).
Comunque farvela leccare non vi deprimerà, se vi dovesse deprimere provate a spiegare come vi piace, se proprio non funziona potete sempre cambiare lingua. Un post divertente e intelligente sulle proprietà rallegranti del cunnilinguo è già stato scritto qui.
Comunque farvela leccare non vi deprimerà, se vi dovesse deprimere provate a spiegare come vi piace, se proprio non funziona potete sempre cambiare lingua. Un post divertente e intelligente sulle proprietà rallegranti del cunnilinguo è già stato scritto qui.
Questo post nasce per fare chiarezza sulle tesi riguardanti le proprietà antidepressive del pompino con ingoio – di questo si tratta – portate avanti da questo articolo
(opportunisticamente linkato e fatto rimblazare da quanti non riescono
ad ottenere questa pratica da mogli e compagne). Il pezzo blatera di
depressione e sperma, ossia di me, voi, noi che guariamo dalla
depressione spremendo cazzi con la bocca, pura disinformazione medica di stampo goliardo-maschilista.
L’articolo che rimbalza qui e lì, ma
vedremo nel prossimo post che si tratta solo dell’ultimo di una lunga
serie di articoli che hanno funzionato da telefono senza fili,
fa riferimento a una ricerca condotta nell’aprile del 2001 da una
ricercatrice e due ricercatori della State University di New York, sita
in Albany, N.Y., intitolata “Lo sperma ha proprietà antidepressive?”,
recuperabile in pdf qui, pubblicata sulla rivista di sessuologia Archives of Sexual Behavior
nel 2002. Ad esso sono giunta tramite questa chiave di ricerca su
google: “State university New York+sperm and depressive disorder”, di
non difficile combinazione.
La questione della reperibilità è molto
importante, perché ci permette di vedere con chiarezza dove finisce la
ricerca e dove iniziano maschilismo e disinformazione.
Le parti dall’inglese che seguono sono state tradotte da me.
Le parti dall’inglese che seguono sono state tradotte da me.
Un po’ di luce sulla ricerca.
domenica 11 agosto 2013
Da quante cose viene definita una donna?
Gli acquerelli di Jay ci dicono che:
Dal suo blog:
“Le donne sono fantastiche, non sei d’accordo?Volevo fare una semplice collezione di belle donne in acquerello, così l’ho fatta. Ho deciso di aggiungere del testo di accompagnamento per dargli una voce. Il mio intento non era quello di abolire ogni stereotipo, ma semplicemente di illustrare donne di varie personalità, tipi di corpo, età ed etnie. Ogni donna è bella!”
E’ la semplice idea di Jay, 20 anni, trans e queer, che studia illustrazione al Ringling College of Art and Design a Sarasota, in Florida.
venerdì 9 agosto 2013
Sul Decreto Legge strumentale alla repressione di Stato e al mantenimento del Governo - contro le donne
Metto qui, di seguito, alcuni post che condivido sul Decreto Legge (il cui testo per intero ancora non è in rete) approvato dal Consiglio dei Ministri, che in teoria dovrebbe contrastare la violenza sulle donne (soprattutto se sei moglie e madre), senza porre in atto NESSUNA prevenzione, trattando esclusivamente di inasprimento delle pene (ma le carceri non erano affollate?), aggravanti e ritorno alla minorità delle donne - per le quali si querela d'ufficio e non c'è possibilità di ritirare la denuncia - quindi si denuncerà molto meno. Magicamente tratta anche di cantieri violati - perché serve un decreto contro la violenza sulle donne per fermare la lotta notav - per cui Marta la si può manganellare e palpeggiare tranquillamente e con lei tutte quelle che lottano per i diritti propri e di tutt@.
Da Abbatto i Muri:
Il Decreto Legge approvato dal Consiglio dei Ministri con norme a contrasto della violenza sulle donne, così come lo vediamo pubblicizzato nei media [1] [2] [3] [4], ha un approccio paternalista e autoritario alla questione, non tiene conto delle proposte delle persone, delle stesse donne che da tanto si occupano del fenomeno e, sul piano della propaganda, impone un piano repressivo inefficace, brandisce aggravanti senza senso e spaccia per nuove alcune soluzioni che esistono già.
Non viene finanziato alcun Osservatorio, utile ad analizzare e definire il fenomeno prima di assumere qualunque decisione, è basato sull’impostazione già espressa dai Ministri Alfano e Cancellieri con l’aiuto della consulente Isabella Rauti per la Violenza di Genere, con l’accordo della vice ministro del Lavoro Dottoressa Guerra che ha già chiarito come le donne vanno tutelate in quanto “risorsa”.
Non stupisce perciò la proposta di aggravanti che colpirebbero uomini che fanno violenza su mogli, madri e ancor meno stupisce l’aggravante per chi userebbe violenza su una donna incinta. Quel che si vuole tutelare, evidentemente, non è la persona ma un ruolo di genere preciso. La lotta contro il femminicidio è dunque rivolta contro chi colpisce donne, madri e mogli, inficiandone la possibilità di essere “risorsa” per la propria peculiarità riproduttiva e il proprio ruolo di cura.
Il Decreto, da quel che si legge, nonostante la difficoltà a reperirne il testo integrale, non si esprime in relazione alla violenza di genere nel suo complesso, includendo gay, lesbiche, trans, migranti rinchiuse nei Cie e separa le vittime in sante e puttane, donne sterili e gravide, soggetti comunque deboli, infantili, incapaci di intendere e volere che incorrerebbero in richiami e sanzioni autoritarie nel caso in cui volessero ritirare una querela.
L’idea della “certezza della pena”, mutuata dalle politiche di destra, con proposta di delazione/segnalazione anonima per denunciare il violento, non ha niente a che fare con un piano preventivo che non interessa il governo. Non interessa investire nella cultura, nell’utilizzo delle reti territoriali esistenti, non interessa in assoluto mettere in discussione gli stessi inneschi culturali che producono discriminazione e violenza nei confronti delle donne. Anzi tali inneschi vengono decisamente riprodotti.
In più il Decreto passa da un argomento all’altro e, coerentemente con l’idea che è sulle forze dell’ordine che decidono di investire invece che su altro, da quel che leggiamo si occupa anche di rafforzare le misure repressive contro chi si oppone in Val Susa alla realizzazione della Tav. Si parla di messa in sicurezza dei cantieri che si traduce in una maggiore militarizzazione ed espropriazione di quel territorio. In più sono previste punizioni più severe per chi osa varcare i confini dell’area in cui è realizzato il cantiere.
Il governo ottiene così consenso su una misura repressiva con l’alibi di norme in difesa delle donne. La lotta contro la violenza sulle donne può essere realizzata legittimando autoritarismo e repressione? E’ possibile allearsi con chi autorizza le forze dell’ordine a manganellare ed arrestare gli/le attivist* #NoTav in nome della lotta contro la violenza sulle donne?
Questo governo si occupa così tanto delle donne che le usa per legittimare soluzioni repressive contro quelle che non restano a casa a fare da madri e mogli. Dunque se resti a casa a svolgere il tuo ruolo di cura forse qualcuno ti dedicherà due righe fingendo di tutelarti. Se invece vai in piazza a rivendicare diritti e a difendere la Val Susa sei cattiva e meriti di essere manganellata.
Sarebbe opportuno, adesso, che tutte le donne che hanno chiaro quello che sta succedendo in Italia sulla pelle delle donne, giacché viene strumentalizzato un tema importante per tante tra noi, si esprimessero e prendessero le distanze dalle posizioni del governo.
E’ questo il momento in cui tante e tanti dovremmo fare sentire la nostra voce perché innanzitutto chi decide di varare un decreto legge su un tema che ci riguarda dovrebbe consultarci e non pianificare strategie che servono solo a fare apparire forte, legittimo, un governo che non è riuscito a fare nulla di concreto per i cittadini e le cittadine che dice di rappresentare. Un governo che giudica prioritaria la costruzione di un’opera inutile e dispendiosa (la Tav Torino-Lione) alla realizzazione di piani concreti che parlino di diritto al reddito, alla casa, alla gratuità di servizi, che aiutino uomini, donne, tantissime persone sempre più piene di problemi economici.
Sono una donna vittima di violenza e non mi interessa l’approvazione di un decreto legge che sancisce un principio: se voglio strumenti di difesa devo innanzitutto legittimare i tutori che useranno i manganelli contro compagni, compagne e amiche che lottano in Val Susa.
Ci sono altre persone, donne, uomini, persone, che hanno voglia di dire con me che tutto ciò non può avvenire in nostro nome?
Not in my name!
Grazie!
Da dumbles
Oggi hanno partorito il mostroide. Con gran clamore di Evviva! Bene! Bravi! Il governo Letta ha mostrato il costrutto giuridico cioè il DL di prevenzione e contrasto alla violenza di genere.
Tutto il peggio di quello che temevamo, cui avevamo accennato qui: procedimento senza querela di parte, irrevocabilità della querela, delazione, inasprimento delle pene… insomma un dispositivo incardinato sostanzialmente su due principi: irrilevanza della volontà delle donne (la mancanza di querela di parte corrisponde a questo) e logica “carcerocentrica” come la chiama l’Unione delle camere penali cui pure questo DL non piace perchè demagogico ed inquietante.
…Se è inquietante per loro, figuriamoci per noi…
Ecco, non a caso, nel gioiello di sensibilità verso le donne è ben incastonato un articolo che prevede l’inasprimento delle pene per l’accesso abusivo nei cantieri; quali cantieri? Ma quelli NoTav ovviamente!
Eh già… se “l’assassino ha le chiavi di casa”, può essere che ha anche quelle del cantiere…
D’altra parte è anche vero, visto le violenze e le violazioni sessuali cui è stata sottoposta Marta, militante NoTav.
E qui il picchiatore e molestatore è mandato da chi ti fa il DL a contrasto della violenza di genere.
Il governo delle larghe intese ha trovato il modo di far intendere che difende le donne mentre le considera zero e se ti rompono le scatole (i cantieri) anche le meni. Bene! Bravi! e fess* chi ci crede.
Da Lipperatura:
No, non mi piace. Parlo del decreto legge sul femminicidio così come è stato raccontato. Premetto che non ho avuto modo di studiarlo nei dettagli, e che la sensazione che ho è che la ex ministra Idem avesse un’idea molto diversa (altrimenti, perché convocare le associazioni che si battono contro la violenza, giusto qualche settimana prima di essere messa alla gogna e costretta a farsi da parte?).
Non mi piace perché è un decreto repressivo. E molte di noi hanno detto e ripetuto che nessuna repressione e nessun giro di vite porterà a risultati se non si insiste sulla prevenzione. Scuola. Formazione degli educatori. Libri di testo delle elementari. Educazione al genere, all’affettività, alla sessualità. Da subito. Di questo non si parla.
Non mi piace perché non si parla di centri antiviolenza, e tantomeno della loro moltiplicazione e finanziamento, da quanto è dato almeno capire. Non si parla di centri di ascolto per uomini abusanti. Non si cerca di capire, formare e prevenire, ma si pigia sul pedale della guerra fra i sessi, fornendo a chi ancora sputa la parola femminicidio come una caramella mal masticata ottimi argomenti per parlare di espediente securitario.
Non mi piace perché glissa sugli strumenti fondamentali: un osservatorio che monitori i femminicidi, dicendoci quanti sono e come avvengono. Fin qui, le indagini statistiche, come detto centinaia di volte, sono incomplete e generiche.
Non mi piace perché, come ha dichiarato Michela Murgia, la non revocabilità della querela “è una grande responsabilità che lo Stato si assume perché chi impedisce alla vittima di revocare la denuncia deve poter garantire che l’inasprimento degli abusi non ci sarà. O che se ci sarà, la donna verrà protetta. Lo dico perché nella stragrande maggioranza dei casi dal momento della querela le cose per chi ha subito violenze cominciano a peggiorare”. Non solo, aggiunge Michela, “io ho sempre creduto che una donna debba avere la libertà di decidere se vuole o meno denunciare. Per questo non sono molto d’accordo con la procedibilità d’ufficio che prevede anche che possa essere il pronto soccorso a inviare una segnalazione a polizia e carabinieri. Questo vale ancora di più oggi: se una donna, a un certo punto, non se la sente di continuare l’iter processuale, deve poter fare un passo indietro. Non è giusto trasferire questo diritto alle forze dell’ordine. È un’ulteriore sottrazione che si fa a chi di violenze già ne ha subite parecchie”.
Non mi piace perché, come ha scritto Concita De Gregorio, “dire che la pena sarà di un terzo più severa nel caso in cui le vittime siano incinte o mogli o compagne o fidanzate del carnefice è comprensibile, dal punto di vista del legislatore, perché sì che battere una donna che aspetta un bambino o che ha un vincolo di fiducia con chi la aggredisce è più grave. Ma stabilisce anche una discriminazione culturalmente delicatissima verso le donne che non fanno figli e non hanno legami con un uomo. In che senso uccidere una donna non sposata e non madre è meno grave? Vale forse di meno per la società?”.
Non mi piace, perché come ha scritto Enza Panebianco, inserisce misure repressive nei confronti della lotta NoTav, di punto in bianco: ” il Decreto passa da un argomento all’altro e, coerentemente con l’idea che è sulle forze dell’ordine che decidono di investire invece che su altro, da quel che leggiamo si occupa anche di rafforzare le misure repressive contro chi si oppone in Val Susa alla realizzazione della Tav. Si parla di messa in sicurezza dei cantieri che si traduce in una maggiore militarizzazione ed espropriazione di quel territorio. In più sono previste punizioni più severe per chi osa varcare i confini dell’area in cui è realizzato il cantiere. Il governo ottiene così consenso su una misura repressiva con l’alibi di norme in difesa delle donne. La lotta contro la violenza sulle donne può essere realizzata legittimando autoritarismo e repressione? E’ possibile allearsi con chi autorizza le forze dell’ordine a manganellare ed arrestare gli/le attivist* #NoTav in nome della lotta contro la violenza sulle donne?”
Non mi piace perché, a quanto si legge, ha utilizzato la lotta di chi si oppone ai femminicidi e alla violenza sulle donne in chiave rassicurante, consolatoria, paternalista. Perché ha usato quella lotta come un fiore all’occhiello per legittimare l’operato di un governo che definire criticabile è poco.
E’ un passo, mi dicono amiche e compagne di strada. Per me, è un passo falso, compiuto di fretta e compiuto male. In una parola, servirà a poco. La battaglia è culturale, inclusa quella al cyberstalking.
Mi auguro che esista la possibilità di discuterne ancora, nonostante tutto.
giovedì 1 agosto 2013
Andrea.
Perché non cada nel vuoto, perché non si dimentichi.
Storia di Andrea, “la trans di Termini” massacrata alla stazione -
Storia di Andrea, “la trans di Termini” massacrata alla stazione -
La mattina del 29 luglio il suo corpo pieno di lividi e ferite è stato trovato abbandonato al binario 10.
Andrea aveva solo 28 anni. Sei giorni prima di morire ci aveva raccontato le sue paure e le sue speranze.
Nonostante tutto.
31 luglio 2013
Fonte redattoresociale.it
Chissà a cosa pensava Andrea ogni notte prima di addormentarsi sopra il suo cartone davanti alla stazione Termini di Roma. Forse pensava alla famiglia in Colombia, a sua madre e a suo padre lasciati quattro anni fa per trovare fortuna in Italia. Forse avrebbe voluto chiamarli, dirgli che la vita non era esattamente come aveva sognato da bambino, quando era ancora un maschio, raccontargli delle botte prese, del braccio rimasto paralizzato, della gamba che si muove a fatica. O forse semplicemente sprofondava subito nel sonno. Era troppo stanca e delusa per pensare.
31 luglio 2013
Fonte redattoresociale.it
Chissà a cosa pensava Andrea ogni notte prima di addormentarsi sopra il suo cartone davanti alla stazione Termini di Roma. Forse pensava alla famiglia in Colombia, a sua madre e a suo padre lasciati quattro anni fa per trovare fortuna in Italia. Forse avrebbe voluto chiamarli, dirgli che la vita non era esattamente come aveva sognato da bambino, quando era ancora un maschio, raccontargli delle botte prese, del braccio rimasto paralizzato, della gamba che si muove a fatica. O forse semplicemente sprofondava subito nel sonno. Era troppo stanca e delusa per pensare.
Certo, non immaginava di morire da sola, ammazzata a bastonate e
forse a coltellate nella stazione che era diventata la sua casa. Andrea
aveva solo 28 anni. La mattina del 29 luglio il suo corpo pieno di
lividi e ferite è stato trovato abbandonato al binario 10.
Tra i viaggiatori che ogni giorno correvano a prendere il treno alla stazione pochi facevano caso a lei. Per tutti era la trans di Termini, quella che passava le sue giornate lungo i binari o davanti all’ingresso della stazione
a raccogliere le cicche nei portacenere per racimolare un po’ di
tabacco. Un’altra disperata senza nome e senza storia che andava a
riempire le file del popolo dei senzatetto della stazione.
Non parlava con chiunque Andrea, non dava confidenza facilmente. La
maggior parte del tempo se ne stava seduta a fissare il vuoto. Oppure si
trascinava, un passo alla volta, stando attenta a non perdere
l’equilibrio, verso la pensilina dell’autobus 714 che l’avrebbe portata
alla mensa della Caritas di Colle Oppio a consumare il primo pasto della
giornata.
Quando capiva di potersi fidare, però, cambiava espressione, il suo
volto bruciato dal sole che dimostrava più anni di quelli che aveva, si
illuminava. Così, sei giorni prima di morire ci ha raccontato la sua storia:
“La mia casa è Termini, dormo qui da quattro anni. La notte ho paura
che qualcuno mi metta le mani addosso”, ci aveva confidato. Andrea era
stata aggredita più volte, le avevano rubato il cellulare e il
passaporto. “A Ostia un ragazzo mi ha picchiata. Sono stata sette mesi
in coma”. Sul suo corpo era rimasto indelebile il ricordo di tutte le
botte e i soprusi subiti.
Avrebbe voluto trovare un lavoro ma sapeva che senza documenti, con
un braccio paralizzato e una gamba fuori uso, nessuno l’avrebbe mai
assunta. Forse è stata proprio la disperazione a spingerla in qualche
giro poco raccomandabile di droga o di prostituzione, come ipotizza la
polizia. Forse ha chiesto aiuto alle persone sbagliate.
Mentre sorrideva davanti alla telecamera e domandava ridendo se in video veniva bene, Andrea non pensava alla morte.
Non pensava di morire pochi giorni dopo con addosso la sua gonna rosa e
le sue scarpe da ginnastica. Lei pensava al futuro perché nonostante
tutto non aveva perso la speranza. “Vorrei incontrare un ragazzo con
tanti soldi che mi faccia lasciare la strada perché è troppa brutta”, ci
aveva detto. A ricordare il suo sorriso triste, la sua storia, la sua
vita, oggi ci sono solo due o tre senzatetto della stazione, i suoi
compagni di viaggio e nessun altro. (Maria Gabriella Lanza)
Fonte redattoresociale.it
Qui l'intervista video.
Fonte redattoresociale.it
Qui l'intervista video.
martedì 30 luglio 2013
Nessuno sa di noi – Simona Sparaco
Da Intersezioni
Nessuno sa di noi, scritto da Simona Sparaco e candidato al Premio Strega 2013, racconta il dolore di una gravidanza attesa, ma destinata a interrompersi prematuramente.
Simona Sparaco
Isbn 9788809778047
Giunti, 2013
pag. 256
€ 12,00
Nessuno sa di noi, scritto da Simona Sparaco e candidato al Premio Strega 2013, racconta il dolore di una gravidanza attesa, ma destinata a interrompersi prematuramente.
I personaggi principali del romanzo sono
Luce, una giornalista free lance che sembra non aver mai preso realmente
in mano la propria vita, Pietro, suo compagno benestante e paziente, al
quale lei si affida completamente, e Lorenzo, figlio desiderato,
immaginato, sentito, che la coppia è costretta a seppellire
prematuramente. Personaggi che agiscono in funzione del vero
protagonista: l’aborto tardivo e il suo significato per chi lo vive
dall’interno. Sullo sfondo un mondo opaco, sordo ai bisogni delle
persone, feroce.
Siamo tutte qui.
Ognuna con il proprio trofeo, più o meno in evidenza, e la cartella clinica sottobraccio. Tutte ordinatamente sedute, come a scuola per un richiamo dal preside. Qualcuna sfoglia una rivista, con l’espressione vaga e compiaciuta di chi sa che la passerà liscia. Qualcun’altra, invece, se ne sta a testa bassa, con le mani serrate in un intreccio nervoso. Come se dietro quella porta color pastello ci fosse davvero la minaccia di un’espulsione.
Siamo tutte madri nell’attesa di un’ecografia.Nessuno sa di noipag. 7Displasia scheletrica. Due parole che insieme suonano così infauste. Le digito in un motore di ricerca e non per scrivere un articolo sulla malasanità, ma per la vita di mio figlio.Nessuno sa di noi
pag. 35«Non posso suggerirvi un’interruzione di gravidanza» prosegue il dottor Piazza, incrociando le braccia, in un gesto di chiusura definitiva. «Anche se le condizioni del feto potrebbero rivelarsi incompatibili con la vita. In Italia è consentita solo fino alla ventitreesima settimana, non oltre.»
«Che significa?» domanda ancora Pietro, e mi stringe forte la mano.
«Se rientrassimo nei limiti di legge, potrei proporvi di anticipare il parto. Alla ventitreesima settimana e in queste condizioni, il feto non ce la farebbe. Stiamo parlando di un aborto conosciuto come terapeutico o eugenetico. Ma nel vostro caso siamo ben oltre i termini consentiti.»
Parla ancora al plurale. Questa volta di sopravvivenza, di leggi e limiti. Il pronome è sbagliato, però, non c’è un noi in questa stanza. O forse sì; noi siamo io e Lorenzo.
«Mi faccia capire» lo esorta Pietro. E’ pallido, deglutisce a fatica, si muove nervoso sulla sedia, non come la madre, che mantiene la testa alta e la schiena dritta. «Queste malattie così gravi e incompatibili con la vita si possono scoprire solo quando si è arrivati così avanti con la gravidanza che non si può più interrompere?»
«Per interruzione, in questo paese, si intende la possibilità di anticipare il parto. Il limite è stabilito in base all’autonomia del feto rispetto al ventre materno. Un feto di ventitré, anche di ventiquattro settimane, non sopravvive al di fuori dell’utero e può essere quindi abortito.»
Il dottore ci guarda, forse in attesa di una reazione. Ma siamo tutti e tre ammutoliti. «A dire la verità» riprende, come se si sentisse in dovere di precisare «ci sono stati casi in cui feti abortiti sono spravvissuti ugualmente, perché le tecniche di assistenza neonatale progrediscono di anno in anno, e per legge un medico ha il dovere di metterle in pratica qualora ce ne fosse bisogno. Un feto abortito che sopravvive è però un feto con una grave patologia a cui si aggiunge una serie di problematiche legate al fatto che è nato pretermine, per dirvela in parole chiare. Ed è per questo che a livello parlamentare si sta pensando di abbassare ulteriormente il limite consentito a ventidue settimane.»
Sono travolta da flash di bambini microscopici e malati costretti al sacrificio crudele di venire al mondo, solo per esalare il loro primo e ultimo respiro. O che riescono a sopravvivere al parto, e crescono, isolati, malnutriti, dentro un’incubatrice, nient’altro che un ventre di plastica, asettico e rigido, che li accoglie invece di ripudiarli.
«Noi siamo alla ventinovesima settimana» riassume Pietro, stringendo la mia mano ancora più forte. «Abbiamo davanti ancora due mesi abbondanti. Ma lei mi sta dicendo che mio figlio potrebbe non farcela, oppure, da quello che so, andare incontro a una vita breve, dolorosa, con dei ritardi cerebrali, o peggio, un quoziente intellettivo al di sopra della norma?»
«Lo so.»
«E allora?» lo incalza Pietro. Ha gli occhi fissi sul dottore. Il panico si sta trasformando in rabbia e in sfida. Mi lascia andare la mano. Sento la sua presa salda venire meno un dito alla volta. Il bottone del pulsante che s’allenta, l’emicrania che mi spacca in due la scatola cranica. Impazzisco. Mi spengo.
«E allora» ripete il dottor Piazza inarcando le sopracciglia «sarà fatta la volontà di Dio.»Nessuno sa di noi
pag. 54-55
Numerose sono le critiche piovute su
questo libro a causa dello stile non particolarmente brillante, con
personaggi abbozzati o troppo stereotipati che agiscono meccanicamente. E
pure, spostandoci dal piano della pura critica letteraria a quello del
solo contenuto, Nessuno sa di noi, colpisce perché si fa carico
di una tematica tabu, l’aborto in fase avanzata, senza sconti emotivi,
mettendoci di fronte ai dubbi e al dolore di una donna, e di una coppia,
in fin dei conti fortunata rispetto alla media, perché potrà
permettersi un viaggio in Inghilterra, dove sarà possibile interrompere
la gravidanza oltre il termine stabilito dalla legge italiana, e avrà la
possibilità di giungere, in fine, a un nuovo equilibrio di coppia e
personale. In questo senso Nessuno sa di noi offre un servizio
che si rende ormai urgente, inderogabile, alla nostra società, che
stigmatizza e oscura il ricorso all’aborto: parlare di interruzione di
gravidanza senza pregiudizi, mettendo in un angolo tutti i “se” e i “ma”
con i quali si riempiono la bocca i moralisti con la vita degli altri, i
‘coscienziosi’ detrattori del diritto alla scelta. Non dà risposte,
mette in campo la libertà di scelta, in un contesto, quello italiano, in
cui da anni il dibattito sull’aborto è inquinato a causa di interessi
politici, inciviltà e derive inquisitorie. Ma amore, coscienza e
rispetto, possono esprimersi attraverso modalità inaspettate, al di
sopra delle tifoserie del ‘pro’ e del ‘contro’.
E’ così che Nessuno sa di noi si trasforma in romanzo commovente e necessario.
Nessuno sa di noiE’ così che Nessuno sa di noi si trasforma in romanzo commovente e necessario.
Simona Sparaco
Isbn 9788809778047
Giunti, 2013
pag. 256
€ 12,00
mercoledì 24 luglio 2013
Alla periferia del maschile. Il lavoro con i "sex offenders" a Regina Coeli
Olivier Malcor, Parteciparte 24 luglio 2013 da zeroviolenzadonne
Lavorare con gli "stupratori occasionali" presenta diverse difficoltà. Una delle principali è la negazione del reato. Si considerano quasi tutti innocenti e vittime di un fraintendimento o di un complotto: "è stato un bacio mal interpretato", "il carabiniere dall'animo poetico ha romanzato la dichiarazione della donna" etc.
Negare il reato per loro ha un costo alto davanti alla legge. Non beneficiano dell’alleggerimento di circa un terzo della pena previsto per chi si riconosce colpevole; invece di fare 4 anni ne fanno 6 per es.
Lavorare con gli "stupratori occasionali" presenta diverse difficoltà. Una delle principali è la negazione del reato. Si considerano quasi tutti innocenti e vittime di un fraintendimento o di un complotto: "è stato un bacio mal interpretato", "il carabiniere dall'animo poetico ha romanzato la dichiarazione della donna" etc.
Negare il reato per loro ha un costo alto davanti alla legge. Non beneficiano dell’alleggerimento di circa un terzo della pena previsto per chi si riconosce colpevole; invece di fare 4 anni ne fanno 6 per es.
La seconda difficoltà che emerge dal
lavoro con loro è la loro forte irritazione per una società che, da un
lato promuove e trasmette a tutti i livelli una cultura maschilista e
una visione dei ruoli maschili e femminili ben determinata, e dall’altro
si stupisce di chi ha concretizzato certi precetti, e li etichetta come
i peggiori mostri. Come non pensare all’immagine della donna nella
pornografia o alla sua versione chic nella pubblicità, o alla religione
che assegna alla donna il ruolo molto limitante di ‘costoletta
sussidiaria’ dell’uomo, o ancora ai commentatori delle partite di calcio
che invocano la necessità di “penetrare la difesa” o “violare la porta
avversaria”, solo per fare qualche esempio.
In questo contesto sarebbe di cattivo
gusto andare a dare lezioni ai detenuti su come considerare le donne. E
infatti non sono disposti a farsi dare lezioni, anzi, sono loro a “poter
aiutare chi sta fuori” e quello che chiamano “lo scontro di opinioni”
può anche finire male, visto che scelgono di fare più anni di carcere
anziché ammettere il reato.
Per questo motivo il Teatro Dell’Oppresso (TDO) si rivela un metodo privilegiato per affrontare la
violenza maschile. Il TDO aiuta le persone a far emergere ed affrontare i
disagi e le difficoltà vissute riportandole al sistema più generale che
rendono possibili questi disagi. Si parte dal materiale che si
manifesta nella spontaneità dei giochi e delle improvvisazioni. Tutto si
fa attraverso tecniche ludico teatrali.
Teoricamente il TDO si usa con le
persone più oppresse, con chi subisce un sistema oppressivo
(maschilismo, razzismo e capitalismo sono i più comuni), ma sarebbe
impossibile affrontare, smontare e sormontare il maschilismo evitando il
confronto con chi lo veicola.
Si usano tecniche graduali per mettere
in scena le situazioni in cui i detenuti si sentono in difficoltà nel
gestire le proprie emozioni, pensieri e reazioni. Si parla quindi di
disagio più che di oppressione.
Si lavora molto sulle situazioni
‘pericolose’, quelle che potrebbero far tornare in carcere. Si lavora
molto sull’approfondire la comprensione delle situazioni difficili
vissute.
Ciascuno mostra la propria scena
riguardante un problema che tocca tutti (per es. le separazioni). Come
facilitatore pongo solo delle domande per guidare l’analisi del problema
rappresentato: “Perché ha perso la pazienza in questa scena di
separazione”, “secondo voi cosa lo fa sentire giustificato a usare
questa strategia?”, “in quale momento si è azionato il pilota
automatico?” etc.
Poi si propone ai partecipanti di
mostrare cosa farebbero nei panni dell’uomo in difficoltà. “Come
gestiresti questa separazione ?”, A turno entrano in scena per mostrare
diversi modi di affrontare la situazione. Questo innanzitutto permette
loro di vedere che, per ogni situazione, non c’è una reazione meccanica
obbligatoria, un ‘dovere maschile’, un’emozione scontata, e sono loro
stessi a dimostrarlo. Infatti sono orgogliosi di mostrare che sanno
trovare alternative e soluzioni. In questo modo allargano il loro
orizzonte di possibilità e di ruoli, laddove il carcere potrebbe averlo
ristretto, condannandoli all’identità di “stupratori”. Scoprono così che
non c’è più un solo modo di rispondere a un disagio.
A volte chiedo anche di invertire i
ruoli: chi ha agito violenza deve recitare il ruolo della donna che
voleva separarsi. Mettendosi nei panni della donna, si indaga sulle
emozioni che si provano in quel ruolo e si lavora sulla nozione di
autonomia: “può una donna decidere di separarsi?”, “perché solo a certe
condizioni?”, “chi decide in quali condizioni?”. Solo gli Italiani hanno
accettato di recitare i ruoli femminili; ma tutti sono rimasti
spiazzati da questo cambiamento di prospettiva.
Tutte le scene vengono recitate dopo
aver fatto una serie di giochi ed esercizi progressivi che permettono di
uscire dalla spirale delle giustificazioni e del controllo di tutto ciò
che si esprime. Si sviluppano nuove capacità nella spontaneità e nelle
sfide da sormontare, nelle emozioni da gestire, nelle collaborazioni da
creare, si lavora sulla comunicazione e l’ascolto, molto limitati anche
dalle condizioni di detenzione. Attraverso questi giochi i detenuti
possono rendersi conto, guidati dal facilitatore, delle difficoltà che
hanno e delle necessità di lavorarci sopra.
L’obiettivo in particolare è quello di
fare emergere nella spontaneità i principali disagi affrontati nelle
relazioni tra i sessi. Alcuni disagi emergono in modo costante. Prima di
tutto la paura che la donna possa essere o diventare indifferente. Sia
l’indifferenza di una donna conosciuta, sia quella di una donna che non
si conosce affatto. Non a caso l’approccio è un tema chiave. La paura
del rifiuto, il timore di non essere all’altezza, di non “rimorchiare”
bene fanno dell’approccio un momento di alta tensione. Nell’approccio si
cerca di conquistare il consenso della donna, ma questo implica che
siano già determinati i ruoli di chi approccia e chi si fa approcciare.
Inoltre non basta un solo consenso: per es. la donna può accettare di
dire l’ora ma non di andare a bere una birra. Quindi vanno negoziati
diversi consensi.
Durante il laboratorio abbiamo vissuto
momenti bellissimi. Un detenuto molto educatamente voleva forzare una
donna a sedersi, alla fermata dell’autobus. Un altro la voleva
convincere che c’erano degli stupratori in giro da cui lei doveva essere
protetta. Insomma ci è voluto poco affinché il più maschilista di
tutti, dopo 30 anni a Regina Coeli, riconosca: “non so rimorchiare”. Da
lì è iniziato un percorso sulla capacità di entrare in relazione con
l’altro sesso molto partecipato. Ogni volta si analizzavano le nuove
modalità proposte in scena. Un giorno ha partecipato al laboratorio una
delle operatrici della Cooperativa Be Free, all’origine del progetto,
che dopo le analisi e le valutazioni dei detenuti, ha dato il suo parere
sui diversi approcci; quel parere è stato accolto dai detenuti come la
massima verità sul tema.
Anche in questo caso, lavorare
sull’approccio “pesante”, che va direttamente a sondare la possibilità
di avere una relazione sessuale, ma invertendo i ruoli tra uomo e donna,
(tra chi è attivo e chi è passivo nelle relazioni sessuali secondo gli
stereotipi) ha dato grandi risultati.
I concetti relativi al consenso e
all’autonomia sono fondamentali e il detenuto ha grande voglia di
approfondirli, purché non sia fatto in modo infantilizzante, purché
possa essere lui il perno dell’evoluzione e del cambiamento.
Probabilmente questo lavoro è stato
troppo breve per produrre risultati valutabili e pretendere grandi
cambiamenti. Ma ha permesso tuttavia di individuare le piste fertili che
consentono di evitare lo scontro improduttivo da un lato e le
collusioni rischiose dall’altro. È un lavoro che andrebbe fatto in modo
costante con i detenuti. Ma come spiegare e far capire che i detenuti
“stupratori” hanno anche bisogno di imparare a entrare in relazione con
persone di sesso diverso? Come argomentare che l’approccio, il momento
della prima conoscenza di un'altra persona, è un momento privilegiato e
complesso per tutte le dinamiche che ci si manifestano, tutti i
pregiudizi e gli stereotipi che ci entrano in gioco, tutte le emozioni
che scatena? Il TDO è un metodo privilegiato per affrontare questi temi
perché offre una palestra per lavorare su situazioni quotidiane,
normalmente poco prese in considerazione, o delicate da affrontare.
Ancora più urgente è convincere i
politici e gli amministratori che è necessario affrontare le tematiche
delle relazioni fra i sessi a partire dai ragazzi e dalle ragazze e che
bisogna cominciare questo lavoro sulla capacità di entrare in relazione
e di gestire la frustrazione delle separazioni laddove non si è ancora
consolidato il modello stereotipato al quale si aderirà. Non a caso
Parteciparte lavora molto con il TDO sugli stereotipi e sulle situazioni
conflittuali che ne scaturiscono nelle scuole.
Miriamo alla partecipazione attiva e
numerosa dei ragazzi e delle ragazze. Sono loro a creare le scene, sono
loro ad analizzare i problemi di genere, ad insegnarci quali sono le
regole del maschilismo. Regole scomode anche per i maschi. Con la
distanza che da la messa in scena, questo diventa evidente a tutte/i.
Nei laboratori i ragazzi e le ragazze
sono ben contenti di potersi confrontare liberamente su quali sono i
problemi legati al genere che vivono nella loro quotidianità, di mettere
in discussione e trasformare i modelli, di provare alternative per
costruire rapporti creativi e rispettosi e di poter essere i
protagonisti di questa ricerca e di questa trasformazione. Spesso
vogliono anche vedere come ‘l’adulto’ se la cava nelle situazioni…
Perciò più che ricette e kit
metodologici, che mi vengono spesso chiesti, credo che il facilitatore
debba essere pronto a mettersi in gioco, ad improvvisare sulle
problematiche di genere, a proporre il gioco più appropriato al momento,
ma più di tutto deve avere rielaborato anche lui i suoi vissuti
rispetto ai problemi di genere. Ho scoperto questo grazie a Maschile
Plurale, un’associazione dove si condividono esperienze, si rielaborano
vissuti, si parte da se stessi, si fa politica, con un’ottica di genere.
Negli spettacoli, dove il pubblico
interviene per provare soluzioni, quando una persona prende posizione
contro un modello o per inventarne uno diverso, lo fa in nome di tutti.
L’evoluzione è sempre decretata e celebrata dal pubblico e sembra che
sia poi difficile tornare indietro e riprodurre modelli contro i quali
si è lottato, in scena, davanti a tutti, con tanti.
Dato il duplice lavoro – di
rielaborazione del passato e di costruzione del futuro - crediamo che
abbia un’enorme rilevanza ed efficacia il lavoro sulla prevenzione,
prima di quello sul recupero in carcere con i detenuti. Anche perché
aspettare il disastro ha un costo altissimo per tutta la società.
Infatti il fenomeno della violenza
maschile sulle donne è tanto commentato, ma ben poco combattuto alle
radici. Si parla tanto di donne vittime, ma quando si parla di uomini
violenti è solo per mostrarne uno strano o straniero, uno irregolare
insomma.
Ci si potrebbe quasi chiedere se
questa comunicazione deleteria che tace i costi del maschilismo fa
comodo per ricordare alle donne più emancipate che c’è sempre un uomo
pronto a rimetterle in riga. E se i media sono i motori di questa
campagna controproducente, sarà una bella sfida per il teatro far capire
e scardinare le dinamiche politiche che sottendono il problema. Sfida
che a Parteciparte abbiamo deciso di raccogliere con spettacoli come “Da
paura”, “Amore Mio” o “Brucio d’amore”.
In pieno centro, il Carcere di Regina
Coeli ci offre la visione più completa delle periferie del maschile, ai
confini, dove si consolidano le regole più dure, quelle che giustificano
poi i reati più violenti in tutta la società. Dalla periferia al centro
questo materiale diventa un tesoro che permette di individuare alla
radice, i moti, le sentenze, le molle più discrete che potrebbero
permettere al peggio di accadere. Il Teatro Dell’Oppresso rende visibile
tutto questo, in modo che non si possa più non vedere. Ma ci permette
anche di decostruire un maschile misero che non regge più il peso di
stereotipi invivibili. Ci dà la voglia e gli strumenti per costruire un
maschile aperto, plurale, capace di accogliere l’autonomia femminile e
tutto l’arcobaleno di desideri tra i sessi.
Fonte: http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=37036
mercoledì 17 luglio 2013
Ciò che dovrebbe essere condannato sono gli atti e non le parole che servono a denunciarli
C’è necessità di una parola nuova per indicare
qualcosa che accade da sempre? Che senso ha sottolineare il sesso di una
vittima? Non è offensivo per le donne parlare di loro usando la parola
femmina, che pare “più propria dell’animale”? Perché non usare donnicidio, muliericidio, ginocidio o ciò che già abbiamo, uxoricidio? Legittimando femminicidio non provocheremo una proliferazione arbitraria di parole in -cidio?
Femminicidio: i perché di una parola
Recentemente si parla molto di femminicidio (o anche femicidio e femmicidio
e del valore delle varianti vedremo dopo) intendendo non solo
l’“uccisione di una donna o di una ragazza”, ma anche “qualsiasi forma
di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una
sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di
perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso
l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla
morte”. Abbiamo riportato la definizione di femminicidio in Devoto-Oli 2009, ma il termine è attestato anche in ZINGARELLI a partire dal 2010 e nel Vocabolario Treccani online, mentre GRADIT 2007 ha femicidio registrato anche nei Neologismi Treccani 2012 come “femmicidio o femicidio”.
Ci sono state e ancora ci sono resistenze all’introduzione del termine, quasi fosse immotivato o semplicemente costituisse un voler forzatamente distinguere tra delitto e delitto semplicemente in base al sesso della vittima; quasi fosse neologismo frutto di una delle tante mode linguistiche più che del bisogno di nominare un nuovo concetto.
In effetti ciò che viene oggi indicato da questa parola è anche storia antica, anche per il nostro paese, come nota Silvia Leonzi in A casa con il nemico pubblicato nel numero di Marzo 2013 della rivista “Il Carabiniere”:
di omicidi femminili commessi da uomini la nostra storia è tristemente piena [...] e allora, perché solo adesso si sente l'esigenza di trovare un nome specifico per questa realtà? Che cos'hanno di diverso queste morti?
Cos'è cambiato nella nostra percezione di un fenomeno tanto oscuro quanto atavico?
Una risposta possibile a questa domanda è in quanto Michela Murgia scriveva nel suo blog il 2 settembre 2012 a proposito di una notizia pubblicata quel giorno su Repubblica.it in questa forma:
Fano, uccide la moglie in un raptus di gelosia
“L'uomo [...] ha accoltellato la donna, che ha tentato di difendersi
inutilmente, dopo un violento litigio davanti ai quattro figli…”.
«Nel giornale che vorrei – scrive la Murgia – la notizia sarebbe stata data così: Fano, giovane donna uccisa a coltellate davanti ai suoi figli e poi “Arrestato l'autore del violento femminicidio: era il marito”».
Non si tratta solo di una parola in più, allora, per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi.
Quanta strada, almeno nel nostro paese, sia stata percorsa dalle istituzioni è efficacemente sintetizzato nel testo citato di Silvia Leonzi di cui si ricorda solo un passo a beneficio dei più giovani:
Non si tratta solo di una parola in più, allora, per quanto densa di significato, ma anche e soprattutto di un rovesciamento di prospettiva, di una sostanziale evoluzione culturale prima e giuridica poi.
Quanta strada, almeno nel nostro paese, sia stata percorsa dalle istituzioni è efficacemente sintetizzato nel testo citato di Silvia Leonzi di cui si ricorda solo un passo a beneficio dei più giovani:
Ed è proprio per la salvaguardia dell'onore che fino al 1981, nel nostro ordinamento, […] per un uomo [che uccide] la moglie, se colto da un impeto d'ira determinato dall'offesa recata [sono previste] pene minori rispetto a un analogo delitto di diverso movente, dal momento che l'oltraggio arrecato all'onore è ben più grave rispetto al delitto riparatore. Infatti, l'articolo 587 del Codice penale, abrogato con la Legge n. 442 del 5 agosto 1981, contempla una pena ridotta per chi uccida la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere "l'onor suo o della famiglia".
Credo che questo basti a dare conto delle proporzioni e delle
conseguenze del rovesciamento del punto di vista auspicato dalla Murgia:
non si tratta solo di parole di moda evidentemente.
Alcuni vedono nell’introduzione di femminicidio
esclusivamente la sottolineatura (forzata) dell’appartenenza della
vittima al sesso femminile, come per esempio si argomenta in un
messaggio “postato” sulla pagina Facebook di La lingua batte, rubrica settimanale di Radio3 che si è recentemente occupata di femminicidio:
La parola omicidio deve essere
eliminata dal vocabolario giuridico, ma non sostituita dalla parola
femminicidio, o da qualsiasi altra parola che indichi una violenza
mortale di genere. Siamo tutti esseri umani; perché, quindi, non usiamo
umanicidio?
A questa domanda possiamo rispondere che se ci riferiamo a una
situazione “neutra”, una donna uccisa nel corso di una rapina in banca,
si può parlare di omicidio (o magari chissà in futuro di umanicidio) ma di fronte a una notizia come questa
India, violentata e uccisa a sei
anni: Nuovo, agghiacciate caso di stupro nell'Uttar Pradesh: la piccola è
stata strangolata e gettata in una discarica (La Repubblica.it 19.04.2013)
#StigmaKills il 19 luglio 2013 a #Roma protesta contro la violenza sulle #sexworkers
ICRSE, il Comitato
Internazionale per i Diritti delle Sex Workers in Europa invita tutti i
suoi membri, le organizzazioni, gli individui, i/le professionist* del
sesso e sue/suoi alleat* a unirsi e protestare contro i recenti omicidi
di Jasmine e Dora, contro il violento attacco a Ela e contro tutti/e
i/le sex workers in Europa e nel mondo.
LA VIOLENZA CONTRO I/LE SEX WORKERS DEVE FERMARSI.
Qui l'evento facebook.
La Turchia e la Svezia sono stati, durante questa settimana, luogo di omicidi violenti alle sex workers – ma la violenza è costante e tre sex workers sono state uccise in Italia dall’inizio dell’anno. In Francia, Kassandra e Karima sono state assassinate e spinte al suicidio.
Noi chiediamo a tutti i nostri amici e familiari, di protestare contro i sistemici omicidi transfobici e contro la violenza in Turchia e in tutto il mondo. Dora, prostituta trans è stato uccisa questa settimana, ad un’altra sex workers trans in Turchia, Ela, hanno sparato; è stata gravemente ferita ed è improbabile che il suo braccio possa funzionare di nuovo. Dora è la 31esima vittima, dal 2008, transgender di un violento e mortale attacco in Turchia.
Chiediamo a tutti i nostri amici e familiari di protestare contro il modello svedese, che ha portato via i figli di Jasmine e ha dato la custodia al suo ex marito violento che infine l’ha assassinata. Gli assistenti sociali e lo Stato svedese si sono rifiutati di ascoltare Jasmine. Perché, d’altronde, ascoltare una sex worker che si ritiene non sappia cosa è bene per lei? Questa criminalizzazione messa in atto dal sistema è costata a Jasmine la sua vita.
In tutti i paesi in Europa e in tutto il mondo, i/le sex workers vengono assassinati perché le nostre vite sono viste come meno degne di altre. Noi non siamo cittadin* a pieno titolo e questo stato di discriminazione giustifica lo stigma che ci viene inflitto e la violenza soffriamo. E ‘ ora di dire NO a tutte le violenze contro i/le sex workers! NO a ignorare/zittire le nostre voci, NO alla sottrazione dei nostri figli! NO ad attacchi, stupri e omicidi!
Le iniziative di protesta saranno realizzate in molti paesi, in tutto il mondo, venerdì 19 luglio alle 15:00. Incoraggiamo i membri del Comitato Internazionale per i Diritti delle Sex Workers in Europa e tutte le organizzazioni e gli individui a organizzare manifestazioni, proteste, azioni presso le ambasciate turche, svedesi, italiane, o presso qualunque altro luogo simbolico.
Noi daremo aggiornamenti su questa pagina con informazioni sulle proteste, comunicati stampa dell’ICRSE, immagini, banner che potrebbe essere utile condividere etc. Se avete bisogno di aiuto in qualsiasi modo, chiedete info sulla pagina (facebook o Evento) e forse qualcuno può essere in grado di offrire sostegno.
In solidarietà.
LONDON
https://www.facebook.com/ events/257055747752775/ ?ref=25
PARIS
https://www.facebook.com/ events/208533619301833/ ?ref=25
BERLIN
https://www.facebook.com/ events/337753779688209/ ?ref=25
GLASGOW
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LA VIOLENZA CONTRO I/LE SEX WORKERS DEVE FERMARSI.
Qui l'evento facebook.
La Turchia e la Svezia sono stati, durante questa settimana, luogo di omicidi violenti alle sex workers – ma la violenza è costante e tre sex workers sono state uccise in Italia dall’inizio dell’anno. In Francia, Kassandra e Karima sono state assassinate e spinte al suicidio.
Noi chiediamo a tutti i nostri amici e familiari, di protestare contro i sistemici omicidi transfobici e contro la violenza in Turchia e in tutto il mondo. Dora, prostituta trans è stato uccisa questa settimana, ad un’altra sex workers trans in Turchia, Ela, hanno sparato; è stata gravemente ferita ed è improbabile che il suo braccio possa funzionare di nuovo. Dora è la 31esima vittima, dal 2008, transgender di un violento e mortale attacco in Turchia.
Chiediamo a tutti i nostri amici e familiari di protestare contro il modello svedese, che ha portato via i figli di Jasmine e ha dato la custodia al suo ex marito violento che infine l’ha assassinata. Gli assistenti sociali e lo Stato svedese si sono rifiutati di ascoltare Jasmine. Perché, d’altronde, ascoltare una sex worker che si ritiene non sappia cosa è bene per lei? Questa criminalizzazione messa in atto dal sistema è costata a Jasmine la sua vita.
In tutti i paesi in Europa e in tutto il mondo, i/le sex workers vengono assassinati perché le nostre vite sono viste come meno degne di altre. Noi non siamo cittadin* a pieno titolo e questo stato di discriminazione giustifica lo stigma che ci viene inflitto e la violenza soffriamo. E ‘ ora di dire NO a tutte le violenze contro i/le sex workers! NO a ignorare/zittire le nostre voci, NO alla sottrazione dei nostri figli! NO ad attacchi, stupri e omicidi!
Le iniziative di protesta saranno realizzate in molti paesi, in tutto il mondo, venerdì 19 luglio alle 15:00. Incoraggiamo i membri del Comitato Internazionale per i Diritti delle Sex Workers in Europa e tutte le organizzazioni e gli individui a organizzare manifestazioni, proteste, azioni presso le ambasciate turche, svedesi, italiane, o presso qualunque altro luogo simbolico.
Noi daremo aggiornamenti su questa pagina con informazioni sulle proteste, comunicati stampa dell’ICRSE, immagini, banner che potrebbe essere utile condividere etc. Se avete bisogno di aiuto in qualsiasi modo, chiedete info sulla pagina (facebook o Evento) e forse qualcuno può essere in grado di offrire sostegno.
In solidarietà.
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martedì 16 luglio 2013
Il progetto è questo anche da noi, lo portano avanti su diversi fronti
In Texas passa una legge sull'interruzione di gravidanza particolarmente restrittiva.
"Gli “American united for life”, un gruppo che si batte contro l’aborto, ha spiegato che le decine di misure pro-life hanno soprattutto un obiettivo. Quello di provocare una reazione giudiziaria da parte dei sostenitori dell’aborto, che arrivi sino alla Corte suprema, dove sarà poi possibile cancellare la “Roe v. Wade”, la storica sentenza del 1973 che legalizzò l’aborto negli Stati Uniti."
Ed è la stessa strategia portata avanti in Italia: provocare il blocco della legge, a causa dell'articolo 9, spingere a una modifica della legge, massacrarla.
Non dimentichiamo la petizione che circola per la richiesta di un referendum abrogativo (ancora).
Mentre noi moriamo.
"Gli “American united for life”, un gruppo che si batte contro l’aborto, ha spiegato che le decine di misure pro-life hanno soprattutto un obiettivo. Quello di provocare una reazione giudiziaria da parte dei sostenitori dell’aborto, che arrivi sino alla Corte suprema, dove sarà poi possibile cancellare la “Roe v. Wade”, la storica sentenza del 1973 che legalizzò l’aborto negli Stati Uniti."
Ed è la stessa strategia portata avanti in Italia: provocare il blocco della legge, a causa dell'articolo 9, spingere a una modifica della legge, massacrarla.
Non dimentichiamo la petizione che circola per la richiesta di un referendum abrogativo (ancora).
Mentre noi moriamo.
Tutto l'articolo qui:
Texas, approvata la legge anti-aborto più severa degli Usa. “Proteggiamo la vita”
L’ordine delle cose
“The Order of Things” è un cortometraggio sulla violenza di genere, diretto dai fratelli Alenda, interpretato da Manuela Vellés, Mariano Venancio, Javier Gutiérrez y Biel Durán.
La violenza di genere non è circoscritta a un solo contesto, le donne ne sono vittime in strada, sul posto di lavoro e in famiglia. In questo cortometraggio ci si richiama a un contesto famigliare dominato da una figura maschile che, ricevuto il mandato della violenza dal proprio padre, vorrebbe passarlo al figlio. Gli esiti però sono diversi.
Il finale è molto evocativo, una donna che riesce a liberare sé stessa, libera tutte.
Per il resto ci sono i commenti, buona visione.
Da Intersezioni.
lunedì 15 luglio 2013
L’antisessismo sessista
Sulla sentenza per lo stupro di Montalto di Castro, sulla lotta
delle donne, sul bambino di Rosy che sarà dato in adozione….ovvero
sull’antisessismo sessista.
E’ stata emessa la sentenza per gli otto ragazzi, all’epoca dei
fatti minorenni, rei confessi, che sei anni fa hanno stuprato in gruppo
una ragazza di quattordici anni in una pineta di Montalto di Castro a
margine di una festa di compleanno.
Il tribunale dei minori di Roma, presieduto da Debora Tripiccioni,
che lo scorso gennaio aveva sospeso il processo giunto al termine della
fase dibattimentale e nella quale il PM aveva chiesto quattro anni per
ciascuno dei ragazzi, ha decretato che gli stupratori saranno sottoposti
al regime della messa in prova per 24 mesi. Svolgeranno cioè lavori
socialmente utili due volte alla settimana e potranno continuare a
studiare e a lavorare e a condurre normalmente la loro vita.
Alla fine di questo periodo e in base al giudizio che sul loro
comportamento sarà dato dagli assistenti sociali e dal giudice delegato a
seguire i loro progressi, potranno anche ottenere la dichiarazione di
estinzione del reato loro contestato. Quello di violenza sessuale di
gruppo per aver stuprato a turno una loro coetanea.
Questo è quanto riportato in maniera scarna dai media ed è la fine
di una storia di grande violenza e non solo per quello che hanno fatto
alla ragazza i suoi coetanei, ma per quello che le ha fatto il paese in
cui abitava, Montalto di Castro, attraverso l’atteggiamento ipocrita e
sessista, minimizzando il tutto come “bravata”, dicendo che lei se l’è
cercata perché indossava la minigonna e attraverso il sindaco PD, zio di
uno degli otto, che si è dichiarato pronto a stanziare dei soldi per il
reinserimento dei ragazzi e neanche un euro per lei.
E’ stata costretta ad andare via dal paese, a vivere in un’altra
città, a prendere coscienza a soli quattordici anni dell’orrore di
questa società, di cui la sentenza dell’11 luglio scorso non è che
l’atto esemplare.
La così detta “giustizia” di questa
società non ci appartiene, né i suoi tribunali, né le sue carceri e non
ci appartiene chiedere condanne esemplari per nessuno, ma le sentenze
che i tribunali esprimono sono una cartina di tornasole della gerarchia
dei valori di questo sistema patriarcale e capitalista, della sua
struttura portante e dei suoi metri di giudizio:
-quindici anni di reclusione per “devastazione e saccheggio” a chi ha
manifestato al G8 di Genova nel 2001 e sei anni per chi ha manifestato
il 15 ottobre 2011 a Roma……
-tre anni e sei mesi per i poliziotti, tra cui anche una donna, che hanno ucciso Federico
Aldrovandi e nessuna condanna per chi ha ucciso Stefano Cucchi, Carlo Giuliani, Giuseppe Uva….
-mesi di galera per chi ruba al supermercato, venti anni per chi rapina una banca…..
La gerarchia di valori che esprime questo elenco significa che al
primo posto della pericolosità sociale sta chi manifesta dissenso
politico o semplicemente alterità nei confronti di questa società
perché basta solo la partecipazione ad una manifestazione per subire
pesanti condanne.
Sullo stesso piano c’è la tutela della proprietà privata. Anche un
paio di magliette rubate all’Oviesse sono costate ad una ragazza la
traduzione in cella di sicurezza nella caserma del Quadraro qui a Roma e
lo stupro di gruppo da parte di tre carabinieri e un vigile urbano ( a
proposito, che fine hanno fatto costoro? C’è uno straccio di processo o
non è dato sapere?).
Non parliamo, poi, se qualcuno/a osa rubare dei cibi , qualche
salame o qualche formaggio dagli scaffali di un supermercato. Le patrie
galere sono piene di gente detenuta per reati così.
Le istituzioni in divisa hanno una totale impunità, tanto che questo è
chiaramente un benefit per il loro “lavoro”, come qualcuna/o si ostina
ancora a chiamarlo, come per un impiegato sono i buoni pasto.
La società neoliberista ha annullato il valore della vita umana,
perché anche la vita degli individui è considerata una merce, ha senso
solo se può essere in qualche modo e fino a quando fornisce possibilità
di profitto.
Quindi, giù, giù, nella scala dei valori troviamo l‘uso di un corpo, il suo abuso , la sua eliminazione.
Perché questo nullo e/o bassissimo valore dell’essere umano che
impregna l’impostazione socio-economica della società dovrebbe trovare
una risposta diversa quando si tratta di una donna o della violenza che
subisce?
Il neoliberismo è la configurazione attuale del capitalismo e del
patriarcato e, come ogni configurazione ha i suoi modi particolari di
esprimersi.
Uno di questi è la strumentalizzazione della violenza sulle donne, sulle diversità e dei diritti umani.
Per cui, da una parte sbandiera attenzione e riprovazione nei
confronti di questi aspetti e approva convenzioni, come quella di
Istanbul, propone Task Force, spende parole e convegni, crea
associazioni, ma fondamentalmente, dall’altra, lo scopo è creare
controllo sociale, leggi securitarie, inasprimento delle pene e
strumenti di asservimento.
Così può militarizzare il territorio qui da noi e portare le guerre neocoloniali nel terzo mondo.
Mai vista una società tanto ipocrita e mistificante dove regna
l’antirazzismo razzista, l’antisessismo sessista, la carità pelosa e il
devastante “politicamente corretto”.
Il bambino di Rosy, la ragazza uccisa pochi giorni fa dal compagno a
casa dei genitori dove si era rifugiata, sarà dato in adozione perché i
nonni sono stati giudicati troppo poveri per mantenerlo. Anche la
povertà è una condanna. Se non sei capace di mantenere tuo nipote, vuol
dire che sei un inetto/a e ti sarà portato via. L’idea di dare del
denaro direttamente ai nonni perché possano mantenere il bambino viene
da questa società considerata “immorale”: non si danno dei soldi a chi
non è in grado di guadagnarseli.
Una società che sbandiera tanta attenzione ai minori da multare,
denunciare, privare della potestà chi viene sorpreso ad elemosinare con i
figli/e per strada e tanto violenta da recidere affetti e legami
familiari con una freddezza nazista.
Che cosa significa tutto questo per noi che vogliamo lottare contro la violenza maschile sulle donne?
Significa non farsi irretire dalle manifestazioni di attenzione del
potere, non farsi strumentalizzare, ribadire una distanza incolmabile.
La nostra liberazione passa attraverso l’autodifesa,
l’autorganizzazione, il rifiuto della delega, la presa in carico della
lotta, la creazione di luoghi di donne e di reti di donne in autonomia
consapevoli della necessità dell’uscita da questa società.
Le coordinamenta
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