Da http://medea.noblogs.org
Ogni volta che in questo paese il livello della conflittualità sociale cresce, fino a limiti che le istituzioni ritengono ingovernabili, non più incanalabili secondo un’ortopedia social-democratica del dissenso, la “questione femminile” viene strumentalmente agitata come una bandiera. Si tirano fuori da un cassetto chiuso a chiave “le donne”, si dà una sommaria spolverata alla categoria e improvvisamente ci si ricorda di loro, tentando di piegarle a svariati usi.
Come testa di turco per far cadere i governi ad esempio: la recente esperienza di Se Non Ora Quando è un caso eclatante e deprimente della strumentalizzazione di questioni che il femminismo radicale ha sempre preso sul serio ( la mercificazione dei corpi e della loro immagine, per esempio), volgarizzate e distorte, infine trasformate in un bolo inoffensivo e più digeribile per un’opinione pubblica ormai consumata dal suo quotidiano consumare i media. Istanze ormai rese irriconoscibili e prive di alcun riferimento pratico e teorico al femminismo radicale. Non a caso spuntava, nei cortei orchestrati da donne embedded della buona borghesia illuminata (giornaliste, intellettuali, scrittrici, registe, attrici e cantanti), l’odiosa distinzione, da sempre bersaglio delle femministe, tra donne per bene e donne per male, puttane – le presunte odalische del Gran Sultano di Arcore – e sante del XXI secolo (le lavoriste indefesse che si sono “fatte da sole”). Può esserci un tradimento più grande e imperdonabile delle istanze femministe? No.
Come testa di turco per far cadere i governi ad esempio: la recente esperienza di Se Non Ora Quando è un caso eclatante e deprimente della strumentalizzazione di questioni che il femminismo radicale ha sempre preso sul serio ( la mercificazione dei corpi e della loro immagine, per esempio), volgarizzate e distorte, infine trasformate in un bolo inoffensivo e più digeribile per un’opinione pubblica ormai consumata dal suo quotidiano consumare i media. Istanze ormai rese irriconoscibili e prive di alcun riferimento pratico e teorico al femminismo radicale. Non a caso spuntava, nei cortei orchestrati da donne embedded della buona borghesia illuminata (giornaliste, intellettuali, scrittrici, registe, attrici e cantanti), l’odiosa distinzione, da sempre bersaglio delle femministe, tra donne per bene e donne per male, puttane – le presunte odalische del Gran Sultano di Arcore – e sante del XXI secolo (le lavoriste indefesse che si sono “fatte da sole”). Può esserci un tradimento più grande e imperdonabile delle istanze femministe? No.
O meglio, ce n’è uno che del primo è l’altra faccia, il risvolto, l’ombra complementare. Entrambi si fondano sul medesimo presupposto: strumentalizzare, incanalare il dissenso e la conflittualità secondo forme neutrali e di fatto inoffensive. Anche a costo di compiere, sempre e di nuovo, un altro tradimento, storico, culturale, sociale. E qui arriviamo all’articolo di Sapegno sulle “donne della ValSusa” tradite…già, ma tradite da chi?
L’articolo citato è una specie di volgare prosopografia: una serie di “medaglioni”, di figure di donne tipizzate in un senso molto specifico.
Tali medaglioni hanno la funzione, di fatto, di ridurre la complessità delle differenze individuali e collettive del “femminile” e di astrarne, universalizzandole, alcune, che perdono poi ogni carattere di “differenza”. E diventano “pseudo-differenze”. Andiamo per gradi.
Da un lato ci sono le donne vecchie. Per il giornalista, (d’altronde non solo in quanto tale è un agente della mediatizzazione totale dei corpi, ma in più scrive su una testata per donne, dove articoli che ambiscono ad essere serie analisi socio-culturali si mescolano alle foto di moda e alle pubblicità degli anti-rughe) – è evidente dalla descrizione - le vecchie hanno perso, come prescrive il buon senso comune, ogni attrattiva sessuale. La menopausa le rende pacifiste de jure….Capelli grigi, stampella, gote rubiconde, sguardi bonari sotto rassicuranti e nonnesche palpebre cadenti. Maglioncini sformati e comodi. Alle vecchie, private di un corpo libidinale che d’altronde poco si presta alla spettacolarizzazione, resta pur sempre un corpo sociale cui si associano funzioni precise: possono arringare la folla come madri appena un poco incazzate (attenzione, non troppo perché l’età le ha rese sagge), preparare qualche the caldo, trasmettere i saperi femminei dell’arte culinaria. Vengono dunque ben assicurate al livello che chiamerei del grand-maternage: rassicurazione e supervisione del lavoro “costruttivo” di cura svolto dalle giovani. Il livello di chi ha perso la capacità biologica di procreare. Poi ci sono le filles. Poiché dotate di quella capacità, a loro è assegnato invece il livello del maternage vero e proprio: loro si occupano di bambini, mentre i maschi discutono le strategie della lotta. Improvvisano asili volanti nelle piazze durante le manifestazioni, procurano giochi. Di mestiere, meglio ancora se fanno qualcosa di attinente, come la psicologa infantile.
Insomma, si occupano di quel lavoro di cura dal quale spesso nemmeno la partecipazione ad una lotta popolare e quotidiana come quella contro il TAV riesce ad esentarle. A seguire la genealogia di Sapegno, dal (grand) maternage non ci si emancipa mai, anzi costituisce il proprio, l’essenza ineludibile della femminilità sana. Non ci sono donne non pacifiche. Le violente rappresentano un’anomalia del genere, un errore della specie. Qualcosa di cui il giornalista, più che renderlo oggetto di condanna morale, si stupisce. Perché per essenza la donna è legata alla Vita, e dunque non le sarebbero propri istinti distruttivi. Non sono, non devono essere necessarie troppe parole per smontare queste tesi obsolete e mistificanti. Le donne hanno un forte rapporto con la violenza e il conflitto. Da tempi immemori, se al confine storico e geografico tra Oriente e Occidente si situa il mito delle Amazzoni, la popolazione scita di sole donne che, per cavalcare e reggere l’arco in spalla più agevolmente, si mozzavano un seno ( da qui l’etimologia del nome in Erodoto, a- mastòs: senza seno). Erano bellicose, a volte violente, talora sanguinarie.
Anche la storia del femminismo in Occidente, per venire a tempi più recenti, sebbene lavata dal sangue da una storiografia maschile, è costellata di una violenza per nulla occasionale. Nei primi decenni del XX secolo le suffragette bruciavano case, spaccavano vetrine di negozi , assalivano fisicamente i membri del Parlamento, piazzavano ordigni esplosivi, facevano saltare per aria le cassette postali e tagliavano i fili del telegrafo. Spesso tali azioni “non democratiche” erano represse violentemente dallo Stato: erano incarcerate, sottoposte ad alimentazione forzata, picchiate. Il Parlamento degli Stati Uniti aveva persino emanato una legge speciale, detta Cat-and-Mouse, perché le si potesse imprigionare sempre e comunque. I prodromi del femminismo sono perciò profondamente contrassegnati dalla violenza: la violenza rivoluzionaria delle suffragette da un lato, quella di Stato dall’altro. Il fatto che la parola stessa “suffragetta” sia diventata, per l’uso comune, sinonimo di crocerossina appena un poco adirata, associata all’immagine di gentili fanciulle con abiti ingombranti che discutono di voto tra un the e un pasticcino, per hobby, annoiate da un pallido menage borghese, con un tradimento totale dei fatti storici, è indicativo di quanto la mentalità di cui anche Sapegno è erede sia ancora profondamente radicata. Semplicemente si nega la realtà, si cancella la violenza e così facendo si neutralizza la femminilità, così come si è neutralizzato e, nello stesso movimento, mascolinizzato, il linguaggio. Ovviamente la violenza e la conflittualità, endogena e esogena, esogenerica e intragenerica, ha radici, ragioni, forme e manifestazioni differenti. L’iscrizione nel genere e nella classe, l’appartenenza ad un’epoca storica, ad una congiuntura sociale e geografica ne moltiplicano le differenziazioni, e l’argomento meriterebbe studi ed analisi approfonditi, ancora carenti proprio anche perché si è sempre privilegiata un’immagine femminile neutrale che ha profondamente lavorato, a livello culturale, per l’assoggettamento della donna nelle società patriarcali e per la produzione di corpi femminili in quanto corpi docili. I discorsi occidentali sulla femminilità non sono serviti che a privatizzare la donna, assegnandola alla famiglia come sfera separata dal sociale, campo di battaglie e rivoluzioni, teatro violento riservato al maschio. Persino a livello simbolico la psicanalisi ha descritto la donna, per decenni, in termini di mancanza. Mancanza di fallo, invidia del pene, fantasiose storie sulla castrazione. Ma la castrazione – come hanno mostrato chiaramente Deleuze e Guattari, non è che questo taglio con cui il privato è stato tagliato via e fuori dal sociale, la riduzione psicologistica del politico, la trasformazione del desiderio da realtà capace di generare mondi in fantasma improduttivo.
Tali medaglioni hanno la funzione, di fatto, di ridurre la complessità delle differenze individuali e collettive del “femminile” e di astrarne, universalizzandole, alcune, che perdono poi ogni carattere di “differenza”. E diventano “pseudo-differenze”. Andiamo per gradi.
Da un lato ci sono le donne vecchie. Per il giornalista, (d’altronde non solo in quanto tale è un agente della mediatizzazione totale dei corpi, ma in più scrive su una testata per donne, dove articoli che ambiscono ad essere serie analisi socio-culturali si mescolano alle foto di moda e alle pubblicità degli anti-rughe) – è evidente dalla descrizione - le vecchie hanno perso, come prescrive il buon senso comune, ogni attrattiva sessuale. La menopausa le rende pacifiste de jure….Capelli grigi, stampella, gote rubiconde, sguardi bonari sotto rassicuranti e nonnesche palpebre cadenti. Maglioncini sformati e comodi. Alle vecchie, private di un corpo libidinale che d’altronde poco si presta alla spettacolarizzazione, resta pur sempre un corpo sociale cui si associano funzioni precise: possono arringare la folla come madri appena un poco incazzate (attenzione, non troppo perché l’età le ha rese sagge), preparare qualche the caldo, trasmettere i saperi femminei dell’arte culinaria. Vengono dunque ben assicurate al livello che chiamerei del grand-maternage: rassicurazione e supervisione del lavoro “costruttivo” di cura svolto dalle giovani. Il livello di chi ha perso la capacità biologica di procreare. Poi ci sono le filles. Poiché dotate di quella capacità, a loro è assegnato invece il livello del maternage vero e proprio: loro si occupano di bambini, mentre i maschi discutono le strategie della lotta. Improvvisano asili volanti nelle piazze durante le manifestazioni, procurano giochi. Di mestiere, meglio ancora se fanno qualcosa di attinente, come la psicologa infantile.
Insomma, si occupano di quel lavoro di cura dal quale spesso nemmeno la partecipazione ad una lotta popolare e quotidiana come quella contro il TAV riesce ad esentarle. A seguire la genealogia di Sapegno, dal (grand) maternage non ci si emancipa mai, anzi costituisce il proprio, l’essenza ineludibile della femminilità sana. Non ci sono donne non pacifiche. Le violente rappresentano un’anomalia del genere, un errore della specie. Qualcosa di cui il giornalista, più che renderlo oggetto di condanna morale, si stupisce. Perché per essenza la donna è legata alla Vita, e dunque non le sarebbero propri istinti distruttivi. Non sono, non devono essere necessarie troppe parole per smontare queste tesi obsolete e mistificanti. Le donne hanno un forte rapporto con la violenza e il conflitto. Da tempi immemori, se al confine storico e geografico tra Oriente e Occidente si situa il mito delle Amazzoni, la popolazione scita di sole donne che, per cavalcare e reggere l’arco in spalla più agevolmente, si mozzavano un seno ( da qui l’etimologia del nome in Erodoto, a- mastòs: senza seno). Erano bellicose, a volte violente, talora sanguinarie.
Anche la storia del femminismo in Occidente, per venire a tempi più recenti, sebbene lavata dal sangue da una storiografia maschile, è costellata di una violenza per nulla occasionale. Nei primi decenni del XX secolo le suffragette bruciavano case, spaccavano vetrine di negozi , assalivano fisicamente i membri del Parlamento, piazzavano ordigni esplosivi, facevano saltare per aria le cassette postali e tagliavano i fili del telegrafo. Spesso tali azioni “non democratiche” erano represse violentemente dallo Stato: erano incarcerate, sottoposte ad alimentazione forzata, picchiate. Il Parlamento degli Stati Uniti aveva persino emanato una legge speciale, detta Cat-and-Mouse, perché le si potesse imprigionare sempre e comunque. I prodromi del femminismo sono perciò profondamente contrassegnati dalla violenza: la violenza rivoluzionaria delle suffragette da un lato, quella di Stato dall’altro. Il fatto che la parola stessa “suffragetta” sia diventata, per l’uso comune, sinonimo di crocerossina appena un poco adirata, associata all’immagine di gentili fanciulle con abiti ingombranti che discutono di voto tra un the e un pasticcino, per hobby, annoiate da un pallido menage borghese, con un tradimento totale dei fatti storici, è indicativo di quanto la mentalità di cui anche Sapegno è erede sia ancora profondamente radicata. Semplicemente si nega la realtà, si cancella la violenza e così facendo si neutralizza la femminilità, così come si è neutralizzato e, nello stesso movimento, mascolinizzato, il linguaggio. Ovviamente la violenza e la conflittualità, endogena e esogena, esogenerica e intragenerica, ha radici, ragioni, forme e manifestazioni differenti. L’iscrizione nel genere e nella classe, l’appartenenza ad un’epoca storica, ad una congiuntura sociale e geografica ne moltiplicano le differenziazioni, e l’argomento meriterebbe studi ed analisi approfonditi, ancora carenti proprio anche perché si è sempre privilegiata un’immagine femminile neutrale che ha profondamente lavorato, a livello culturale, per l’assoggettamento della donna nelle società patriarcali e per la produzione di corpi femminili in quanto corpi docili. I discorsi occidentali sulla femminilità non sono serviti che a privatizzare la donna, assegnandola alla famiglia come sfera separata dal sociale, campo di battaglie e rivoluzioni, teatro violento riservato al maschio. Persino a livello simbolico la psicanalisi ha descritto la donna, per decenni, in termini di mancanza. Mancanza di fallo, invidia del pene, fantasiose storie sulla castrazione. Ma la castrazione – come hanno mostrato chiaramente Deleuze e Guattari, non è che questo taglio con cui il privato è stato tagliato via e fuori dal sociale, la riduzione psicologistica del politico, la trasformazione del desiderio da realtà capace di generare mondi in fantasma improduttivo.
Sappiamo dunque bene di cosa è erede la posizione di Sapegno. Ha una storia lunga come l’assoggettamento delle donne. Ma, poiché alla fin fine si tratta di donne, non è nemmeno il caso di farla troppo lunga: vengono tirate in ballo non per discutere il merito della questione (le ragioni della lotta NO TAV) quanto piuttosto per dissertare di effetti collaterali, di argomenti paralleli e residuali sulle modalità della lotta. Pacifiche o violente. E solo in modo strumentale, utilizzate per contribuire alla criminalizzazione del dissenso ormai da tempo in atto. Come cartine al tornasole per testare il grado di democraticità del movimento. Per confermare un altro tradimento storico: una volta usciti da regimi autoritari, monarchici o dittatoriali, entrate nel meraviglioso empireo democratico, nessun dissenso di fatto sarebbe più possibile, a meno, appunto, di esprimersi in modi “democratici”. E’ invece profondamente connaturata alle democrazie, la possibilità del tumulto. Storicamente, anzi, si dimentica, lo ricordava Illuminati pochi giorni fa, la produttività sul piano legislativo dei tumulti nella Roma repubblicana. Ma anche sorvolando su queste raffinatezze storiografiche, la liturgia democratica elude una questione fondamentale (sarà per questo che la immaginano femmina, la democrazia?): che ogni Stato nasce requisendo le giustizie particolari e le violenze individuali per dar vita ad un monopolio della violenza sul quale si fonda la sua stessa possibilità di esistere. La natura dello Stato è violenta perché lo è la sua origine. Ogni volta che sorge esso deve proteggere il proprio monopolio: quindi le conflittualità e il dissenso dal basso che non si esprimono attraverso rappresentanti istituzionali, o non solo, come nel caso del movimento NO TAV, vengono bollati come anti-democratici. Extra-statuali, che poi significa eversivi, altro termine che sui giornali ricorre spesso negli ultimi tempi come rischio concreto e attualissimo. Questi discorsi lavorano sempre su almeno due livelli: da un lato, profondamente, tendono a cancellare, culturalmente, la memoria e la percezione che lo Stato è violento dalle sue origini; infatti può, in quanto monopolista della forza, porre l’assolutezza delle leggi e poi sospenderle, nello stato di emergenza o di eccezione, con atti letteralmente illegali cioè contro le sue stesse leggi, cui conferisce però “forza di legge”, come negli Act del Parlamento USA post-11 Settembre, o come nella recente arbitraria trasformazione dell’area dello pseudo cantiere in sito di “interesse strategico”.
Dall’altro, ad un livello più quotidiano, servono a far dimenticare il quid delle lotte, ad allontanare i sospetti che certe decisioni invece che per l’interesse delle popolazioni siano prese in nome di interessi lobbistici e privati.
Ma proprio noi, in quanto donne, conosciamo bene i meccanismi di rimozione culturale, sociale e politica, le castrazioni storiche con cui il Potere si perpetua, a prescindere dal tipo di governamentalità con cui, in ogni epoca, si caratterizza. Separazione dei ruoli, divisione del lavoro, incatenamento a questa o quell’essenza. Stranier*/autocton* (valsusin*). Santa/puttana. Cuoca/ guerrigliera.
E se fossimo tutto?
Dall’altro, ad un livello più quotidiano, servono a far dimenticare il quid delle lotte, ad allontanare i sospetti che certe decisioni invece che per l’interesse delle popolazioni siano prese in nome di interessi lobbistici e privati.
Ma proprio noi, in quanto donne, conosciamo bene i meccanismi di rimozione culturale, sociale e politica, le castrazioni storiche con cui il Potere si perpetua, a prescindere dal tipo di governamentalità con cui, in ogni epoca, si caratterizza. Separazione dei ruoli, divisione del lavoro, incatenamento a questa o quell’essenza. Stranier*/autocton* (valsusin*). Santa/puttana. Cuoca/ guerrigliera.
E se fossimo tutto?
3 commenti:
molto interessante, anche molto prevedibile, non lo dico per deprezzarlo, voglio dire che segue una logica prevedibile. E solo in parte condivisibile, per quano mi riguarda. Solo due domande: 1) vorrei leggere l'articolo di Sapegno (chi? ipotizzo Maria Serena di SNOQ?)per poterlo criticare altrettanto, se ci fosse il link o almeno il luogo di pubblicazione, potrei farlo.
2) dai tempi dello stato assoluto del sovrano assoluto di Hobbes è passato un bel po' di tempo. E lo è passato anche dall'epoca dello Stato carabiniere degli esordi del liberalismo politico ottocentesco. Chiedo: lo Stato della Repubblica italiana, nata come ognun sa dalla Resistenza, almeno finora, è anche il nostro? Oppure no? E nel caso la risposta fosse affermativa, perché non rivendicare la nostra titolarità, anche la nostra titolarità, su questo Stato, e sulle sue azioni, invece di continuare a considerarlo come il Leviatano di Hobbes?
paola m
Ciao Paola, l'articolo di Sapegno è questo: http://www.iodonna.it/guardo/12_a_sapegno-inchieste-val-susa.shtml
Mentre per quanto riguarda le tue domande, se vuoi porle a chi ha scritto l'aricolo, questo è il link: http://medea.noblogs.org/2012/03/05/lanti-edipo-la-privatizzazione-delle-donne-e-la-democrazia/
Non l'ho scritto io, infatti ho indicato la fonte, ma l'ho "girato" sul mio blog perché lo condivido.
Nel caso la mia risposta è comunque negativa, non so se questo sia il tuo Stato, il mio non lo è, in senso politico, dato che con la Resistenza non ha più nessun rapporto.
Questo Stato è invece di chi lo usa contro di me valsusina (se io fossi valsusina)- attraverso il suo braccio armato - e donna, per tutto ciò che questo Stato fa contro di me attraverso la non-tutela dei miei diritti.
Non ne rivendico la titolarità perchè questa forma non mi rappresenta, quindi la contrasto - sempre in senso politico.
Grazie Serbilla, infatti le domande erano rivolte a chi ha scritto l'articolo, che tu hai linkato da Medea: ci ero risalita grazie al tuo link, ma non ci avevo trovato il link dell'articolo criticato. Quindi grazie della segnalazione. Per la seconda domanda, mi accorgo dalla tua risposta, di cui comprendo le motivazioni, quanto sia diversa la mia prospettiva, in parte per motivi anagrafici: proprio perché sono cresciuta in un'epoca in cui il momento fondativo della repubblica italiana era abbastanza vicino, e con genitori che avevano vissuto quello che c'era prima (il fascismo) e quello che c'è stato in mezzo (la guerra, l'occupazione tedesca, la resistenza) e quelli che erano stati i primi momenti politici di una nuova epoca, io questo stato non lo voglio lasciare in mano a chi vuole usarlo contro di me (e non è la prima volta). Io so, perché me lo hanno raccontato, quanto è costato costruire in Italia uno stato di diritto con una delle più belle costituzioni dell'epoca, e non intendo abbandonarlo nelle mani dei suoi nemici. Compresi quelli che pestano la popolazione della Val Susa.
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