lunedì 12 dicembre 2011

La minigonna di internet


Da Internazionale in inglese qui.
Laurie Penny, Independent, Gran Bretagna
Illustrazione di Chiara Dattola

Finisci per aspettartelo, se sei una giornalista donna e per giunta scrivi di politica. Finisci per aspettarti il vetriolo, gli insulti, le minacce di morte. E dopo un po’ le email, i tweet e i commenti con fantasie molto esplicite su come, dove e con quale utensile da cucina certi pseudonimi vorrebbero stuprarti smettono di farti impressione. Diventano solo una seccatura quotidiana o settimanale, qualcosa di cui parlare al telefono con le amiche, cercando sollievo in una risata forzata.
A quanto pare, un’opinione è la minigonna di internet. Averne una e mostrarla è un po’ come chiedere a una massa amorfa e quasi interamente maschile in che modo vorrebbe stuprarti, ucciderti e pisciarti addosso. Questa settimana, dopo una lunga serie di minacce particolarmente pesanti, ho deciso di rendere pubblici alcuni di quei messaggi su Twitter, e sono stata subissata di risposte. Molti non riuscivano a credere che ricevessi messaggi così pieni di odio, e molti altri hanno cominciato a raccontarmi le loro storie di molestie, intimidazioni e abusi.
Forse dovremmo ritenere consolante il fatto che, per replicare agli argomenti di una donna, non si trovi di meglio che chiamarla “brutta e grassa”. Ma è una triste consolazione, soprattutto quando ti rendi conto, come è successo a me nel corso di quest’anno, che ci sono persone pronte a spendere un sacco di tempo e fatica per punire e zittire una donna che osa essere intraprendente, schietta o semplicemente presente in uno spazio pubblico.
Nessun giornalista che meriti di essere letto si ritiene al di sopra delle critiche, e internet ha reso più facile ai lettori intervenire e dissentire. È una cosa positiva, e da tempo ho l’impressione che le lamentele di tanti famosi giornalisti per i commenti che ricevono nascano in parte dal fatto che l’improvviso diritto di replica dei loro lettori li disturba. Nel mio caso, però, le accuse di stupidità, ipocrisia, stalinismo e scarsa igiene personale – chiaro segno per ogni opinionista di sinistra che per lo meno sta dando fastidio alla gente giusta – arrivano condite da un’abbondante porzione di violenza misogina, non solo da parte dei lettori di estrema destra.
Quei commentatori che si domandano a gran voce dove siano le voci femminili forti, chiudono gli occhi di fronte al fatto che queste intimidazioni sono diventate la norma. Quasi tutte le mattine, quando apro i miei account di posta elettronica, Twitter e Facebook, sono costretta a passare in rassegna minacce di violenza, congetture pubbliche sul mio orientamento sessuale e sull’odore e le prestazioni dei miei genitali, e tentativi di smontare idee complesse e provocatorie con un unico argomento: io e i miei amici siamo così poco seducenti che tutto quello che abbiamo da dire dev’essere per forza irrilevante.
L’idea che una donna debba essere sessualmente attraente per essere presa sul serio come intellettuale non è nata con internet: è un’accusa che è stata usata per mortificare e liquidare le idee delle donne da molto prima che Mary Wollstonecraft fosse chiamata “iena in gonnella”. Con la rete, però, per alcuni maschi è più facile trasformarsi in bulli nel chiuso delle loro stanzette. Non sono solo giornaliste, blogger e attiviste a essere prese di mira. Imprenditrici, donne che frequentano siti di giochi online e studentesse che postano videodiari su YouTube sono state oggetto di campagne intimidatorie costruite apposta per cacciarle dalla rete, e organizzate da gente che, a quanto pare, pensa che le donne debbano usare le moderne tecnologie solo per mostrare il seno a pagamento.
Ho ricevuto anche minacce più dirette: alcuni uomini si sono messi alla ricerca di mie vecchie foto e hanno minacciato di pubblicarle, anche se non capisco quale rilevanza possano avere per il mio profilo professionale. A meno che qualcuno non sia convinto che un’aspirante giornalista femminista debba per forza rimanere completamente sobria, interamente vestita e assolutamente verticale per tutto il primo anno di università. Qualcuno ha anche cercato di rintracciare e molestare la mia famiglia, comprese le mie due sorelle minorenni. Dopo una serie di minacce di stupro, in cui tra l’altro si diceva che per avere criticato le politiche economiche liberiste avrei dovuto essere costretta a praticare una fellatio a un’intera fila di banchieri, sono stata informata che qualcuno stava cercando il mio indirizzo di casa. E potrei continuare.
Vorrei poter dire che nessuna di queste cose mi ha turbato. Vorrei essere una donna così forte da non farmi intimidire dalla violenza: un consiglio che di solito ti dà chi non crede che sia possibile combattere i prepotenti. A volte, parlare della forza che ci vuole solo per accendere il computer o della paura di uscire di casa mi sembra quasi un’ammissione di debolezza. E naturalmente la paura che sia in qualche modo colpa mia se non sono abbastanza forte consente agli aggressori di continuare l’aggressione. Non è più tempo di tacere.
Se vogliamo costruire uno spazio veramente equo e vitale per il dibattito politico e gli scambi sociali, online e off­line, non basta lasciar cadere nel vuoto le molestie subite da donne, omosessuali, trans­gender e persone di colore che osano avere delle opinioni. Libertà di espressione significa essere liberi di usare la tecnologia e partecipare alla vita pubblica senza paura di ritorsioni. E se le uniche persone che possono farlo sono maschi bianchi eterosessuali, internet non è così libera come ci piacerebbe credere.
Traduzione di Diana Corsini.
Internazionale, numero 927, 8 dicembre 2011
Laurie Penny è una giornalista britannica. Questo articolo è uscito sull’Independent con il titolo “A woman’s opinion is the mini-skirt of the internet”. Il suo ultimo libro è Penny Red: notes from the new age of dissent

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