venerdì 16 novembre 2007

Arabia Saudita

Struprata dal branco: condannata al carcere e a 200 frustate

La ragazza ritenuta colpevole di essersi appartate con un uomo.
Agli aggressori solo pochi anni
ROMA
«Sei mesi di carcere e 200 frustrate». È questa la condanna inflitta in appello da un tribunale saudita a una «ragazza stuprata» da sei uomini che se la sono cavata con pene da 2 a 9 anni di reclusione. La colpa della ragazza? Farsi trovare dagli stupratori «appartata con un uomo». Reato gravissimo in Arabia saudita dove vige la legge islamica della Shariya. Un reato che oltre ad esporre la giovane alla pena carceraria ed alle frustrate in pubblico, "alleggerisce" la colpa dei membri del branco, che evitano cos? la sentenza capitale prevista per questo genere di reati dallo stesso codice islamico.

Succede nei nostri giorni nel Regno wahabita in una piccola città vicino ad al Qatif, ad una ragazza che all’epoca dei fatti aveva 19 anni. La sua storia, che risale a quasi due anni fa, è riportata oggi dal quotidiano palestinese al Quds al Arabi per riferire della sentenza definitiva. Nel marzo scorso, quando in primo grado fu condannata a ’solè 90 frustrate evitando il carcere, il quotidiano panarabo al Sharq al Awsat raccontava cos? come erano andate le cose.

Comincia tutto un anno prima dell’inizio del processo, con le telefonate di un uomo che chiedeva continuamente di incontrare l’allora 19nne. All'inizio la ragazza non gli dà peso, poi "lusingata", per ingenuità, accetta di far avere una sua foto all'ostinato ammiratore. Ma quando si fidanza con il futuro marito scelto dalla famiglia, la ragazza chiede indietro la sua fotografia. Fissa un appuntamento con l'uomo. Mentre è «appartata» con lui in macchina avviene l'assalto.

Sette uomini armati di coltelli la sequestrano puntandole una lama alla gola. La portano in una fattoria fuori città. E a turno, la violentano «due volte ciascuno». Uno del branco scatta anche delle foto usando il cellulare della vittima. «Mi hanno detto di non dire niente dello stupro, che altrimenti avrebbero spedito quelle foto a tutti dal mio telefonino».

Quando torna a casa, è una donna spezzata. Tenta il suicidio ma le pillole che ingoia la fanno solo stare male. Finisce in ospedale. Incapace di reggere il peso decide di parlare; e sorprendentemente il promesso sposo non la ripudia come gli consigliano di fare. Anzi si mette alla ricerca dei colpevoli che riesce a trovare in un mercato di pesci. «Uno di loro quando si era sfilato il cappuccio puzzava di pesce», ricordava la ragazza. Insieme, denunciano tutto alla polizia. E da allora sono cominciati i guai con la giustizia e la società.

Nell'aula del tribunale la giovane, da imputata, viene interrogata tre volte. Tre domande che non hanno nulla a che vedere con quello che ha subito. Per i giudici anche lei è colpevole, e da colpevole la trattano. Lei stessa riconosce di essere stata «stupida» ad incontrarsi con quell`uomo, ma accenna a una debole difesa: «Quello che mi è accaduto quella notte - dice - è peggio di qualsiasi punizione». E invece no, ora le spetta anche la pena decisa dai giudici. Al suo avvocato e attivista per i diritti civili Abdul Rahamn al Laham, che ha portato alla luce il caso, è stata revocata la licenza di esercitare la professione. Non solo ma ora dovrà sottoporsi ad «una commissione educativa», ordinata dal ministro della Giustizia, come racconta oggi ad al Quds al Arabi.

Nemmeno in casa la giovane ha trovato comprensione. Il fratello più giovane l'ha picchiata perché con lo stupro aveva gettato la famiglia nel disonore. I benpensanti sono invece scandalizzati perchè ’il fattò è avvenuto durante il sacro mese di Ramadan quando i rigidi dettami della Shriya proibiscono gli atti sessuali considerati ’impuri per il pio digiunante«, quali avrebbero dovuto essere anche gli stupratori. Le tribù sciite, cui appartiene la ragazza, criticano sì la condanna ma solo per la pena troppo lieve ai violentatori; non una parola per la giovane. L’unica cosa che le resta, forse, è l’amore: quello del suo fidanzato. Lui rimane al suo fianco.

Fonte: La Stampa

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