Aderisco alla campagna #GiornalismoDifferente, perché nessun Papà di 56 anni fa sesso con la figlia di 6 anni e con la sorellina, quello non è "sesso" è stupro, abuso e lui è un pedofilo con l'aggravante dell'essere anche il padre. No un padre non  fa sesso con la figlia di 8 anni e filma le violenze si tratta di stupro. L'url di quest'ultimo articolo è schifosa: "http://www.leggo.it/NEWS/ROMA/quot_non_dire_alla_mamma_del_gioco_del_dottore_quot_._fa_sesso_con_la_figlia_di_8_anni_e_filma_le_violenze_12_anni_di_galera_al_pedofilo/notizie/721216.shtml". Il gioco del dottore? si chiama pedofilia.
Gli adulti non fanno "sesso" con i bambini e le bambine, stuprano. Lo stupro, di chiunque, è tortura sessuale, non "fare sesso", quando si tratta di un/a bambina/o è anche pedofilia.
Siete complici della cultura dello stupro.
Incollo qui sotto l'articolo di rifermento della campagna dal blog http://narrazionidifferenti.altervista.org
#GiornalismoDifferente
E’ tempo di pretendere un cambiamento.
E’ tempo di pretendere che il giornalismo italiano si metta al passo coi tempi
 di cambiamento della società, della realtà, che rappresenti il meglio 
di questa e superi i retaggi della cultura patriarcale, maschilista e 
omo-transfobica.
E’ tempo di pretendere un Giornalismo Differente, perché del valore di informare rimanga anche quello di innovare.
La realtà dipende dalle sue rappresentazioni.
Di pari passo vanno le modifiche di una e delle altre, a specchio.
Ma se la realtà inizia a usare vocaboli, idee, immaginari che non 
trovano mai una rappresentazione massiccia, lo scollamento è 
inevitabile.
Solo da poco il giornalismo ha introdotto il termine femminicidio nel proprio vocabolario.
Un passaggio fondamentale per ripristinare una rappresentazione che rispondesse alla realtà: donne uccise in quanto donne.
Eppure a questo non è seguito un miglioramento complessivo del 
linguaggio o dell’approccio giornalistico al genere, soprattutto per 
quello che riguarda i giornalisti di cronaca, specialmente di cronaca 
nera.
E’ tempo di suggerire quindi al giornalismo italiano tutto, alcune 
semplici regole di linguaggio e approccio, che nel 2014 sarebbe proprio 
il caso di applicare.
Oggi è il 25 novembre, giornata internazionale della lotta alla violenza sulle donne.
Abbiamo deciso di lanciare oggi questa campagna perchè crediamo che dal 
linguaggio mediatico passi la cultura che ci rispecchia e consolida la 
nostra visione del mondo e che per questo il giornalismo italiano debba 
cambiare, migliorare, evolvere.
Chiediamo un Giornalismo Differente, lo facciamo lanciando un hashtag #giornalismodifferente e delle prime rivendicazioni:
1. Un femminicidio non è colpa della disoccupazione / della depressione / della passione.
La violenza sulle donne è sempre esistita, con o senza crisi economica.
Un uomo non picchia, umilia o uccide una donna perchè è rimasto 
disoccupato. Lo fa perchè la sua cultura lo autorizza a sentirsi 
superiore alle donne, a sentirsi padrone delle loro vite, a dominarle 
psicologicamente e fisicamente. Anche le donne rimangono 
disoccupate ed entrano in depressione, anche le donne, anzi soprattutto 
le donne soffrono la crisi dentro e fuori casa, ma per un uomo queste 
diventano possibile “giustificazioni” ad un femminicidio, autorizzato 
invece dalla sua cultura patriarcale.
Quella stessa cultura insegna alle donne a subire, passivamente, perchè 
in nome dell’accoglienza e la mitezza a cui per cui è programmata.
Ecco tre esempi tratti da Corriere della Sera, AGI – agenzia giornalistica Italia, e Repubblica.it
2. Non è il raptus che uccide!
Allo stesso modo, il raptus è un alibi che il giornalismo fornice a chi uccide la propria compagna, moglie, fidanzata, amica.
La violenza sulle donne è un fenomeno strutturale. Ha radici profonde e 
non può essere ricondotta a un momento di violenza improvviso. 
Piuttosto, si tratta di anni di piccole avvisaglie, di 
atteggiamenti psicologicamente o fisicamente violenti, di affermazione 
di cultura maschilista, o spesso si stalking e intimidazioni che sfociano in maniera assolutamente premeditata nell’uccisione della donne che si è sottratta al possesso patriarcale.
In questo articolo ad esempio, Repubblica.it usa il termine 
raptus, per poi specificare però che i due avevano spesso litigi 
violenti.
3. No alle pornovittime!
Una donna rimane un oggetto sessuale anche da morta. Così non mancano
 gli esempi di vittime di femminicidio o violenza sessuale, anche 
giovanissime, ritratte dai giornali in bikini, sottolineandone 
l’avvenenza.
Come se da quella dipendesse la sorte di una violenza, di un’aggressione.
Se poi la donna uccisa è una donna famosa anche per la sua avvenenza, 
non le si risparmiano gallery su gallery della sua immagineammiccante, anche da morta. Pensiamo ad esempio allo sciacallaggio mediatico su Reeva Steenkamp, la donna uccisa dal campione paraolimpico Pistorius.
Anche le foto di repertorio scelte dai giornali per parlare di violenza sessuale e femminicidio rimandano spesso a un immaginario sessualizzato:
 minigonne cortissime, calze autoreggenti, magliette scollate. E poi 
pose rannicchiate nel buio, mani sulla faccia. Come se la vergogna fosse
 la loro e non quella di chi le ha aggredite.
Porno + vittimizzazione, un pessimo risultato.
Le immagini che seguono sono alcune tra le più utilizzate dai 
giornali quando si parla di stupro, rintracciabili dai free press come 
Leggo fino a Il Messaggero.
4. Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
Più chiare di così non si poteva essere. Ancora oggi spesso i 
giornalisti specificano oltre all’aspetto fisico anche l’abbigliamento 
di una vittima di violenza di genere. Perchè? A cosa serve dirci che indossava una minigonna? O che era bella? A nulla.
Perchè la violenza è trasversale e non colpisce solo donne avvenenti o vestite in modo succinto.
Anzi, per lo più avviene dentro le case, in famiglia, dove davvero nulla importa come si è vestite.
Se la vittima di una violenza sessuale di qualsiasi tipo è una donna 
avvenente si susseguono nell’articolo le sue immagini, persino in 
bikini, per attirare lettori, altrimenti si allude al suo aspetto e al 
suo abbigliamento, se si tratta di una sex worker, anche al suo lavoro 
ovviamente, nel quadro di un generale slut shaming, ovvero di una colpevolizzazione costante delle donne.
Così la notizia di una donna molestata sessualmente diventa 
“giustificata” da come quella, per di più ballerina di un night, andava 
vestita, nell’articolo di Treviso Today.
5. Il capofamiglia non esiste più!
Il capofamiglia. Una parola usata molto spesso dal giornalismo 
italiano, ma che ci riporta indietro a quando l’Italia rispettava ancora
 la norma contenuta nell’art. 144 del Codice civile, che prevedeva il 
ruolo di capofamiglia e lo attribuiva al marito, abrogata poi dalla 
legge 19 maggio 1975, n. 151 con la Riforma del diritto di Famiglia.
Il capofamiglia non esiste più da 40 anni, ma il giornalismo italiano continua a usare questa espressione.
Come continua a usare la giustificazione dell’onore e della 
gelosia maschile per parlare di violenza, riportandoci a un’altra pietra
 miliare del nostro diritto, il delitto d’onore, abrogato solo nel 1981.
Questi retaggi maschilisti, seppur eliminati dal diritto ufficiale, 
persistono nel linguaggio giornalistico, tradendo la sostanziale 
adesione a un modello culturale da cui sarebbe anche tempo di 
affrancarsi.
Ancora Repubblica.it ci fornisce un esempio dell’uso improprio di “capofamiglia”. In questo articolo usato
 per intendere l’uomo del nucleo familiare dove, tra l’altro, era invece
 la donna a provvedere al mantenimento della famiglia.
6. unA transessuale, al femminile
Alla condizione femminile, non può non essere associato il trattamento linguistico-mediatico riservato anche a persone LGBTQI, soprattutto per quel che riguarda LE transessuali, relegate tanto alla macchietta che a cui i media le condannano da non meritare nemmeno l’articolo femminile.
Una piccolezza, risponderà il/la giornalista dalla sua scrivania.
Invece no. Perchè il genere maschile e femminile non sono solo 
acquisizioni basate sul sesso biologico, ma anche faticose conquiste 
identitarie. E ciò va rispettato.
Il transessualismo indica l’esperienza vissuta da tutte quelle persone 
che non sentono di appartenere al sesso biologico acquisito con la 
nascita e che quindi intraprendono un percorso di adattamento del 
proprio fisico alla percezione psicologica ed emozionale che hanno di 
sé. Dunque se quella persona ha scelto di appartenere al sesso e
 al genere femminile,i media dovrebbero evitare di rimetterle addosso 
un’etichetta maschile ( e viceversa ), allo stesso modo in cui 
la società tutta dovrebbe acquisire la capacità di relazionarsi alle 
persone in base alle scelte che compiono e non ai ruoli precostituiti 
che si vogliono imporre loro.
Così il Corriere della Sera è solo uno dei giornali indeciso sul 
genere da attribuire a persone transgender, in questo articolo sulla 
morte di Brenda, trans tristemente nota per il suo coinvolgimento nello 
“scandalo” Marrazzo, alterna il maschile al femminile.
7. Vogliamo parlare di donne vive ( e fuori dai ghetti rosa )?
Più in generale, il giornalismo tende a narrare e rappresentare le 
donne solo come vittime di violenza. Affollano le pagine dei quotidiani e
 le schermate dei pc tutte le donne stuprate, uccise, aggredite, 
sfgurate. Di donne forti, uscite dalle difficoltà, capaci di reagire o 
che propongono un immaginario differente da quello descritto finora non 
c’è quasi traccia.
COME ADERIRE A #GIORNALISMODIFFERENTE
Per aderire alla campagna inviateci la vostra adesione, singola o collettiva a narrazionidifferenti@gmail.com
Questo manifesto per il Giornalismo Differente, con tutte le sue 
adesioni, sarà inviato all’attenzione delle principali testate 
nazionali.
Diffondete l’hashtag #giornalismodifferente su Twitter unito alle nostre e alle vostre rivendicazioni, taggando le principali testate italiane.
#giornalismodifferente Un femminicidio non è colpa della disoccupazione!
                                Non è il raptus che uccide!
                                No alle pornovittime!
                                Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
                                Il capofamiglia non esiste più!
                                UnA trans, al femminile!










 
