Maternità e identità Trans
di Frieda Frida Freddy, transfemminista (e lesboterrorista) in cammino. Traduzione e revisione di Serbilla, Elena Zucchini e feminoska.
Il giorno in cui mi dichiarai Trans fu il
giorno nel quale vidi e compresi chiaramente che non mi era necessario,
né vitale, essere donna o uomo per esistere. Ancora di più, capii
perfettamente che non desideravo in alcun modo esserlo per ancorarmi in
una delle due categorie sociali, poiché mai mi ero sentit@ felice o a
posto in nessuna delle due. Mi rinominai Frieda perché sono più
femminile che mascolina, e perché comprendo che mascolinità e
femminilità sono solo due poli di indottrinamento che non determinano
nulla, e tanto meno definiscono questo “essere uomo” o “donna” che si
conoscono nel nostro mondo sociale. Inventai pertanto questo nome, per
il potente dittongo che per me rappresenta il ponte sulla dicotomia dei
generi, il mio transitare tra Frida e/o Freddy che sono il passato al
quale sono stat@condannat@: ragazzo o ragazza. E dal quale sono fuggit@…
E dunque ora sono liber@, sono Trans. Non
transgenere né transessuale. Vedete: c’è una percezione diffusa secondo
la quale essere trans significhi, diciamo, nascere A e trasformarsi in
B, o nascere B e desiderare di essere A. Come dire, nascere
biologicamente “uomo” (per via del pene, che definisce il sesso) e
desiderare di essere percepit@ socialmente come una donna. O viceversa.
Nascere biologicamente “donna” (per via della vulva che definisce il
sesso) e desiderare di essere percepit@ socialmente come un uomo. Senza
dubbio questo avviene spesso, ma non rappresenta tutte le esperienze.
Quanto detto significa
trasgredire, oltrepassare una categoria di genere perché non c’è mai
stata appartenenza né identità con i ruoli che sono stati assegnati;
significa respingere una costruzione sociale che è stata imposta da una
divisione caratterizzata da un tratto genitale, e sicuramente questo è
trasgressivo, ma questa pratica continua ad inserirsi in un codice
binario. E con questa affermazione non intendo screditare né attaccare
chiunque abbia fatto tutto il possibile per modificare completamente il
proprio corpo o le proprie apparenze tramite gli ormoni o la chirurgia e
che ora si sente a proprio agio con ciò che è o sembra, poiché il solo
fatto di sfidare il genere e transitare completamente da A a B, o
viceversa, mi pare degno di tutto il rispetto e l’ammirazione di chi si
ribella.
Ma io non desidero questo per me. Io più
che trasgredire o oltrepassare (e non restare quello che ero), desidero
far esplodere i generi. La mia lotta quotidiana è contro la dicotomia di
genere, contro la sudditanza. Per questo mi dedico al transfemminismo.
Non voglio imprigionarmi nel genere, o nei ruoli, né rafforzarne gli
stereotipi. Voglio andare avanti e indietro, fluire, fluid@ come la mia
stessa sessualità (nel senso più ampio, non riducendola a mero atto
sessuale); la mia sessualità che è viva, e vive con me. Perché voglio
imbrigliarla? Perché ho intenzione di soggiogarmi? Non devo farlo. Non
sono tenut@ a farlo.
Non mi imprigionerò nella dicotomia di
genere, o in qualsivoglia orientamento sessuale. Io vado e vengo. Per
questo mi dichiaro Trans come trasformazione dell’idea egemonica, Trans
come attraversare l’eteronormatività, Trans come trasgressione al genere
e tutto ciò che comporta. Trans che trasgredisce l’obbligo, che annulla
l’ordine. Nat@ A e non sarò mai B, ma che la A si fotta. Possiamo
essere X o Z, H o T, o un po’ di tutto questo, o qualsiasi cosa ci passi
per la testa. A volte essere anche un pò’ B, e poi basta, per esempio. O
essere mostr@. O essere non essendo.
E per coloro che a questo punto del
testo, stanno già pensando che sono confus@ e in realtà sono queer,
ripeto, io sono Trans e per la decostruzione – distruzione della
dicotomia di genere metto oltre al mio discorso, il mio corpo. Ho deciso
di impiantarmi delle protesi al seno, sto risparmiando per questo. Seni
per una decisione politica, come atto performativo. Non quei grandi
seni rotondi, “con i quali non ho avuto la fortuna di essere nato”, per
diventare femminile al cento per cento, e quindi “la donna” (come
logicamente si pensa), ma piuttosto desidero quei seni per confondere,
per abitare lo spazio pubblico così profondamente normato e
trasgredirlo, terrorizzare. Non sono neanche interessat@ a dimagrire o
comprare abiti alla moda, o camicie scollate; il mio atto sarà anche di
post-travestitismo.
Con l’operazione ai seni il mio corpo
diventerà un luogo espropriato al sistema (che per primo me lo ha rubato
con i suoi obblighi), un’arma di distruzione simbolica. Quindi quello
che voglio raggiungere attraverso la chirurgia non è un modello di
bellezza patriarcale, ma una performance vivente che si muove nel mondo e
porta il terrore Trans in tutti gli spazi, le strade, le città. Questo
rappresenta la mia autodeterminazione e la mia scelta, come nel caso
della donna dal sesso e genere coincidenti ed eteronormati quando decide
di essere “madre”. Ma cosa succede dunque a queste decisioni
riguardanti il proprio corpo e prese liberamente, nella stessa società,
nel medesimo mondo sociale?
Succede che quando io affermo di essere
Trans e racconto della mia decisione di modificare il mio corpo, il
mondo mi vede come un appestat@, come un@ folle, mentre la donna incinta
è vista come trionfatrice, come se si trattasse del più grande successo
nella vita. A lei si assegna un riconoscimento sociale e a me il
pubblico ludibrio. Alle donne incinte costruiscono un piedestallo
sociale e cominciano a vederle così fragili come se si dovessero
rompere, mentre la maggior parte dei transessual@, trans e transgender
vede crollare la stima e i legami sociali, buttati fuori dalle proprie
case in una società che chiude loro le porte in faccia in quasi tutti
gli spazi pubblici. Quando una donna decide liberamente di restare
incinta, partorire e crescere dei bambin@, il mondo diventa un luogo
pieno di elogi, auguri, benedizioni, dolcezza, complimenti, tutt@ non si
stancano mai di lodarla, mentre per le persone trans che hanno deciso e
scelto liberamente di fare qualcosa con il proprio corpo e con un
progetto di vita, le prese in giro non cessano mai, né gli insulti,
l’invisibilizzazione, le battute, gli sguardi di disapprovazione, gli
abusi verbali e anche fisici.
Nel caso della donna incinta, la famiglia
e gli amici – e la società in generale – si prendono il compito di
supportarla e prendersene cura, la mandano dal medico e lo Stato la
riceve gratuitamente attraverso i controlli prenatali e gli attivisti la
sostengono di fronte alla violenza ostetrica (ma dei tassi di natalità
elevati e violenti nessuno dice niente).
Allo stesso modo, quando la persona trans
comincia ad assumere ormoni o sta per sottoporsi ad un intervento
chirurgico, le famiglie, gli amici e la società in generale si fanno
meno presenti, la accusano, e lo Stato la riceve con lo psichiatra, che
dovrà riuscire a convincere della propria decisione di transitare. Il
settore sanitario la accoglie, anche se il più delle volte con disprezzo
e abusi, trattandol@ come deficiente e senza dare ascolto ai suoi
sentimenti, solamente somministrando iniezioni di ormoni o farmaci
(quando ce ne sono), della serie: se non desideri essere un uomo, tieni,
diventa donna! O viceversa. Tutto in fretta e furia, senza chiarire
quali siano gli effetti collaterali dell’abbassare o alzare i livelli di
testosterone o estrogeni in maniera repentina. E questo nelle poche
città dove esistono leggi che lo consentono. Se non ce ne sono, le/i
trans dovranno pagare tutto di tasca propria, come possono. Dovranno
permettersi trattamenti e interventi chirurgici completi, e se non hanno
i soldi, l’olio da cucina o l’antigelo per auto aiuterà a far crescere
un po’ le natiche o i seni. Qui tutti se la cavano da sol@ e cercano di
sopravvivere, nonostante le relazioni annuali, in cui gli attivisti
esprimono la loro preoccupazione per i diritti sessuali di ogni singola
persona nel mondo e predicano “progresso”.
Quando decido e scelgo di essere Trans,
tutt@ mi diagnosticano, senza essere medic@: soffro di “disforia di
genere”, sono malat@ di mente e pazz@. Lo dice la scienza e l’OMS l’ha
pubblicato nella sua lista delle malattie mentali. Nessun@ parla di
violenza culturale, né di cultura della violenza contro di me e la mia
libera scelta, perché quello che faccio è “anormale “, naturalmente,
mentre quello che fa la donna incinta non è solo “normale” ma anche “la
cosa più naturale del mondo”. Questo il quadro a grandi linee. E io non
mi sto vittimizzando nel fare queste analogie. Più avanti chiarirò
questo punto.
Ciò che la donna incinta sta davvero
facendo (per libera e consapevole che sia la sua decisione), è
rafforzare ulteriormente la riproduzione di un sistema eteronormativo,
un regime eterosessuale che non è orientamento come ci viene detto, ma
un sistema di irregimentazione del mondo sociale, controllore dei corpi e
delle vite; quello che sta facendo è seguire rigide regole apprese che
stigmatizzano e spesso condannano altre biodonne come lei come “mezze
donne, donne incomplete o sbagliate”, perché “non si realizzano
attraverso la maternità.”
La scelta libera della donna incinta
trascende il personale e si ripercuote negativamente anche a livello
politico. Rafforza un mondo sociale che sta massacrando me come molte
altre persone dissidenti sessuali, compresa lei stessa, ci sta uccidendo
letteralmente (femminicidio, transfemminicidio). Allo stesso modo,
quello che faccio con la mia decisione libera è fottermene
dell’eterosessualità e delle altre finzioni politiche, delle imposizioni
sociali, del regime eterosessuale, distruggerlo, decostruirlo, perché
questo sistema semplicemente non è ‘normale’ o ‘naturale’.
Perché in tutto il mondo lo Stato
sostiene economicamente la gravidanza, anche nel caso di donne non
lavoratrici? Perché gli conviene. Si tratta di un investimento a breve
termine in questo modello globale di produzione e consumo. Gli conviene
continuare a riprodurre il modello di famiglia e, quindi, ottenerne
manodopera a buon mercato e produzione di massa; serve anche a mantenere
le persone educate, normate, tranquille, passive e apatiche, immerse
nella telenovela dell’amore romantico e del “e vissero felici e
contenti”. Dopodiché famiglia e Stato, insieme, manterranno più
facilmente controllat@/oppress@ le/i dissidenti sessuali, pianificando
di catturarli per normarli, smontarli o sterminarli.
Nel modello di produzione-consumo si
costruisce anche la Famiglia, che non è l’unico agente di
socializzazione, ma il più significativo. Questo modello sostiene la
moralità, la buona coscienza, la coercizione, il dominio, la
repressione, la violazione dei diritti umani fondamentali e delle
garanzie individuali, è un modello di ricatto emotivo-sentimentale ed
economico. La famiglia, oggigiorno riprodotta ugualmente dagli
omosessuali misogini e maschilisti e dalle lesbiche patriarcali, è un
modello oppressivo che funziona in modo molto visibile attraverso botte,
insulti e abusi, o forme delicate e sottili come: “figli@ mio, devi
raccontarmi tutto e dirmi ogni passo che fai perché siamo la tua
famiglia e tra noi c’è fiducia, vero?”. Oppure: “io ti controllo e ti
dico come fare le cose solamente perché ti amo e mi preoccupo per te,
faccio tutto per il tuo bene, ti rispetto.”
La chiamano ” educazione”. E con essa
violano pesantemente la privacy di ogni membro della famiglia: un legame
di sangue non rende un oggetto di proprietà. Ma sì, queste forme
saranno sempre camuffate da tanto amore, devozione, buone intenzioni e
preoccupazione, perché è per questo che esiste “l’amore familiare”.
Esiste una negazione consapevole del
fatto che la famiglia (e lo Stato) diano ordini e puniscano chi non li
rispetta; il loro irrazionale potere autoconcepito gli fa credere di
avere l’autorità che serve per poterlo fare. Le famiglie controllano,
soffocano, a volte lentamente, a volte in poche, rapide mosse. È chiaro
che lo Stato non smetterà di produrre famiglie, ma le persone possono
smettere di farne parte, scegliendo di non esserlo, non semplicemente
cambiando loro nome: famiglie diverse, nuove famiglie, altre famiglie,
due mamme, due papà, una madre single. Non vedo nessuna lesbica mettere
vestitini ai propri figli. Vedo invece molte donne incinte chiamare
principessa il feto “donna”, o “mio re”, guardando l’ecografia, per
esempio.
Questa stessa negazione consapevole fa sì
che si arrivi a dire che lo Stato “ha firmato e riconosciuto” i diritti
sessuali e riproduttivi per dare, a tutta questa diversità sessuale
eterosessuata (ma non dissente), ciò che stava chiedendo e quindi
tenerla buona, di modo che la smettesse di dare fastidio. Bisogna essere
consapevoli di quanto possa essere manipolatore un apparato di governo,
come lo Stato, che ha dato prove più che sufficienti di quanto
meschino, invadente, corrotto, ricattatore, dispotico e infido sia.
Smettere di creare famiglie, però, è
qualcosa di semplicemente impensabile per la maggior parte delle
persone. Cos’altro potrebbero fare, se non quello che hanno
interiorizzato alla perfezione sin da quando sono nat@? Ma allora che ne
è di tutte quelle persone che si dicono femministe, e parlano in
continuazione delle proprie preoccupazioni sulla violenza di genere e
sulla violenza contro le donne? Coloro che citano tanto Foucault e la
storia della sessualità volume uno, due, tre, e non si levano dalla
bocca il biopotere e la biopolitica, arrivando a dormire con la foto di
Simone de Beauvoir sopra la testata del loro letto a due piazze? Il loro
eterocentrismo si vede fin dalla luna. I loro discorsi contraddittori
dimostrano la loro incapacità di smettere di fare ciò che alla fine dei
conti aggredisce e stigmatizza le stesse persone che dicono di
sostenere. Staremo mica battendo l’eteropatriarcato capitalista?
Fare del femminismo istituzionale, metter
su famiglia e fare richieste a uno Stato che incarna la figura paterna
(maschio protettore, padre benefattore) è semplicemente la prima di
questa grandi contraddizioni. Eppure si piccano di essere totalmente
consapevoli e deseteropatriarcatizzate, parlano di parità di genere,
fossilizzandosi, tanto per cambiare, in una dicotomia carceraria.
Tirano su solo bambini e bambine; si riempiono la bocca di parità e di quote; inseriscono grandi donne, libere pensatrici e grandi artefici, in un sistema marcio che finisce per assoggettarle, contaminandole con la sua peste e obbligandole a lavorare alle sue regole e alle sue condizioni. Il problema non è la mancanza di capacità, bensì il modello a cui fanno riferimento. Ma si rifiutano di accettarlo. Si offendono se glielo si fa notare. Non gli bastano le dimostrazioni quotidiane, per strada o negli spazi pubblici. È più importante compilare il modulo, tenere sotto controllo le spese, potersi fare un selfie agli incontri internazionali. Alla fine “è già qualcosa”, dicono.
Tirano su solo bambini e bambine; si riempiono la bocca di parità e di quote; inseriscono grandi donne, libere pensatrici e grandi artefici, in un sistema marcio che finisce per assoggettarle, contaminandole con la sua peste e obbligandole a lavorare alle sue regole e alle sue condizioni. Il problema non è la mancanza di capacità, bensì il modello a cui fanno riferimento. Ma si rifiutano di accettarlo. Si offendono se glielo si fa notare. Non gli bastano le dimostrazioni quotidiane, per strada o negli spazi pubblici. È più importante compilare il modulo, tenere sotto controllo le spese, potersi fare un selfie agli incontri internazionali. Alla fine “è già qualcosa”, dicono.
Per cui, come avrete inteso, quello che
sto scrivendo non è un tentativo di vittimizzarmi per chiedere allo
Stato di smetterla di trattarmi come una cittadina di serie B: io non
voglio niente da lui a livello personale, né sto chiedendo alle
femministe attiviste istituzionali di prendersi “maternamente” cura di
me durante la mia rinascita Trans. Il mio transfemminismo è anarchico,
radicale e autogestito. In ogni caso il fatto che stia suggerendo che lo
Stato non dovrebbe sostenere economicamente le gravidanze e ciò che
implicano è solo un piccolo contributo che voglio dare, una sorta di
omaggio. Chi vuole un figlio che se lo paghi e se lo mantenga a partire
da una pianificazione della propria libera scelta. Che sia un suo lusso.
Che la si smetta di usare le tasse di tant@ trans per cose di questo
tipo, sarebbe anche l’ora di finirla di farci pagare persino la
transfobia che subiamo sulla nostra pelle. O per lo meno che, chi vuole
diventare “madre”, passi attraverso i colloqui psichiatrici per spiegare
il perché di questa sua decisione, in modo da convincere la scienza e
l’OMS del perché è sicura di poter partorire, allevare ed educare una
nuova persona. L’unico argomento della totale dedizione, della
protezione e della premura, radicato in un ruolo di genere inventato,
non dovrebbe essere sufficiente. Si tratta meramente di un mito
romantico, basato sul regime eterosessuale: pensare che molto amore e
molte cure renderanno tutto possibile è solo quello che le è stato fatto
credere.
In conclusione, per chiudere qui la mia
dissertazione, voglio chiarire alcune cose, visto che una delle lacune
del sistema educativo scolastico riguarda proprio la comprensione
scritta, e io sono molto stanca del fatto che si dica che io ho detto
questo o quello. Per cui questo testo, come avete letto, è totalmente
antimaternità, certo, ma non ho scritto da nessuna parte che dovreste
smettere di restare incinte e partorire. Quella che sto facendo, qui, è
una feroce critica per segnalare qualcosa che pare nessuno voglia dire
per paura di suonare politicamente scorrett@, compromettere il proprio
curriculum o essere tacciat@ di violenza, di non essere solidale o di
aver smesso di esserlo e perdere di conseguenza il sostegno, l’alleanza,
essere espuls@ dal collettivo, dalla ONG, fare brutta impressione, o
non ricevere più il saluto “fraterno e sorridente” di altr@ compagn@.
Ciò che voglio dire con questo scritto,
parlando di quelle che decidono, scelgono e desiderano la maternità e di
formare una famiglia, è che si smetta di diffondere nel mondo la
chiacchiera per cui una gravidanza, la maternità e il formare una
famiglia rappresentano il top, il massimo del massimo, perché anche con i
discorsi, il linguaggio e le proprie sciape sensazioni si continua ad
alimentare e ricostruire all’ infinito i ruoli di genere nella società.
Ciò che affermo è che bisogna smetterla
di raccontarsi fiabe rose e sdolcinate e di comprare happy meal
Mcdonalds, e ci si assuma con onestà le atroci responsabilità sociali
che implicano la gravidanza, il parto e l’allevamento dei figli@, in un
contesto così fortemente capitalista ed eteropatriarcale come
quello descritto, e che ci si renda conto, una volta per tutte, che
la “libera scelta” di alcun@ non ha luogo nella coppia, né tra le
quattro pareti del proprio nido d’amore, né è appannaggio della donna
sola, o accompagnata, che decide di farlo: una gravidanza oltrepassa
tutto questo e collabora direttamente con il sistema che ci fotte tutt@.
desde el mismo nacimiento la
intersexualidad, y después en la socialización del género a la
transexualidad, bajo el yugo heterosexual, ¡ahí te encargo!
Io Frieda affermo che la dovete piantare
di rispettarmi seguendo la logica del “io non ho alcun problema con le
persone trans”, dalla vostra schiacciante posizione di normalità. E di
quell@ che, sotto il giogo eterosessuale, tirano su solamente uomini e
donne, omettendo dalla stessa nascita l’intersessualità, e
successivamente dalla socializzazione di genere il transessualismo: io
vi sfido!
Perché siamo le/i trans che la dicotomia
di genere non ha potuto normare. E siamo qui, e non staremo zitt@, né ci
nasconderemo in un qualche luogo oscuro di modo che le/i vostr@
piccolin@ non si spaventino o “contagino” in qualche modo.
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