Sono in media duemilatrecento l'anno le donne afghane, tra i quindici e i quarant'anni, che decidono di togliersi la vita come «risorsa estrema di fronte a violenze subite». Lo ha reso noto all'inizio di questa settimana Kabul Faizullah Kakar, consigliere per la Salute pubblica del presidente Hamid Karzai. Secondo stime ufficiali, il 28% della popolazione femminile afghana soffre di depressione.
Oltre alla condizione di subalternità a padri, fratelli, mariti, che le sottopone alla schiavitù dei matrimoni forzati o a violenze tra le mura domestiche, le donne afghane sono spinte al suicidio, in particolare a ovest e a nord del paese, dalla costante condizione di insicurezza, oltre che da un aumento dei casi di stupro. Nella scelta di farla finita, una donna afgana ricorrerà, nella maggior parte dei casi, all'auto-immolazione. Fenomeno particolarmente diffuso nella zona di Herat, al confine con l'Iran, paese in cui è stato realizzato, nel 2002, il film Bemani, che narra la storia di una giovane che si dà fuoco per sfuggire a un matrimonio forzato.
Se la scelta dell'auto-immolazione può apparire incomprensibile, data l'atroce sofferenza fisica che precede la morte, dà allo stesso tempo la misura della disperazione che agita la popolazione femminile in Afghanistan. In molti casi poi, la bombola del gas e i fiammiferi, che una donna maneggia senza controlli in casa quotidianamente, diventano il mezzo più accessibile per compiere un gesto disperato, visto come unica, estrema, scelta di libertà.
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