Le mimose, certo. In verità sappiamo sempre meno che cosa fare, noi uomini, l’otto marzo. Le mimose poi, serre liguri a parte, sono gli agnelli del regno vegetale. Possiamo dedicare questa data a una bambina mai nata.
Una di cento milioni, forse duecento, che negli ultimi decenni non sono nate a causa dell’aborto forzato: da una legge di Stato o da un costume patriarcale o dalla loro combinazione. Ma cento milioni, forse duecento, fanno troppa impressione, cioè poca. Bisognerebbe guardarne una, una bambina del Punjab o dello Shanxi, e proporsi di strapparla alla sua speciale condanna a morte. C’è un’Italia che vanta il proprio impegno internazionale contro la pena di morte, c’è Nessuno tocchi Caino, c’è Sant’Egidio. Non c’è niente di paragonabile per un’infamia enorme come la cancellazione delle bambine: abortite a forza, affogate alla nascita, lasciate attaccate al cordone ombelicale a infettarsi, buttate in una discarica o in un rigagnolo di strada. Perché?
L’Economist ha appena risollevato la questione, dedicando la copertina alla strage delle bambine. Niente di nuovo, salvi i dettagli raccapriccianti che ogni ultima inchiesta porta alla luce. E la conferma della complicità fra arcaismi e tecnologia, ecografia itinerante nei villaggi a prezzi stracciati, pillole distribuite a man salva e fatte consumare fuori da ogni controllo e ogni scadenza, predilezione di sempre per il maschio e moderna aspirazione alla famiglia poco numerosa. Il Foglio, che fa del rifiuto assoluto dell’aborto la propria ragion d’essere, ha dato un gran risalto alla sortita dell’Economist, e ha fatto bene. Ma l’assimilazione fra la possibilità delle donne, delle singole donne, di abortire con un’assistenza sicura e senza essere perseguitate, e dall’altra parte la coazione statale o sociale ad abortire, è un punto debolissimo. La condanna delle demografie coatte di Stato è infatti conseguente al riconoscimento dell’autodeterminazione delle singole donne, che è a sua volta l’essenza più preziosa delle democrazie. Restino pure fedeli ai propri principii assolutisti la Chiesa cattolica o i laici persuasi della vita piena e intangibile dal momento del concepimento: ma non si rassegnino a farne un ostacolo all’impegno più comune e ampio contro il genocidio femminile – il ginocidio. E viceversa: i difensori della libertà personale delle donne non si ritraggano da quell’impegno, per la preoccupazione che riapra la strada alla persecuzione dell’aborto – come succede in certe vili prese di posizione dell’Unione europea. E, a maggior ragione, chi è allarmato per la sovrappopolazione umana non si lasci tentare dall’ammirazione per la mano libera dei regimi totalitari, capaci di arrivare in demografia e in ecologia dove le democrazie hanno le mani legate o inceppate. Questa inconfessata invidia si è tradotta non di rado nella complicità di organismi delle Nazioni Unite con le politiche di denatalità forzata e di soggezione delle donne.
Fra le innumerevoli guerre che attraversano la terra, e che usurpano lo stesso orrendo nome di guerra perché sono violenze sfrenate a senso unico, la guerra contro le donne è ferocissima: contro le bambine cui si impedisce di venire al mondo e di restarci, e contro le madri. La guerra, dice un penetrante pensiero classico, è il culmine della vocazione venatoria, la caccia all’uomo, e ha in palio la bionda Elena o le Sabine da rapire e le donne d’altri da stuprare. Si è mutata sempre più in una caccia alla donna, all’ingrosso nei territori delle culture e delle religioni patriarcali, al minuto nel femminicidio occidentale. Lo squilibrio demografico nelle zone più popolose del mondo ha raggiunto il rapporto di 100 donne per 120 uomini, e tocca in alcune regioni i 145 contro 100. Ed è ormai antico abbastanza da annoverare decine di milioni di uomini in età coniugale privi di compagne possibili: altro che proletariato.
“Entro dieci anni, un cinese su cinque non riuscirà a trovare moglie”, dice la solita Accademia cinese delle scienze sociali. Disordini criminali e rivolte sociali vengono attribuiti a questa peculiare carestia, cui fa da complemento l’esportazione di donne da paesi schiantati come la Corea del Nord. È probabile che il genere umano sia alla vigilia di una mutazione tecnica e genetica che ne dirotti impensabilmente la storia naturale. Ma quanto agli umani cui ancora apparteniamo, ai mortali e ai nati di donna, nessuna mutazione è esistita altrettanto catastrofica di questa che investe il posto delle creature femminili, e già riduce di un quinto la vantata metà del cielo in mezzo mondo. E che è legata strettamente a un fenomeno sconvolgente, e singolarmente banalizzato, come la scomparsa di fratelli e sorelle – sorelle soprattutto: cui si cercherà invano un succedaneo nella retorica della sorellanza e della fraternità metaforica. Ci mancherebbe altro che si tornasse al pregiudizio antico contro il figlio unico, “viziato” – del resto sostituito oggi dal nipote unico di quattro nonni o più. Figlio e figlia unici liberamente voluti o accolti sono una meraviglia. Né ha molto fiato la disputa ricorrente sul diritto o il merito rispettivo della donna madre o della donna che non ne voglia sapere – in Francia in questi giorni ci si accapigliano di nuovo. Ma la nostra umanità perderebbe in solido le sue radici quando perdesse sorelle e fratelli, Antigone e sia pure Caino.
Adottiamola, a qualunque distanza, la bambina che il mondo non vuole, e facciamola venire al mondo. Andiamole in soccorso, e forse lei ce la farà a salvare il mondo che la bracca fin da prima della culla, fin dall’annuncio, vero Edipo dei nostri giorni. E se non a salvarlo, almeno a prolungarne per un tratto la bellezza.
Fonte: repubblica.it
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