Lavorare con gli "stupratori occasionali" presenta diverse difficoltà. Una delle principali è la negazione del reato. Si considerano quasi tutti innocenti e vittime di un fraintendimento o di un complotto: "è stato un bacio mal interpretato", "il carabiniere dall'animo poetico ha romanzato la dichiarazione della donna" etc.
Negare il reato per loro ha un costo alto davanti alla legge. Non beneficiano dell’alleggerimento di circa un terzo della pena previsto per chi si riconosce colpevole; invece di fare 4 anni ne fanno 6 per es.
La seconda difficoltà che emerge dal
lavoro con loro è la loro forte irritazione per una società che, da un
lato promuove e trasmette a tutti i livelli una cultura maschilista e
una visione dei ruoli maschili e femminili ben determinata, e dall’altro
si stupisce di chi ha concretizzato certi precetti, e li etichetta come
i peggiori mostri. Come non pensare all’immagine della donna nella
pornografia o alla sua versione chic nella pubblicità, o alla religione
che assegna alla donna il ruolo molto limitante di ‘costoletta
sussidiaria’ dell’uomo, o ancora ai commentatori delle partite di calcio
che invocano la necessità di “penetrare la difesa” o “violare la porta
avversaria”, solo per fare qualche esempio.
In questo contesto sarebbe di cattivo
gusto andare a dare lezioni ai detenuti su come considerare le donne. E
infatti non sono disposti a farsi dare lezioni, anzi, sono loro a “poter
aiutare chi sta fuori” e quello che chiamano “lo scontro di opinioni”
può anche finire male, visto che scelgono di fare più anni di carcere
anziché ammettere il reato.
Per questo motivo il Teatro Dell’Oppresso (TDO) si rivela un metodo privilegiato per affrontare la
violenza maschile. Il TDO aiuta le persone a far emergere ed affrontare i
disagi e le difficoltà vissute riportandole al sistema più generale che
rendono possibili questi disagi. Si parte dal materiale che si
manifesta nella spontaneità dei giochi e delle improvvisazioni. Tutto si
fa attraverso tecniche ludico teatrali.
Teoricamente il TDO si usa con le
persone più oppresse, con chi subisce un sistema oppressivo
(maschilismo, razzismo e capitalismo sono i più comuni), ma sarebbe
impossibile affrontare, smontare e sormontare il maschilismo evitando il
confronto con chi lo veicola.
Si usano tecniche graduali per mettere
in scena le situazioni in cui i detenuti si sentono in difficoltà nel
gestire le proprie emozioni, pensieri e reazioni. Si parla quindi di
disagio più che di oppressione.
Si lavora molto sulle situazioni
‘pericolose’, quelle che potrebbero far tornare in carcere. Si lavora
molto sull’approfondire la comprensione delle situazioni difficili
vissute.
Ciascuno mostra la propria scena
riguardante un problema che tocca tutti (per es. le separazioni). Come
facilitatore pongo solo delle domande per guidare l’analisi del problema
rappresentato: “Perché ha perso la pazienza in questa scena di
separazione”, “secondo voi cosa lo fa sentire giustificato a usare
questa strategia?”, “in quale momento si è azionato il pilota
automatico?” etc.
Poi si propone ai partecipanti di
mostrare cosa farebbero nei panni dell’uomo in difficoltà. “Come
gestiresti questa separazione ?”, A turno entrano in scena per mostrare
diversi modi di affrontare la situazione. Questo innanzitutto permette
loro di vedere che, per ogni situazione, non c’è una reazione meccanica
obbligatoria, un ‘dovere maschile’, un’emozione scontata, e sono loro
stessi a dimostrarlo. Infatti sono orgogliosi di mostrare che sanno
trovare alternative e soluzioni. In questo modo allargano il loro
orizzonte di possibilità e di ruoli, laddove il carcere potrebbe averlo
ristretto, condannandoli all’identità di “stupratori”. Scoprono così che
non c’è più un solo modo di rispondere a un disagio.
A volte chiedo anche di invertire i
ruoli: chi ha agito violenza deve recitare il ruolo della donna che
voleva separarsi. Mettendosi nei panni della donna, si indaga sulle
emozioni che si provano in quel ruolo e si lavora sulla nozione di
autonomia: “può una donna decidere di separarsi?”, “perché solo a certe
condizioni?”, “chi decide in quali condizioni?”. Solo gli Italiani hanno
accettato di recitare i ruoli femminili; ma tutti sono rimasti
spiazzati da questo cambiamento di prospettiva.
Tutte le scene vengono recitate dopo
aver fatto una serie di giochi ed esercizi progressivi che permettono di
uscire dalla spirale delle giustificazioni e del controllo di tutto ciò
che si esprime. Si sviluppano nuove capacità nella spontaneità e nelle
sfide da sormontare, nelle emozioni da gestire, nelle collaborazioni da
creare, si lavora sulla comunicazione e l’ascolto, molto limitati anche
dalle condizioni di detenzione. Attraverso questi giochi i detenuti
possono rendersi conto, guidati dal facilitatore, delle difficoltà che
hanno e delle necessità di lavorarci sopra.
L’obiettivo in particolare è quello di
fare emergere nella spontaneità i principali disagi affrontati nelle
relazioni tra i sessi. Alcuni disagi emergono in modo costante. Prima di
tutto la paura che la donna possa essere o diventare indifferente. Sia
l’indifferenza di una donna conosciuta, sia quella di una donna che non
si conosce affatto. Non a caso l’approccio è un tema chiave. La paura
del rifiuto, il timore di non essere all’altezza, di non “rimorchiare”
bene fanno dell’approccio un momento di alta tensione. Nell’approccio si
cerca di conquistare il consenso della donna, ma questo implica che
siano già determinati i ruoli di chi approccia e chi si fa approcciare.
Inoltre non basta un solo consenso: per es. la donna può accettare di
dire l’ora ma non di andare a bere una birra. Quindi vanno negoziati
diversi consensi.
Durante il laboratorio abbiamo vissuto
momenti bellissimi. Un detenuto molto educatamente voleva forzare una
donna a sedersi, alla fermata dell’autobus. Un altro la voleva
convincere che c’erano degli stupratori in giro da cui lei doveva essere
protetta. Insomma ci è voluto poco affinché il più maschilista di
tutti, dopo 30 anni a Regina Coeli, riconosca: “non so rimorchiare”. Da
lì è iniziato un percorso sulla capacità di entrare in relazione con
l’altro sesso molto partecipato. Ogni volta si analizzavano le nuove
modalità proposte in scena. Un giorno ha partecipato al laboratorio una
delle operatrici della Cooperativa Be Free, all’origine del progetto,
che dopo le analisi e le valutazioni dei detenuti, ha dato il suo parere
sui diversi approcci; quel parere è stato accolto dai detenuti come la
massima verità sul tema.
Anche in questo caso, lavorare
sull’approccio “pesante”, che va direttamente a sondare la possibilità
di avere una relazione sessuale, ma invertendo i ruoli tra uomo e donna,
(tra chi è attivo e chi è passivo nelle relazioni sessuali secondo gli
stereotipi) ha dato grandi risultati.
I concetti relativi al consenso e
all’autonomia sono fondamentali e il detenuto ha grande voglia di
approfondirli, purché non sia fatto in modo infantilizzante, purché
possa essere lui il perno dell’evoluzione e del cambiamento.
Probabilmente questo lavoro è stato
troppo breve per produrre risultati valutabili e pretendere grandi
cambiamenti. Ma ha permesso tuttavia di individuare le piste fertili che
consentono di evitare lo scontro improduttivo da un lato e le
collusioni rischiose dall’altro. È un lavoro che andrebbe fatto in modo
costante con i detenuti. Ma come spiegare e far capire che i detenuti
“stupratori” hanno anche bisogno di imparare a entrare in relazione con
persone di sesso diverso? Come argomentare che l’approccio, il momento
della prima conoscenza di un'altra persona, è un momento privilegiato e
complesso per tutte le dinamiche che ci si manifestano, tutti i
pregiudizi e gli stereotipi che ci entrano in gioco, tutte le emozioni
che scatena? Il TDO è un metodo privilegiato per affrontare questi temi
perché offre una palestra per lavorare su situazioni quotidiane,
normalmente poco prese in considerazione, o delicate da affrontare.
Ancora più urgente è convincere i
politici e gli amministratori che è necessario affrontare le tematiche
delle relazioni fra i sessi a partire dai ragazzi e dalle ragazze e che
bisogna cominciare questo lavoro sulla capacità di entrare in relazione
e di gestire la frustrazione delle separazioni laddove non si è ancora
consolidato il modello stereotipato al quale si aderirà. Non a caso
Parteciparte lavora molto con il TDO sugli stereotipi e sulle situazioni
conflittuali che ne scaturiscono nelle scuole.
Miriamo alla partecipazione attiva e
numerosa dei ragazzi e delle ragazze. Sono loro a creare le scene, sono
loro ad analizzare i problemi di genere, ad insegnarci quali sono le
regole del maschilismo. Regole scomode anche per i maschi. Con la
distanza che da la messa in scena, questo diventa evidente a tutte/i.
Nei laboratori i ragazzi e le ragazze
sono ben contenti di potersi confrontare liberamente su quali sono i
problemi legati al genere che vivono nella loro quotidianità, di mettere
in discussione e trasformare i modelli, di provare alternative per
costruire rapporti creativi e rispettosi e di poter essere i
protagonisti di questa ricerca e di questa trasformazione. Spesso
vogliono anche vedere come ‘l’adulto’ se la cava nelle situazioni…
Perciò più che ricette e kit
metodologici, che mi vengono spesso chiesti, credo che il facilitatore
debba essere pronto a mettersi in gioco, ad improvvisare sulle
problematiche di genere, a proporre il gioco più appropriato al momento,
ma più di tutto deve avere rielaborato anche lui i suoi vissuti
rispetto ai problemi di genere. Ho scoperto questo grazie a Maschile
Plurale, un’associazione dove si condividono esperienze, si rielaborano
vissuti, si parte da se stessi, si fa politica, con un’ottica di genere.
Negli spettacoli, dove il pubblico
interviene per provare soluzioni, quando una persona prende posizione
contro un modello o per inventarne uno diverso, lo fa in nome di tutti.
L’evoluzione è sempre decretata e celebrata dal pubblico e sembra che
sia poi difficile tornare indietro e riprodurre modelli contro i quali
si è lottato, in scena, davanti a tutti, con tanti.
Dato il duplice lavoro – di
rielaborazione del passato e di costruzione del futuro - crediamo che
abbia un’enorme rilevanza ed efficacia il lavoro sulla prevenzione,
prima di quello sul recupero in carcere con i detenuti. Anche perché
aspettare il disastro ha un costo altissimo per tutta la società.
Infatti il fenomeno della violenza
maschile sulle donne è tanto commentato, ma ben poco combattuto alle
radici. Si parla tanto di donne vittime, ma quando si parla di uomini
violenti è solo per mostrarne uno strano o straniero, uno irregolare
insomma.
Ci si potrebbe quasi chiedere se
questa comunicazione deleteria che tace i costi del maschilismo fa
comodo per ricordare alle donne più emancipate che c’è sempre un uomo
pronto a rimetterle in riga. E se i media sono i motori di questa
campagna controproducente, sarà una bella sfida per il teatro far capire
e scardinare le dinamiche politiche che sottendono il problema. Sfida
che a Parteciparte abbiamo deciso di raccogliere con spettacoli come “Da
paura”, “Amore Mio” o “Brucio d’amore”.
In pieno centro, il Carcere di Regina
Coeli ci offre la visione più completa delle periferie del maschile, ai
confini, dove si consolidano le regole più dure, quelle che giustificano
poi i reati più violenti in tutta la società. Dalla periferia al centro
questo materiale diventa un tesoro che permette di individuare alla
radice, i moti, le sentenze, le molle più discrete che potrebbero
permettere al peggio di accadere. Il Teatro Dell’Oppresso rende visibile
tutto questo, in modo che non si possa più non vedere. Ma ci permette
anche di decostruire un maschile misero che non regge più il peso di
stereotipi invivibili. Ci dà la voglia e gli strumenti per costruire un
maschile aperto, plurale, capace di accogliere l’autonomia femminile e
tutto l’arcobaleno di desideri tra i sessi.
Fonte: http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=37036
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