Il 30 gennaio 2017 alle ore 18.15 si terrà presso il caffè libreria Perditempo, in via san Pietro a Maiella
n. 8 a Napoli, la presentazione del libro “Diventare Uomini. Relazioni maschili
senza oppressioni” di Lorenzo Gasparrini, edito da Settenove.
La presentazione vedrà la partecipazione
dell’autore, della professoressa Elena Tavani (l’Orientale, Napoli) e dei
promotori dell’evento, la lettura del testo e un dibattito sulle tematiche del
libro stesso animeranno la serata.
Diventare Uomini. Relazioni
maschili senza oppressioni è un agile saggio sulla maschilità, scritto da un
punto di vista femminista ossia "a partire da sé" che, tenendo conto
degli studi femministi e sull'identità di genere, individua, ripercorrendo le
varie fasi della crescita di un uomo, i modi attraverso cui il patriarcato
opprime non solo le donne e tutte le altre soggettività inferiorizzate, ma
anche gli uomini fin dall'infanzia.
L’analisi della maschilità, della
costruzione dell’identità e del ruolo di genere, rappresentano la guida alla
comprensione del sistema di potere che genera disparità e violenza con ricadute
negative per tutta la società.
La scarsa bibliografia in lingua
italiana sull’antisessismo maschile si arricchisce con Diventare Uomini.
Relazioni maschili senza oppressioni, di un testo che con la sua prosa
divulgativa chiara e diretta, senza mai cedere a banalizzazioni, fornisce un
prezioso contributo.
In questo momento storico di
apertura dei movimenti femministi, con la quarta ondata, l’inclusività è la
chiave per l'avanzamento verso la conquista di una reale parità. Uomini
antisessisti che decostruiscono il proprio privilegio e il costo che questo
privilegio ha per ognuno dovrebbero essere la norma nel panorama culturale
italiano, invece il libro di Lorenzo Gasparrini risulta essere una grande
novità da questo punto di vista.
Lorenzo Gasparrini è dottore di
ricerca in Estetica, attivista e blogger. Ha fatto parte e scritto con il
collettivo Femminismo a sud e Intersezioni. I tanti blog e luoghi virtuali nei
quali scrive sono raccolti in lorenzogasparrini.noblogs.org e da due anni porta
avanti il gruppo di discussione sulla maschilità "Gentlemen's Club"
(un nome ironico) presso il collettivo Cagne sciolte di Roma.
Quella che segue è la traduzione apparsa su Intersezioni di un articolo tratto da http://everydayfeminism.com/2014/11/myths-people-sex-industry/ a cura di feminoska e Lorenzo Gasparrini, revisionato da Eleonora.
L'articolo tratta dei miti che ruotano attorno alla prostutizione e, non solo inquinano la discussione su questo fenomeno, ma spesso mettono in pericolo le persone che attraversano quest'esperienza, per volontà o costrizione.
Vivono barcamenandosi tra visibilità e invisibilità,
criminalizzazione e cittadinanza, sicurezza e pericolo, sfruttamento e
autodeterminazione.
Le persone coinvolte nell’industria del sesso oscillano costantemente
tra questi estremi. Tra stigma e invisibilità, subiscono violenze e
discriminazioni fortissime, e ciononostante finiscono troppo spesso per
essere tagliate fuori dal discorso della violenza sulle donne. A causa
della rappresentazione miope e poco accurata che ne danno i media e
dello stigma culturale che circonda il commercio del sesso, troppi sono i
preconcetti che circondano le persone coinvolte nell’industria del
sesso. Storicamente, il femminismo ha semplificato (e continua a
semplificare) la questione, non si fa fatica a imbattersi in una delle
cosiddette “guerre del sesso” delle femministe. Troppo spesso non
riusciamo a vedere la complessità e la varietà dei soggetti coinvolti
nel commercio del sesso, le motivazioni che stanno alla base della loro
scelta, e il grado di autodeterminazione o, al contrario, coercizione
vissute. Forse anche tu, o qualcun@ che conosci, sei stat@ coinvolt@
nell’industria del sesso. O magari, quello che sai in proposito
rispecchia le rappresentazioni ipersemplicistiche del traffico sessuale e
delle sex worker sui media, e non sei sicur@ di capire che differenza
c’è tra le due cose. Malgrado ciò, puoi essere un alleat@ delle persone
coinvolte nell’industria del sesso. Ma dato il numero di luoghi comuni
esistenti relativi all’industria del sesso, è utile sfatare alcuni dei
miti che impediscono di vedere il fenomeno per quello che è in realtà.
Mito#1: Le parole che usiamo per descriverle non contano granché.
La nostra cultura descrive le persone coinvolte nell’industria del
sesso come prive di valore, sporche, tossiche, vittime, sopravvissute,
portatrici di malattie, poco raccomandabili, criminali, come “troie” e
“puttane”. Anche coloro che non vogliono utilizzare etichette
deumanizzanti spesso non sanno come riferirsi alle persone che lavorano
nell’industria del sesso. Molto spesso ti sarà capitato di sentire la
parola ‘prostituta’. E anche se alcune di queste persone potrebbero
identificarsi proprio così, questa parola ha forti connotazioni
negative, e molte preferirebbero non sentirsi chiamare così. Dal momento
che esistono differenze enormi tra le persone che entrano
volontariamente nel commercio del sesso, quelle costrette a farlo e
tutte le variegate situazioni che stanno in mezzo a questi due estremi, è
importante utilizzare il linguaggio in modo da riflettere questo
aspetto. Per questa ragione, coloro che entrano volontariamente nel
commercio sessuale generalmente preferiscono il termine ‘sex work’ e
spesso si identificano come sex worker. Questo termine è stato coniato
dalle sex worker per potersi rinominare e per riformulare il concetto
per sé stesse – e definirlo in quanto attività professionale e scambio
economico. Il termine ‘tratta’, invece, fa riferimento a persone
costrette con la forza, l’inganno e/o la coercizione a vendere
prestazioni sessuali. Se sono minori, sono vittime sopravvissute allo
sfruttamento commerciale sessuale di minori, e/o alla tratta. Per via
della loro età, non è necessario l’uso di forza, inganno e/o coercizione
perché venga considerata tratta, secondo le leggi federali statunitensi
e alcune leggi nazionali.
Queste categorie non sono in realtà così semplici come sembrano, né sono
fisse. Spesso le esperienze delle persone si situano in qualche punto
lungo questo spettro, e le ragioni per cui le persone si trovano
nell’industria del sesso possono cambiare nel corso del tempo. Ora stai
facendo le ipotesi più disparate riguardo alle persone che rientrano in
queste categorie, anche ora che stai leggendo? Nel discutere questo
problema, può essere utile esaminare i propri pregiudizi e preconcetti
sulle le persone coinvolte in questa industria.
In questo articolo, si fa riferimento all'”industria del sesso”, cioè
alle persone e alle attività coinvolte nello scambio di atti sessuali in
cambio di soldi, riparo, cibo, vestiti e altri beni. Questo termine è
usato qui in senso più ampio per includere non solo prostituzione di
strada, bordelli e agenzie di escort, ma anche coloro che sono coinvolti
nel sesso di sopravvivenza, nell’industria del porno, negli strip club,
e nel sesso con contatto indiretto (via telefono o Internet).
Usiamo il termine “persone nell’industria del sesso” per riferirci a
persone che offrono sesso a pagamento. Tuttavia, di solito vi sono altri
soggetti coinvolti con molto più potere e privilegi nell’industria del
sesso – sono soprattutto trafficanti e acquirenti.
Mito#2: Le persone nell’industria del sesso sono tutte etero,
povere, adulte, donne americane di colore che lavorano nelle strade.
Quando immagini una persona che fa parte dell’industria del sesso,
che aspetto ha? Anche se c’è un buon numero di persone nell’industria
del sesso che rientra nelle categorie elencate sopra, al suo interno c’è
anche un’ampia e varia gamma di identità, e molte persone vivono e
lavorano dove si intersecano molteplici forme di oppressione.
Dal momento che la povertà e la mancanza di opportunità di lavoro sono
spesso fattori che favoriscono l’ingresso di molte persone
nell’industria del sesso molte persone nell’industria del sesso sono
povere e di colore, ma molte altre provengono da ambienti borghesi, e
tante sono bianche.
Troppo spesso, però, sono soprattutto donne e bambini di colore poveri a venire criminalizzati e incarcerati.
Nel settore del sesso, molte sono le donne eterosessuali (sia cis che
trans), e la maggioranza delle persone che comprano sesso sono uomini
eterosessuali, ma all’interno dell’industria del sesso consumano e si
muovono persone di ogni genere e sessualità. L’immagine stereotipata del
lavoratore del sesso è quella di una persona che “lavora sulla strada”,
ma la tecnologia e Internet hanno un ruolo importante nell’industria
del sesso e infatti, sempre più spesso, il sesso a pagamento passa
attraverso la rete, mentre si continua a utilizzare altre forme di
tecnologia come il telefono e i film. I minorenni costituiscono una
parte importante dell’industria del sesso, e tendono ad essere bersagli
facili dei trafficanti americani. Per via della loro età, i minori sono
spesso marginalizzati e più vulnerabili, e questo vale per bambini e
adolescenti di qualsiasi genere e razza. Inoltre, a causa dell’omofobia e
della transfobia, molti giovani LGBTQIA+, in particolare di colore,
scappano o vengono cacciat@ di casa, e lasciat@ senza un tetto. Ciò
significa un rischio maggiore che debbano dedicarsi al sesso a pagamento
per sopravvivere, o allo sfruttamento sessuale a pagamento. Anche se la
maggior parte dell’industria del sesso negli Stati Uniti riguarda
cittadini statunitensi, esistono molte reti nazionali straniere che
fanno entrare negli USA donne da altri paesi per inserirle nel commercio
del sesso a pagamento. Alcune di loro devono anche affrontare i
pericoli derivanti dall’essere senza documenti e dall’incapacità di
esprimersi in lingua inglese o di comprendere la società americana, che
sono spesso ulteriori mezzi di controllo su di loro. L’industria del
sesso esiste, come è evidente, in forme molto diverse e coinvolge
soggettività assai differenti e, nonostante tutte queste differenze,
coloro che sono già esclus@ e marginalizzat@ a livello sociale devono
affrontare livelli assai più elevati di violenza individuale e
strutturale rispetto alle loro controparti privilegiate.
Le soggettività che si trovano all’incrocio di identità privilegiate –
come coloro che sono bianch@ e/o benestanti a livello sociale e/o
economico – tendono a offrire sesso a pagamento attraverso mezzi meno
visibili (per esempio, la rete) e sono meno esposte alla possibilità di
venire arrestate. Nel contempo, coloro che sono più visibili e che sono
soggett@ a livelli di controllo più alti – come le persone trans, nere e
latin@, senza documenti, o con precedenti criminali, sono prese di mira
e si trovano ingiustamente ad affrontare arresti e incarcerazioni in
percentuali molto più elevate.
Mito#3: Le persone nell’industria del sesso? O sono tutte vittime o sono tutte autodeterminate!
Troppo spesso il discorso che ruota intorno all’industria del sesso
si riduce alla nozione semplicistica che dipinge l’industria del sesso
come un’attività sessista e vittimizzante, o al contrario come
un’attività che dà forza e autodeterminazione alle donne. In realtà è
ambedue le cose, nessuna delle due, e molto altro ancora. Le persone
entrano nell’industria del sesso per vari motivi, che potremmo
raggruppare in tre macro-categorie:
– Tratta: persone costrette ad entrare nell’industria del sesso tramite
l’uso della forza, la frode o la coercizione se adulte, o semplicemente
costrette a fare sesso a pagamento se minori (sfruttamento sessuale di
minori).
– Necessità economica: persone convinte che il sesso a pagamento sia
l’unica o la più percorribile modalità di guadagno per sopravvivere e
soddisfare i propri bisogni.
– Sex work per scelta: persone adulte che scelgono di offrire sesso a pagamento.
Anche se abbiamo voluto semplificare utilizzando queste tre categorie,
ciò non significa che per le singole persone il procedimento sia sempre
così semplice e lineare. Molte delle persone nell’industria del sesso ci
si sono trovate per ragioni o motivazioni diverse, che possono anche
cambiare con il passare del tempo. Per esempio, molte donne cis e trans
che si trovano ad affrontare una società transfobica e sessista, possono
decidere di vendere sesso a pagamento perché è l’unico modo che hanno
di sopravvivere e di sostenere le proprie famiglie. Alcune sono
costrette da persone che hanno potere su di esse. Altre scelgono di
entrare nell’industria del sesso e la vedono come un’altra forma di
lavoro possibile. Alcune ancora la trovano un’esperienza arricchente e
sono contente di dedicarsi al sesso a pagamento.
Una minorenne che venda sesso a pagamento viene considerata
automaticamente una vittima di tratta e/o di sfruttamento sessuale di
minori secondo le leggi federali (sebbene storicamente, e spesso ancora
oggi sia considerat@ alla stregua di criminale dalle leggi dello stato).
Ma spesso, dalla sua prospettiva, questa attività è percepita come
autodeterminata poiché svolta per il proprio “fidanzato” adulto (ovvero
il pappone).
A causa di questa vasta gamma di esperienze e delle differenze nel
passato e nelle prospettive delle diverse persone nell’industria del
sesso, la dicotomia vittimizzazione/autodeterminazione è chiaramente
falsa e semplicistica.
Mito#4: Le persone nell’industria del sesso non possono essere stuprate.
Perché supponiamo che vi siano persone che “non possono essere stuprate”? Questo mito deriva da idee perpetuate dalla cultura dello stupro,
che considera determinate categorie di persone – coloro che fanno sesso
per denaro o altro – come impossibili da forzare ad avere un rapporto
sessuale. Secondo questo preconcetto, le persone all’interno
dell’industria del sesso non pongono confini né hanno potere decisionale
sui propri corpi, e pertanto non possono rivendicare (o non
rivendicare) il proprio consenso. Se una cultura considera una persona
come priva della proprietà del proprio corpo, allora quel corpo diventa
un corpo altrui, che non ha la possibilità né la capacità di dire sì o
dire no.
Questo è un problema non solamente collegato allo stigma, ma che ha
conseguenze reali nei rapporti con i clienti, la polizia e altri
soggetti.
Secondo due studi del Sex Workers Project, il 17% delle sex worker
intervistate ha denunciato molestie sessuali, abusi e stupri da parte
della polizia. Ma dal momento che le persone all’interno dell’industria
del sesso sono tanto marginalizzate e possono essere venire incarcerate,
questi equilibri di potere permettono che sulle violenze compiute dalla
polizia non vengano effettuate indagini. In realtà, la costrizione agli
atti sessuali da parte dei poliziotti, così come la “scelta” tra il
fare sesso o andare in galera, è un’esperienza assai comune. Denunciare
questi eventi (ed essere prese seriamente) è abbastanza fuori questione.
Al contrario, quando subiscono violenze sessuali, la nostra società
tende a incolpare le persone nell’industria del sesso dichiarando che
“se la sono cercata”. Ma la necessità del consenso nel sesso non
scompare solo perché una persona fa sesso in cambio di soldi o altri
beni.
Mito#5: le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi di vendere i propri corpi.
Sappiamo bene che la nostra cultura fa sentire in colpa le donne che
fanno sesso e ciò si applica ovviamente anche all’industria del sesso.
Lo stigma e l’idea che le persone nell’industria del sesso dovrebbero
vergognarsi, o che sia necessario farle sentire in colpa in maniera da
farle uscire dall’industria, è completamente sbagliata. All’interno
della categoria della tratta, questa stigmatizzazione ha condotto ad un
altra dicotomia falsa eppure molto diffusa: quella che distingue tra
vittima buona/vittima cattiva. Una “vittima buona” è qualcun@
(solitamente bianca, etero e giovane) che non aveva assolutamente alcuna
idea del fatto che avrebbe dovuto vendere sesso e che è stata portata a
farlo con l’inganno. Una ” vittima cattiva” è una persona (solitamente
di colore) che sapeva che avrebbe dovuto vendere sesso e “ciononostante”
ha deciso di dedicarcisi – anche quando vi è abuso per costringerla a
restare.
Janet Mock, discutendo della sua esperienza nell’industria del sesso,
trattò eloquentemente il tema della vergogna nel suo libro “Ridefinire
la realtà”: “non credo che utilizzare il proprio corpo – spesso l’unico
bene posseduto dalle persone marginalizzate, specialmente nelle comunità
di colore povere e a basso reddito – per prendersi cura di sé sia
vergognoso. Trovo vergognosa una cultura che esilia, stigmatizza e
criminalizza coloro che sono coinvolte in economie sotterranee come il
sex work quale mezzo per passare dall’indigenza alla sopravvivenza.”
Indipendentemente dalla ragione che le ha portate a compiere quella
scelta, le/gli alleat@ dovrebbero supportarle e lavorare per distruggere
lo stigma che grava sulle persone nell’industria del sesso. Se vogliono
lasciare il commercio sessuale, dovremmo fornire loro servizi di
supporto che le aiutino nella transizione. E se non vogliono, dovrebbero
comunque essere sostenute. I servizi destinati alle persone
nell’industria del sesso dovrebbero essere organizzati in una maniera
tale da rispettare la loro umanità e sostenere la loro capacità di
iniziativa.
Mito#6: Le persone coinvolte nell’industria del sesso sono criminali.
Correzione: sono ‘criminalizzate’. Le persone nell’industria del
sesso sperimentano un’intera gamma di violenze e minacce emotive,
culturali e fisiche nelle proprie comunità e molto più spesso da parte
della polizia. E chi è il bersaglio preferito della polizia e del
sistema penale? Le donne di colore. Le donne trans. Le persone che
vendono sesso per strada alla luce del sole. Le persone minorenni. Le
persone con crimini o uso di droghe alle spalle. Le persone povere. Le
persone straniere o senza documenti. In altre parole, le persone che si
trovano già in una situazione di marginalizzazione e oppressione.
Nonostante vengano criminalizzate anche le persone che comprano sesso a
pagamento e i trafficanti, le forze di polizia non si focalizzano su
questi soggetti tanto quanto su coloro che forniscono sesso a pagamento.
Al contrario sono trattati con un’attitudine buonista stile ” i ragazzi
sono pur sempre ragazzi” anche quando sono coinvolti dei minori. Le
donne trans di colore sperimentano la discriminazione della polizia, sia
che siano coinvolte o meno nell’industria del sesso. le donne Trans di
colore spesso vengono schedate, arrestate e trattenute per adescamento
poiché vengono considerate, da parte delle forze dell’ordine, attraverso
la lente degli stereotipi razziali e sessuali. Fino a poco tempo fa, in
ogni stato USA, i minori sotto i 18 anni coinvolt@ nell’industria del
sesso venivano criminalizzat@ nonostante esistano leggi contro lo stupro
e gli abusi sessuali su minori. Grazie alla legge “New York Safe Harbor
Law” del 2008 e alle leggi di altri stati che sono seguite, stiamo
assistendo ad una minore criminalizzazione e a una maggiore offerta di
servizi a loro sostegno, anche se molto va ancora fatto.
***
Nonostante tutti i miti che circondano le persone nell’industria del
sesso, è chiaro che esiste un ampio spettro di esperienze vissute, e
quell@ di noi che scelgono di essere alleat@ hanno molto da imparare.
Possiamo stare al fianco delle persone nell’industria del sesso lottando
contro lo stigma, per la depenalizzazione, e fornendo servizi per
aiutarle ad essere più sicure. Indipendentemente dal fatto che qualcun@
voglia lasciare il settore o rimanervi, possiamo lottare per difendere i
diritti delle persone nell’industria del sesso e farlo attraverso
modalità che ne favoriscano l’ autonomia e siano rispettose delle loro
scelte. E quando le voci della gente nell’industria del sesso sono messe
a tacere e le loro storie ignorate, è molto importante che noi
lavoriamo per ascoltarle e per contribuire a farle risuonare.
Per ulteriori informazioni, si prega di fare riferimento a queste
organizzazioni che sono impegnate a sostenere le persone coinvolte in
diversi settori dell’industria del sesso:
• GEMS e il loro film, Very Young Girls, sullo sfruttamento sessuale commerciale delle ragazze a New York
• HIPS e il loro documentario, Be Nice To Sex Workers, sul sesso di sopravvivenza in strada a Washington, DC
• Polaris: Lotta contro la tratta di esseri umani e la schiavitù moderna e il loro video, “America’s Daughters” , che è una poesia scritta da una sopravvissuta alla tratta
• Sex Workers Project
Condividi questo articolo!
Laura Kacere scrive su Everyday Feminism ed è
attivista femminista oltre che organizzatrice, volontaria in una clinica
per aborti, studentessa e insegnante di yoga che vive e va a scuola a
Chicago. Quando non studia o pratica yoga, pensa agli zombie, suona,
mangia cibo Libanese e sogna di essere circondata da alberi. Seguila su
Twitter @Feminist_Oryx. Sandra Kim è fondatrice, amministratrice delegata ed
editrice capo di Everyday Feminism. Integra esperienza personale e
professionale su trauma, trasformazione personale e cambiamento sociale
attraverso un’ottica femminista.
In questo post Lorenzo ci propone la decostruzione di un articolo apparso su “Avvenire”, scritto da Stefano Zecchi. L'articolo è tratto da Intersezioni.
Sì lo so, è facile divertirsi a decostruire “Avvenire”. In questo caso non so veramente resistere: Stefano Zecchi
ha scritto cose molto belle sulle quali ho studiato – roba di Estetica,
non vi state a preoccupare – e poi ha scelto un rincretinimento
mainstream adatto a una carriera televisiva tutta fuffa e letteratura
amena. Il suo esempio mi è molto utile: dimostra come anche un ordinario
di filosofia riesca a dire delle panzane clamorose se il suo obiettivo –
piacere a un vasto pubblico – è sufficientemente ipocrita. L’articolo è questo.
Zecchi: «Vigilare sui figli
Il gender è la nuova dittatura»
Si dice «d’accordissimo» che l’educazione comprenda anche il tema
dell’omosessualità e che nessuna discriminazione sia accettabile,
soprattutto a scuola, «ma [lo avete riconosciuto? E’ il noto “non sono razzista ma”] il trasformare questa convinzione in una battaglia politica è mistificatorio è violento nei confronti dei bambini [certo, non va fatta diventare una battaglia politica. Sono cose che ti devi tenere per te: sei favorevole alla parità dei diritti? Tienitelo per te]. Occorre reagire, là dove è possibile bisogna creare argini di confronto pacifico [notate bene, pacifico,
perché di solito chi si batte per i diritti di tutti è violento. Visto
quanto ci vuole poco a fare passare un’idea falsa e tendenziosa?]».
Tra i genitori sconcertati dalle linee guida dell’Unar (i tre ormai
famigerati volumi dedicati alle scuole elementari, medie e superiori,
poi ritirati dal web) e dall’ideologia del gender imposta come
indottrinamento fin dalla tenera età [ma sì, diciamolo, chissenefrega se è vero], c’è Stefano Zecchi, ordinario di Filosofia alla Statale di Milano e scrittore, ma anche [ma anche, attenzione, ciò che lo qualifica a parlare di un fantomatico “gender” è questo] padre di un bimbo di 10 anni.
Quella che segue è lindicazione di una serie di post scritti da Lorenzo Gasparrini e Sara Pollice, nei quali si analizza il numero della rivista MicroMega dedicato a "Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento". Attraverso il metodo della decostruzione, si evidenziano le incongruenze e le logiche fragili di un discorso che non sembra avere solide fondamenta, e non si comprende a cosa miri esattamente. I post sono disponibili sul blog Intersezioni. Questo post verrà aggiornato a ogni nuovo articolo.
Se la giornata lavorativa media,
preparazione e trasporto inclusi, è di dieci
ore, e se le esigenze biologiche di dormire e alimentarsi
richiedono altre dieci ore, il tempo libero sarà di quattro
ore ogni ventiquattro per la maggior parte della
vita di un individuo. Questo tempo libero sarà potenzialmente
disponibile per il piacere.
Aderisco alla campagna #GiornalismoDifferente, perché nessun Papà di 56 anni fa sesso con la figlia di 6 anni e con la sorellina, quello non è "sesso" è stupro, abuso e lui è un pedofilo con l'aggravante dell'essere anche il padre. No un padre non fa sesso con la figlia di 8 annie filma le violenze si tratta di stupro. L'url di quest'ultimo articolo è schifosa: "http://www.leggo.it/NEWS/ROMA/quot_non_dire_alla_mamma_del_gioco_del_dottore_quot_._fa_sesso_con_la_figlia_di_8_anni_e_filma_le_violenze_12_anni_di_galera_al_pedofilo/notizie/721216.shtml". Il gioco del dottore? si chiama pedofilia.
Gli adulti non fanno "sesso" con i bambini e le bambine, stuprano. Lo stupro, di chiunque, è tortura sessuale, non "fare sesso", quando si tratta di un/a bambina/o è anche pedofilia.
Il giornalismo italiano sembra completamente sordo ai
progressi della società in fatto di questione di genere continuando a
usare un linguaggio, delle immagini e un immaginario retrogrado,
violento e discriminante.
E’ tempo di pretendere un cambiamento.
E’ tempo di pretendere che il giornalismo italiano si metta al passo coi tempi
di cambiamento della società, della realtà, che rappresenti il meglio
di questa e superi i retaggi della cultura patriarcale, maschilista e
omo-transfobica.
E’ tempo di pretendere un Giornalismo Differente, perché del valore di informare rimanga anche quello di innovare.
La realtà dipende dalle sue rappresentazioni.
Di pari passo vanno le modifiche di una e delle altre, a specchio.
Ma se la realtà inizia a usare vocaboli, idee, immaginari che non
trovano mai una rappresentazione massiccia, lo scollamento è
inevitabile.
Solo da poco il giornalismo ha introdotto il termine femminicidionel proprio vocabolario.
Un passaggio fondamentale per ripristinare una rappresentazione che rispondesse alla realtà: donne uccise in quanto donne.
Eppure a questo non è seguito un miglioramento complessivo del
linguaggio o dell’approccio giornalistico al genere, soprattutto per
quello che riguarda i giornalisti di cronaca, specialmente di cronaca
nera.
E’ tempo di suggerire quindi al giornalismo italiano tutto, alcune
semplici regole di linguaggio e approccio, che nel 2014 sarebbe proprio
il caso di applicare.
Oggi è il 25 novembre, giornata internazionale della lotta alla violenza sulle donne.
Abbiamo deciso di lanciare oggi questa campagna perchè crediamo che dal
linguaggio mediatico passi la cultura che ci rispecchia e consolida la
nostra visione del mondo e che per questo il giornalismo italiano debba
cambiare, migliorare, evolvere.
Chiediamo un Giornalismo Differente, lo facciamo lanciando un hashtag#giornalismodifferente e delle prime rivendicazioni:
1. Un femminicidio non è colpa della disoccupazione / della depressione / della passione.
La violenza sulle donne è sempre esistita, con o senza crisi economica.
Un uomo non picchia, umilia o uccide una donna perchè è rimasto
disoccupato. Lo fa perchè la sua cultura lo autorizza a sentirsi
superiore alle donne, a sentirsi padrone delle loro vite, a dominarle
psicologicamente e fisicamente. Anche le donne rimangono
disoccupate ed entrano in depressione, anche le donne, anzi soprattutto
le donne soffrono la crisi dentro e fuori casa, ma per un uomo queste
diventano possibile “giustificazioni” ad un femminicidio, autorizzato
invece dalla sua cultura patriarcale.
Quella stessa cultura insegna alle donne a subire, passivamente, perchè
in nome dell’accoglienza e la mitezza a cui per cui è programmata.
Ecco tre esempi tratti da Corriere della Sera, AGI – agenzia giornalistica Italia, e Repubblica.it
2. Non è il raptus che uccide!
Allo stesso modo, il raptus è un alibi che il giornalismo fornice a chi uccide la propria compagna, moglie, fidanzata, amica.
La violenza sulle donne è un fenomeno strutturale. Ha radici profonde e
non può essere ricondotta a un momento di violenza improvviso.
Piuttosto, si tratta di anni di piccole avvisaglie, di
atteggiamenti psicologicamente o fisicamente violenti, di affermazione
di cultura maschilista, o spesso si stalking e intimidazioni che sfociano in maniera assolutamente premeditata nell’uccisione della donne che si è sottratta al possesso patriarcale.
In questo articolo ad esempio, Repubblica.it usa il termine
raptus, per poi specificare però che i due avevano spesso litigi
violenti.
3. No alle pornovittime!
Una donna rimane un oggetto sessuale anche da morta. Così non mancano
gli esempi di vittime di femminicidio o violenza sessuale, anche
giovanissime, ritratte dai giornali in bikini, sottolineandone
l’avvenenza.
Come se da quella dipendesse la sorte di una violenza, di un’aggressione.
Se poi la donna uccisa è una donna famosa anche per la sua avvenenza,
non le si risparmiano gallery su gallery della sua immagineammiccante, anche da morta. Pensiamo ad esempio allo sciacallaggio mediatico su Reeva Steenkamp, la donna uccisa dal campione paraolimpico Pistorius.
Anche le foto di repertorio scelte dai giornali per parlare di violenza sessuale e femminicidio rimandano spesso a un immaginario sessualizzato:
minigonne cortissime, calze autoreggenti, magliette scollate. E poi
pose rannicchiate nel buio, mani sulla faccia. Come se la vergogna fosse
la loro e non quella di chi le ha aggredite.
Porno + vittimizzazione, un pessimo risultato.
Le immagini che seguono sono alcune tra le più utilizzate dai
giornali quando si parla di stupro, rintracciabili dai free press come
Leggo fino a Il Messaggero.
4. Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
Più chiare di così non si poteva essere. Ancora oggi spesso i
giornalisti specificano oltre all’aspetto fisico anche l’abbigliamento
di una vittima di violenza di genere. Perchè? A cosa serve dirci che indossava una minigonna? O che era bella? A nulla.
Perchè la violenza è trasversale e non colpisce solo donne avvenenti o vestite in modo succinto.
Anzi, per lo più avviene dentro le case, in famiglia, dove davvero nulla importa come si è vestite.
Se la vittima di una violenza sessuale di qualsiasi tipo è una donna
avvenente si susseguono nell’articolo le sue immagini, persino in
bikini, per attirare lettori, altrimenti si allude al suo aspetto e al
suo abbigliamento, se si tratta di una sex worker, anche al suo lavoro
ovviamente, nel quadro di un generale slut shaming,ovvero di una colpevolizzazione costante delle donne.
Così la notizia di una donna molestata sessualmente diventa
“giustificata” da come quella, per di più ballerina di un night, andava
vestita, nell’articolo di Treviso Today.
5. Il capofamiglia non esiste più!
Il capofamiglia. Una parola usata molto spesso dal giornalismo
italiano, ma che ci riporta indietro a quando l’Italia rispettava ancora
la norma contenuta nell’art. 144 del Codice civile, che prevedeva il
ruolo di capofamiglia e lo attribuiva al marito, abrogata poi dalla
legge 19 maggio 1975, n. 151 con la Riforma del diritto di Famiglia.
Il capofamiglia non esiste più da 40 anni, ma il giornalismo italiano continua a usare questa espressione.
Come continua a usare la giustificazione dell’onore e della
gelosia maschile per parlare di violenza, riportandoci a un’altra pietra
miliare del nostro diritto, il delitto d’onore, abrogato solo nel 1981.
Questi retaggi maschilisti, seppur eliminati dal diritto ufficiale,
persistono nel linguaggio giornalistico, tradendo la sostanziale
adesione a un modello culturale da cui sarebbe anche tempo di
affrancarsi.
Ancora Repubblica.it ci fornisce un esempio dell’uso improprio di “capofamiglia”. In questo articolo usato
per intendere l’uomo del nucleo familiare dove, tra l’altro, era invece
la donna a provvedere al mantenimento della famiglia.
6. unA transessuale, al femminile
Alla condizione femminile, non può non essere associato il trattamento linguistico-mediatico riservato anche a persone LGBTQI, soprattutto per quel che riguarda LE transessuali, relegate tanto alla macchietta che a cui i media le condannano da non meritare nemmeno l’articolo femminile.
Una piccolezza, risponderà il/la giornalista dalla sua scrivania.
Invece no. Perchè il genere maschile e femminile non sono solo
acquisizioni basate sul sesso biologico, ma anche faticose conquiste
identitarie. E ciò va rispettato.
Il transessualismo indica l’esperienza vissuta da tutte quelle persone
che non sentono di appartenere al sesso biologico acquisito con la
nascita e che quindi intraprendono un percorso di adattamento del
proprio fisico alla percezione psicologica ed emozionale che hanno di
sé. Dunque se quella persona ha scelto di appartenere al sesso e
al genere femminile,i media dovrebbero evitare di rimetterle addosso
un’etichetta maschile ( e viceversa ), allo stesso modo in cui
la società tutta dovrebbe acquisire la capacità di relazionarsi alle
persone in base alle scelte che compiono e non ai ruoli precostituiti
che si vogliono imporre loro.
Così il Corriere della Sera è solo uno dei giornali indeciso sul
genere da attribuire a persone transgender, in questo articolo sulla
morte di Brenda, trans tristemente nota per il suo coinvolgimento nello
“scandalo” Marrazzo, alterna il maschile al femminile.
7. Vogliamo parlare di donne vive ( e fuori dai ghetti rosa )?
Più in generale, il giornalismo tende a narrare e rappresentare le
donne solo come vittime di violenza. Affollano le pagine dei quotidiani e
le schermate dei pc tutte le donne stuprate, uccise, aggredite,
sfgurate. Di donne forti, uscite dalle difficoltà, capaci di reagire o
che propongono un immaginario differente da quello descritto finora non
c’è quasi traccia.
COME ADERIRE A #GIORNALISMODIFFERENTE
Per aderire alla campagna inviateci la vostra adesione, singola o collettiva a narrazionidifferenti@gmail.com
Questo manifesto per il Giornalismo Differente, con tutte le sue
adesioni, sarà inviato all’attenzione delle principali testate
nazionali.
Diffondete l’hashtag #giornalismodifferente su Twitter unito alle nostre e alle vostre rivendicazioni, taggando le principali testate italiane.
#giornalismodifferente Un femminicidio non è colpa della disoccupazione!
Non è il raptus che uccide!
No alle pornovittime!
Cosa indossa una vittima di violenza? Chissenefrega!
Questo è un post personale, che chiede qualcosa alle persone, vi prego di leggerlo.
Ho un'amica che è stata presa per un dottorato internazionale, capite
che è una cosa bellissima. Lei è davvero brava. Voglio dire, è una
persona che ha sempre lavorato, gestito la famiglia e studiato
contemporaneamente. Si chiama Guglielmina, per gli amici Mina, è di Cosenza. Dopo aver
tentato i dottorati nell'università più vicina a lei, si è vista passare
avanti da altri personaggi, una cosa alquanto comune.
Quest'università che l'ha scelta, dopo una serie di prove abbastanza complesse, si trova in Ecuador. Si tratta di un dottorato in Sociologia e Studi di Genere presso la FLACSO Ecuador,
un'università dedicata alle scienze sociali e presente in 17 Paesi di
America Latina e Caribe. Lì è tutto spesato, vitto e alloggio. Lei però si deve pagare i visti
di ingresso e il viaggio. Adesso si trova disoccupata perché, per dedicarsi allo studio e superare
le prove, è uscita fuori dal giro dei lavoretti che faceva. Ha spammato il suo curriculum ovunque, per settimane, non voleva chiedere prestiti o fare debiti. Niente, nessuno l'ha chiamata.
I tempi stringono. Così le abbiamo suggerito di fare una raccolta fondi. Si fanno raccolte per
qualsiasi cosa, vuoi vedere che per una cosa come questa non si trova
un poco di quella solidarietà che tanti sbandierano? Ci hanno detto che in altri paesi è assai comune fare raccolte fondi per sostenersi negli studi. Garantisco personalmente che non si tratta di una bufala, che Mina è una ragazza che lo merita davvero, come lo meriterebbero di certo tante persone che vedono i loro sogni spezzarsi perché non hanno abbastanza soldi per partire o restare. Questa è l'opportunità di Mina. Questo è il sito della raccolta: http://www.kapipal.com/2a9ae8003b874c55afed1cec3efd30b6
La coordinatrice Tania Castellaccio ci racconta il paradosso di Casa Fiorinda
E'
l'unica casa che accoglie donne vittime di violenza con o senza figli a
Napoli e sta per chiudere. Fiorinda, casa di accoglienza e centro
antiviolenza per donne maltrattate,nasce nel 2011, su volontà del Comune
di Napoli, dedicata a Fiorinda Marino, una delle tante donne morte per
mano dei loro partner. Ci racconta questa storia paradossale Tania Castellaccio,
coordinatrice del progetto gestito dalle cooperative sociali Dedalus ed
Eva in rete con il Centro Antiviolenza del Comune di Napoli gestito da
Arci Donna.
Ogni 2 giorni muore una donna per violenza da parte di un
uomo, almeno 1 donna su 3 ha subito violenza nell'arco della sua vita.
Nel 2013 in Italia sono state uccise dai loro partner 134 donne.
Partiamo dalla fine. Perché il Governo non si occupa delle donne e
perché sta chiudendo Casa Fiorinda?
Il Governo ha stanziato con il decreto sul femminicidio 17 milioni
che dovrebbero passare per la Regione e o poi per gli enti locali, ma ci
vuole tempo... Casa Fiorinda è finanziata dal Comune di Napoli
grazie ad un bando della Presidenza del Consiglio e attraverso un POR.
Il progetto si concludeva a maggio, ma per portare a termine percorsi
intrapresi con le donne che stavamo seguendo, il Comune di Napoli ha
stanziato 40 mila euro per 4 mesi in attesa di un nuovo avviso pubblico
per la gestione della casa, che però ad oggi non è ancora uscito. Il 18
ottobre scade la proroga ma poiché i tempi tecnici per espletare
l'avviso pubblico sono lenti il rischio, divenuto certezza, è che la
casa resti chiusa per mesi, lasciando per strada le nostre ospiti ovvero
4 donne con figli, 2 napoletane, 1 napoletana di origine rumena, e una
donna centro americana incinta. Inoltre le 15 donne "ospiti esterne" che
seguiamo come centro antiviolenza nel percorso per uscire dalla spirale
della violenza sarebbero abbandonate a se stesse. La volontà politica a
mantenere in vita Fiorinda c'è tutta ma ci si sta muovendo con estremo
ritardo. La soluzione è che il Comune sostenga il progetto nelle more
della lavorazione dell'avviso pubblico.
Qual è l'unicità di Casa Fiorinda? Casa
Fiorinda è l'unica casa per donne maltrattate nel Comune di Napoli e
accoglie le donne vittime di violenza sole o con figli che chiedono
ascolto, protezione e accoglienza e che da noi trovano operatrici e
professioniste che le assistono legalmente nelle separazioni e nella
denuncia per maltrattamento, e da un punto di vista psicologico. Abbiamo
6 posti (n.d.r. tanti quanti ne prevede il regolamento regionale). È
evidente che abbiamo tante richieste di posti letto inevase: spesso
inviamo le donne che necessitano un posto letto in provincia di Caserta
dove ci sono 3 case per donne maltrattate. Casa Fiorinda ha inoltre il
valore aggiunto di essere un bene sottratto alla camorra e restituito
alla società.
Ci sono però delle case famiglia per donne con figli sul territorio del Comune. Qual è la differenza?
Una casa di accoglienza per donne vittime di violenza è diversa da
una casa famiglia perché accoglie donne con difficoltà socio-economiche e
con bambini perciò viene sostenuta grazie alle rette pagate dal Comune
per i minori (n.d.r. circa 93 euro al giorno per il bambino e 40 euro se
c'è la madre che lo accompagna), ma se la donna è sola non è previsto
alcun sostegno, mentre casa Fiorinda accoglie anche donne sole. Il
Comune di Napoli sta individuando una strategia per poter sostenere e
collocare anche le donne sole, ma c'è bisogno di tempo.
Noi oltre al sostegno psicologico e legale, forniamo un orientamento
al mercato del lavoro poiché l'occupazione può garantire autonomia ed
emancipazione.
Come arrivano da voi le donne?
Soprattutto grazie all'indirizzo dell'Arci Donna che gestisce il
Centro Antiviolenza del Comune di Napoli che ha sede nel palazzetto
Urban; tramite il numero verde 1522 che noi gestiamo tutti i pomeriggi
dalle 15.00 fino alle 22.00. Inoltre ci inviano le donne le forze
dell'ordine che sono sempre più preparate nell'accogliere in modo
adeguato e professionale le donne vittime di maltrattamenti, gli
sportelli antiviolenza del pronto soccorso del San Paolo e del Loreto
Mare e le assistenti sociali.
Chi sono le donne ha accolto in questi anni?
Dal 2011 ad oggi abbiamo accolto circa 200 persone, di cui 100 hanno
chiesto protezione perché scappavano da maltrattamenti e violenza
domestica. Nove su 10 erano napoletane. La casistica ci ha confermato
che la violenza sulle donne non ha confini spaziali o culturali, ma è
trasversale. In molti casi si trattava di donne provenienti da contesti
economici e sociali medio-alti e in più di un caso il partner violento
era un poliziotto.
Come si realizza la fuoriuscita da un vissuto violento?
Quando hai subito per anni violenza psicologica, umiliazioni e
vessazioni, uscire dalla violenza è sempre difficile. È necessario molto
tempo per trovare un'autonomia e reinserirsi socialmente poiché spesso è
stato impedito alle donne di lavorare o è stato loro controllato lo
stipendio. I primi 3 mesi sono quelli più delicati, le donne vivono
sensi di colpa, ripensamenti proprio perché hanno interiorizzato lo
stereotipo del dominio e del possesso maschile. Spesso subiscono le
pressioni dei parenti che consigliano "Resisti, per il bene dei figli",
mentre è un dato di fatto che i bambini che crescono in contesti
violenti sono le prime vittime e rischiano di apprendere un modello
relazionale sbagliato e di diventare adulti violenti o sofferenti. Nonostante
vissuti violenti le donne, una volta passati i lividi talvolta tornano
dal marito e ricadono nella ruota della violenza: all'inizio il compagno
chiede scusa, fa qualche regalo, poi dopo un po' ritorna la violenza,
un po' forte, episodio dopo episodio, in un crescendo che può arrivare
alla morte. Ecco noi cerchiamo di rompere questo meccanismo e di
spiegare alle donne che un solo episodio di violenza è già troppo e che
dopo non si può che peggiorare. Per fortuna esistono anche tanti uomini e
tante associazioni maschili che lavorano per un processo di
emancipazione che deve riguardare sia uomini che donne.
Ma ci sono anche dei casi positivi...
Certo, una volta superati i primi mesi e iniziato il percorso di
reinserimento socio-lavorativo la maggior parte delle donne seguite
riesce ad affrancarsi dalla violenza. Solo nell'ultimo anno abbiamo
attribuito 16 borse lavoro con aziende sia napoletane che casertane.AdG
Domenica mattina, come molte altre
persone, ho contestato la manifestazione delle Sentinelle in piedi,
presenti in varie piazze delle città italiane. Ero con le compagne e i
compagni mentre una dozzina di persone, dall’altra parte di uno
schieramento a quadrilatero di poliziotti in tenuta antisommossa, se ne
stava in piedi, in silenzio con un libro aperto, alcuni lo tenevano al
contrario, a vegliare nel nome della “morale”.
Questa che segue è una guida alle Sentinelle, per chi avesse qualche dubbio su di loro.
Le Sentinelle in piedi si ispirano apertamente ai Veilleurs Deboutfrancesi,
in italiano Vigilanti in piedi, un movimento contrario ai matrimoni tra
persone dello stesso sesso, e di quel movimento copiano modalità e
finalità, oltre che definizioni. Si definiscono infatti “una resistenza
di cittadini che vigila su quanto accade nella società e sulle azioni di
chi legifera denunciando ogni occasione in cui si cerca di distruggere
l’uomo e la civiltà”, dicono “vegliamo per la libertà d’espressione e
per la tutela della famiglia naturale fondata sull’unione tra uomo e
donna”, cito dal loro sito, si dichiarano apartitici e aconfessionali.
Riporto le loro parole perché le parole sono importanti. Ma partiamo da uno degli elementi finali. Secondo questo articolo
Il 25 ottobre 2013 il marchio “Sentinelle
in Piedi®” è stato depositato presso l’Ufficio Italiano Brevetti e
Marchi dal sig. Rivadossi Emanuele, che ha eletto domicilio presso la
società Jacobacci & Partners S.p.A. di Torino. Presso quello studio
di consulenza presta opera in qualità di “partner” Massimo Introvigne,
reggente nazionale vicario di Alleanza Cattolica.
La notizia viene confermata anche dal sito riscossacristiana.it
e dunque, nonostante a parole si definiscano aconfessionali, nei fatti
quello delle sentinelle è un movimento esclusivamente cattolico
(Alleanza cattolica è questo) e, dalla fine di ottobre, è anche un marchio registrato, un brand.
Che le Sentinelle abbiano saputo utilizzare i media a loro vantaggio,
come fanno normalmente i marchi commerciali, ce ne siamo accort@ tutt@.
Il mercato al quale si rivolgono sono i conservatori più retrivi e i
sessuofobi più spaventati.
[Vi sono state delle] critiche per
impedito ai loro militanti di partecipare con libri come “Omofollia”
(che definiscono «appositamente redatto con carattere divulgativo al
fine di contribuire alla buona battaglia contro l’ideologia
omosessualista») o la rivista “Ordine Futuro”, parlando di «una vera e
propria censura, volta ad impedire la visibilità di Forza Nuova all’interno dell’iniziativa».
Possiamo così affermare che quello delle
sentinelle è un brand, una marca commerciale, che sa sfruttare al meglio
i mezzi di comunicazione; che fa riferimento alla religione cattolica e
si trova nell’area di interesse della destra neofascista.
La presenza di alcuni musulmani durante le “veglie”, così come di
sedicenti di sinistra, è spiegabile con la comunanza di intenti, intenti
che andremo ora a considerare.
La parola sentinella è
importante, perché “sentinella” appartiene al lessico militare e
posiziona queste persone e le loro intenzioni all’interno di un campo
semantico preciso, quello della guerra. Sentinella infatti significa “Soldato armato posto di guardia a luoghi, mezzi, persone”.
Autonominatesi o nominate da chi le ha create, soldati e soldatesse,
armati di silenzio, vegliano per una guerra, una guerra contro chi? a
loro dire contro chi “cerca di distruggere l’uomo e la civiltà”,
intendendo con queste parole un’idea precisa di uomo e di civiltà,
concidenti con una morale cattolica e neofascista.
Dicono che sono lì “per tutelare la libertà di espressione”. Ma la libertà di espressione è già tutelata nel nostro ordinamento, si ferma solo davanti a fatti ritenuti comunemente pericolosi o ingiuriosi.
Sostengono di essere “a difesa della libertà di espressione messa in discussione dal ddl Scalfarotto”.
Scopriamo cosa dice la proposta di legge Scalfarotto
La proposta di legge Scalfarotto riguarda l’omofobia e la transfobia. Vado a leggere il testo base della proposta
e ci trovo, in prima battuta, i concetti di orientamento sessuale e
identità di genere, così come sono definiti anche dai manuali di
psichiatria, nulla di nuovo.
All’articolo tre si parla di estendere le norme che tutelano le persone
da qualsiasi atto discriminatorio, basato sulla nazionalità, l’etnia e
la razza, ossia la Legge Reale Mancino del 13 ottobre 1975, n. 654,
a qualsiasi atto basato sull’identità di genere e l’orientamento
sessuale. Collegandosi, di fatto, a un concetto già presente nella nostra Costituzione all’articolo 3 che tratta dell’uguaglianza di tutti i cittadini.
A questo punto bisogna leggere la legge Reale Mancino,
in vigore dal ’75, e le sue estensioni, per cercare di capire dove si
minacci impunemente la libertà di espressione delle persone, perché se B
estende A, allora bisogna guardare dove è guasta A. In realtà questa
legge, come si legge all’articolo 3 della stessa, punisce
chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorita'
o sull'odio razziale
e
chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a
commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla
violenza, nei confronti di persone perche' appartenenti ad un gruppo
nazionale, etnico o razziale.
E' vietata ogni organizzazione o associazione avente tra i suoi
scopi di incitare all'odio o alla discriminazione razziale.
Quindi, a meno che non si consideri
“libertà di espressione” discriminare le persone per il colore della
loro pelle o la nazionalità o l’etnia, oppure costituire
un’organizzazione che abbia tra i suoi scopi quello di incitare alla
violenza contro persone di etnia o nazionalità o razza diversa dalla
propria – ad esempio il Ku Klux Klan – e quindi, per estensione con la
proposta di legge Scalfarotto, che inciti alla violenza contro una
persona che abbia un’identità di genere o un orientamento sessuale
diverso dal proprio; a meno che non si ritenga “libertà di espressione”
diffondere idee fondate sulla superiorità e sull’odio di genere, non si
capisce in quale modo si limiti la libertà di espressione delle persone
(che nel nostro ordinamento non coincide affatto con la libertà di
ingiuria) o si cerchi di “distruggere l’uomo e la civiltà” in senso
universale.
Ovviamente di ogni cosa si può fare un
uso strumentale, come l’uso strumentale che l’etnia maggioritaria può
eventualmente fare di una legge contro la discriminazione etnica e
razziale nei confronti di una minoranza. Per fare un esempio, l’uso che
gli xenofobi fanno del concetto di discriminazione di fronte alle lecite
richieste di uguaglianza sociale da parte delle minoranze etniche, e la
conseguente accusa di “razzismo al contrario”, pratica e concetto
completamente scollegato dalla realtà, come abbiamo imparato anche da questo scritto,
accusa mossa a chiunque faccia richiesta di giustizia sociale. Ogni
cosa può essere strumentalizzata, sta alla giurisprudenza correggere le
strumentalizzazioni di una legge e alla società civile contenere le
spinte manipolatorie.
E' vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o
gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o
alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Non posso, dunque, incitare all’odio
contro i cattolici o i musulmani o gli ebrei o qualsiasi credente di
qualsiasi religione, perché questo significherebbe mettere in perico la
vita delle persone per quelle che sono le loro legittime credenze. Si
configurerebbe un reato grave.
Attenzione però, incitare all’odio non
significa dire che una determinata organizzazione religiosa evade le
tasse, se questo è dimostrabile. Se una tale dichiarazione non è
dimostrabile si potrebbe configurare un reato di diffamazione. Appunto
la legge tutelerebbe quella istituzione religiosa e le persone che ne
fanno parte.
Un uso strumentale del concetto espresso
da questa legge è il richiamo alla cattofobia ogni volta che si
considera un insegnamento della catechesi niente affatto universale. Un
esempio banale, possiamo dire che l’astinenza sessuale rappresenta un
valore per la religione cattolica, ma non lo è affatto per tutte le
persone. Quindi non si può riscontrare un attacco al cattolicesimo
nell’educazione a una sessualità consapevole, la quale non esclude
l’astinenza come libera scelta.
Non bisogna dimenticare che l’odio
razziale e l’odio religioso, come quello di genere e di classe, sono dei
veri e propri ostacoli all’accesso delle persone alle risorse
economiche e sociali, come la scuola e il lavoro. Discriminare qualcuno
non significa solo non accettare che un nero, un ebreo, un rom, una
persona di ceto sociale basso o una donna svolgano un determinato
mestiere, ma anche continuare a sostenere, attraverso le strutture socio
culturali, la loro inferiorità intrinseca, cioè la loro inferiorità
dovuta alla loro natura (i neri sono ritardati perché a loro manca un
gene, le donne non ragionano correttamente a causa del ciclo). E questo
vale anche per le persone che hanno un orientamento sessuale non
corrispondente a quello eterosessuale, ossia le persone omosessuali e
bisessuali (esistono anche le persone asessuali), così come chi ha
un’identità di genere che non corrisponde a quella comunemente definita
come cisgender (qui, qui),
ossia una persona che non riconosce come proprio il ruolo di genere che
gli o le è stato attribuito alla nascita, cioé le persone transessuali.
Consideriamo a questo punto gli altri due
elementi che le Sentinelle in piedi dicono di difendere, quelli mutuati
direttamente dai Vigilanti francesi, il matrimonio e la famiglia
naturale.
Mi è capitato di sentir dire in uno dei video che riprendono le
dichiarazioni delle Sentinelle, che la famiglia naturale è quella che si
rispecchia in Adamo ed Eva. Bisognerà ricordare, anche ai credenti
cristiani, che l’Antico Testamento, e quindi il libro della Genesi, ha
un contenuto mitico e allegorico, che Adamo ed Eva non sono mai
esistiti, non hanno vissuto centinaia di anni e non hanno generato figli
che, presumibilmente, si sono uniti tra di loro per generare l’umanità
tutta.
Il mito di Adamo ed Eva racconta di una società patriarcale in cui le
donne sono destinare all’accudimento dei figli e gli uomini al lavoro,
una società in cui, forse, i concetti di violenza famigliare e incesto
non esistevano e vigeva una diversa sensibilità, scritti che determinano
e rispecchiano in questo modo una separazione netta dei ruoli di genere
a partire dalla differenza sessuale (intesa come differenza morfologica
degli organi sessuali che genererebbe anche differenze ontologiche).
Cioè, l’osservazione della riproduzione
sessuata è all’origine di una struttura sociale arcaica che, a partire
da un certo momento, si è diffusa in alcune zone del pianeta. Grazie
all’etnografia sappiamo che non tutte le società considerano la
differenza sessuale un elemento fondante per la divisione dei ruoli,
sappiamo che l’accudimento dei figli può avvenire all’interno di un
nucleo ristretto ed esclusivo, come all’interno di una comunità più
vasta, che le persone di sesso femminile e quelle di sesso maschile o
intersessuali possono svolgere le più varie attività per il
sostentamento della propria comunità, da quelle manuali a quelle
intellettuali e spirituali.
Bisogna specificare, ed è molto importante, che il richiamo costituzionale alla “famiglia naturale”, art.29 della Costituzione italiana, non ha il suo fondamento in questa visione confessionale, anzi, tutt’altro.
La famiglia naturale come la intende la Costituzione, è quella
razionale, ossia quella che si da nella realtà, al di là di qualsiasi
ideologia che cerchi di condizionare il vivere in comune delle persone.
Infatti, il concetto di famiglia condiviso dalla collettività non
corrisponde già a quello di presunta “famiglia naturale” come è intesa
dalle Sentinelle, per di più fondata sul matrimonio che è una
istituzione storicamente determinata, un artificialia. Esiste
una tipologia, tra le altre, di famiglia che si riscontra frequentemente
nella nostra società, ma che si rimodella costantemente a seconda degli
eventi.
Se davvero una famiglia fosse esclusivamente fondata sull’unione di una
donna e un uomo, ogni vedovo e ogni vedova si troverebbero nella
condizione di doversi immediatamente risposare, pena il non essere più
una famiglia, nemmeno alla presenza di numerosi figli, fratelli, cugini,
nonni.
Non è unicamente una famiglia quella
composta da persone unite dal contratto di matrimonio. Ad esempio io,
Serbilla, vivo con persone mie consanguinee, ma non sono sposata con
loro, e pure siamo una famiglia, nel nostro sentimento e per la legge.
Non esiste nemmeno la necessità di essere
consanguinei per poter definire il proprio nucleo associativo con la
parola famiglia, basta che delle persone abbiano un legame affettivo e
si trovino a condividere un progetto di vita in comune.
La rigidità dell’idea di famiglia
naturale fondata sul matrimonio eterosessuale, proposta dalle
Sentinelle, si scontra costantemente con la realtà degli stessi suoi
sostenitori, dato che ad accedere al divorzio non sono certamente solo
gli atei o gli acattolici.
Nessuno vieta a queste persone di vivere secondo la loro idea di famiglia naturale, sarebbe una discriminazione.
L’approvazione del matrimonio tra persone
dello stesso sesso non comporta alcun pregiudizio per la pratica del
matrimonio in sé, anzi, la rafforza e avvalora come legame
significativo.
Nessuno, poi, vieterà alle persone eterosessuali di sposarsi, dato che
si tratta di una estensione del diritto a persone precedentemente
escluse per via di una discriminazione su base sessuale; semplicemente
potranno farlo anche le persone dello stesso sesso, quelle che
decideranno di contrarre il contratto di matrimonio e di ufficializzare
la loro unione di fronte alla collettività.
Una nota
per quelli che temono di vedere matrimoni interspecie. Il matrimonio è
un contratto che può essere stipulato esclusivamente sulla base della
consensualità, infatti durante le dichiarazioni si chiede un “sì” nel
pieno della propria volontà.
Per quanto una persona e un cane possano sentire di essere una famiglia,
per il legame affettivo che li lega, non potranno mai contrarre
matrimonio, perché il cane non può acconsentire con esplicitezza, di
fronte alla legge, a contrarre matrimonio.
Il passo successivo è ovviamente
l’omogenitorialità. Le Sentinelle affermano che un bambino debba essere
cresciuto da una madre e un padre, continuando a fare affidamento a
quell’idea di famiglia naturale che parte da Adamo ed Eva.
Nella realtà quotidiana ci troviamo continuamente davanti a famiglie
composte nel più vario modo, in cui i bambini crescono sani e felici,
grazie alla soddisfazione delle loro necessità affettive, educative e di
sostentamento. Voi potreste garantire, mano sul fuoco, che
esclusivamente i bambini che hanno un padre e una madre sono felici?
Volete vedere come sono le famiglie omoparentali? Nel sito delle famiglie arcobaleno di storie ce ne sono diverse, un punto di riferimento è anche AGEDO.
Vi riporto il comunicato stampa diramato dall’ordine degli psicologi a seguito delle dichiarazioni della ministra Lorenzin sulla famiglia omogenitoriale:
“Non è certamente la doppia
genitorialità a garantire uno sviluppo equilibrato e sereno dei bambini,
ma la qualità delle relazioni affettive.” Da tempo infatti ‐ spiega
Giardina ‐ la letteratura scientifica e le ricerche in quest’ambito sono
concordi nell’affermare che
il sano ed armonioso sviluppo dei
bambini e delle bambine, all’interno delle famiglie omogenitoriali, non
risulta in alcun modo pregiudicato o compromesso.
La valutazione delle capacità
genitoriali stesse sono determinate senza pregiudizi rispetto
all’orientamento sessuale ed affettivo.
Ritengo pertanto ‐ conclude il
presidente ‐ che bisogna garantire la tutela dei diritti delle famiglie
omogenitoriali al pari di quelle etero ‐ composte senza discriminazioni
e condizionamenti ideologici”.
Bastano cinque pubblicità in cui due
donne o due uomini fanno colazione coni propri figli in una bella casa
con giardino e la società comincia a cambiare idea. Perché le narrazioni
sono importanti, infatti anche la campagna mediatica delle Sentinelle
si regge su alcune narrazioni, che poi non corrispondono alla realtà dei
loro intenti.
Veniamo quindi allo svelamento dei presupposti, cioé all’acqua calda – ma questa è una guida alle Sentinelle for dummies.
La cancellazione della legge Reale
Mancino di cui ho scritto poco più sopra, quella che identifica e
punisce i crimini di odio, e la cancellazione della legge Scelba, che
vieta la ricostituzione di un partito fascista, fanno parte del
programma politico di Forza Nuova.
E’ ovvio quindi che essi cerchino di sfruttare a loro vantaggio il brand Sentinelle in piedi.
Questa non è una guida al fascismo for dummies e do per scontato che sappiate perché è così importante essere antifascisti.
A dispetto delle dichiarazioni di
intenti di alcuni rappresentanti del brand (amore, libertà, rispetto e
giustizia), le reali finalità di queste persone sono la discriminazione e
l’oppressione di una parte dell’umanità. La loro si configura come una
resistenza alla tutela della libertà affettiva degli esseri umani. La
libertà di parola che essi vogliono difendere coincide con la libertà di
igiuria e di istigazione all’odio, entrambe sanzionate dalle leggi e
contrarie alla Costituzione. Le loro manifestazioni, benché si svolgano
in modo silenzioso e composto, sono atti intimidatori verso la società
civile e i legislatori che intendono adeguare alla realtà della
collettività l’ordinamento giuridico.
Mentre ero in strada mi è tornato in mente un epitaffio di Kipling che lessi al liceo, riguardava la Grande Guerra, diceva così:
Faithless the watch that I kept: now I have none to keep.
I was slain because I slept: now I am slain I sleep.
Let no man reproach me again; whatever watch is unkept—
I sleep because I am slain. They slew me because I slept.*
In questo scritto, intitolato Sleepy
Sentinel, la sentinella parla di sé stessa e racconta di essere stata
uccisa perché dormiva durante la guardia, adesso che è morta dorme e
nessuno può più rimproverarla per una guardia non fatta. Alcuni
suppongono che sia morta ammazzata dal fuoco nemico, i tedeschi, perché
sonnecchiava in trincea, in realtà la sentinella è stata ammazzata dal
proprio esercito, per aver disobbedito agli ordini ed essersi
addormentata in servizio, punizione prevista dallo Stato maggiore
inglese.
La poesia di Kipling è molto ironica e
l’associazione con la sua figura non è casuale, anche se le Sentinelle
non hanno certamente il carisma della poesia. La fede di Kipling nel
colonialismo, l’idea che l’Inghilterra avesse il diritto di
impossessarsi del mondo in ragione della propria superiorità razziale,
la presunzione del ruolo educativo e morale del colonizzatore, si
ritrovano perfettamente nella violenza delle Sentinelle e di chi le
supporta.
Se qualcuno ha ancora dei dubbi può esprimerli nei commenti.
Settembre
è il mese in cui le bambine e i bambini tornano a scuola, dal nido al
liceo. Riempiono le classi, cominciano nuovi quaderni, iniziano progetti
di decorazione delle aule nuovi di zecca. Cartelloni con il ciclo delle
stagioni, i mestieri, i pianeti e, di solito, anche con le regole della
classe. Quando andavo a scuola io non c'era questa abitudine, ma ho fatto caso che tutte le classi hanno questo cartellone oggi. Lo scrivono bambine e bambini assieme a maestre e maestri.
Le regole spesso coniugano insegnamenti della buona educazione con
quelli del vivere civile, da non si mangia con la bocca aperta a non si
prendono a calci i compagni, oppure ispirano solidarietà, bisogna
condividere la merendina con chi non ce l'ha - non manca il controllo
sul corpo, si va in bagno solo durante la pausa. La funzione è
quella di insegnare la democrazia, dicono, infatti ci sono le
discussioni, le regole vengono votate, c'è anche l'organizzazione
gerarchica, la maestra poi il/la capolcasse, il/la capofila, il/la
chiudifila. In tutto questo la maestra, da sola, fa da giudice, da
poliziotta, da guardiana, da educatrice, da direttrice, da zia e mamma,
da insegnante. Soprattutto, la maestra fa in modo che le regole che la classe si è data vengano rispettate da tutte e tutti.
Non so se siete mai entrati in una classe III o V con 20 bambini/e che
passano numerose ore della giornata dentro i banchetti, bambini piccoli o
no, ma pieni di energia, curiosi, a volte stanchi, a volte un po'
svogliati, insomma bambini. Bambini e bambine che spesso sfidano il
limite, ai/lle quali viene insegnata la disciplina a colpi di divisioni e
verbi da coniugare (anche per tre ore di fila). A volte questi
bambini sono davvero difficili da gestire, a volte la disciplina non
riesce a entrargli nelle ossa, si alzano tutt@ contemporaneamente, si
lanciano cose, dicono qualche atrocità, a volte si picchiano, a volte
sputano, a volte escono dalla classe e corrono nei corridoi. E' quello il momento in cui anche le maestre, probabilmente, sono più stanche.
La scuola ti porta via energie fisiche e morali, alcuni dicono che si
tratta di una missione, ma fai il missionario in territorio di guerra.
Allora alcune, perché questi piccoli e piccole cittadin@ della scuola
rispettino le leggi democratiche che si sono dati, danno uno spintone
lì, l'altra trascina per un braccio qui. Si urla molto, con tono
perentorio, dicendo cose come "asino", "stupido", "cretina". A volte,
impaurite dall'euforia della classe, in quei momenti di confusione in
cui volano quaderni e sedioline, sono costrette a dare un calcio, uno
schiaffo, a tirare i capelli urlando più forte ancora. Capita che questi momenti finiscano su un video, capita che quel video venga diffuso.
La prossima volta che uno di questi video in cui le maestre cercano
solo e unicamente di far rispettare le regole della classe, regole
stabilite democraticamente, verrà diffuso, mi aspetto che chi ha stostenuto l'opinione
per cui è giusto che si spari su un ragazzo, Davide, che non si ferma all'alt,
che chi ha sparato stava facendo onestamente il proprio lavoro, cioé un carabiniere addestrato che dovrebbe conoscere le leggi (l'art. 192 del CdS non prevede la pena di morte), mi
aspetto che, queste persone, abbiano la decenza di essere coerenti. Evitate di scrivere status indignati, evitate di chiedere la forca per la maestra. Siate coerenti con le vostre posizioni. Le maestre che prendono a calci i bambini fanno solo il loro lavoro. Il rispetto delle regole viene prima dell'integrità fisica e morale delle persone. Lo avete detto voi in questi giorni.
VARESE, "RE" DELL'ORO UMILIA LA SUA COMPAGNA E DECAPITA IL GATTO
Mirko Rosa arrestato per maltrattamenti e lesioni
Un gatto decapitato, la compagna umiliata e costretta anche a bere dalla
scodella del micio. Emergono inquietanti dettagli sull'arresto di Mirko
Rosa, imprenditore 40enne della nota catena compro oro "MirkOro",
avvenuto nei giorni scorsi a Castellanza, in provincia di Varese.
L'uomo, accusato di maltrattamenti e lesioni, è rinchiuso nel carcere di
Busto Arsizio da giovedì scorso. Il quotidiano "La Prealpina" ha
raccolto la testimonianza di Giacomo de Luca e di sua figlia Nadia,
compagna del manager. De Luca è l'uomo che lo ha aggredito facendolo
finire all'ospedale con una ferita all'arcata sopracigliare. La versione
della giovane - riferisce il quotidiano varesino - "è la stessa fornita
agli inquirenti", che ora stanno verificando la veridicità dei fatti.
Intanto, nella notte tra domenica e lunedì, è stato dato alle fiamme il
fuoristrada di Rosa.
Tutto sarebbe iniziato nella notte tra mercoledì
e giovedì, quando l'imprenditore avrebbe decapitato il gatto di casa,
un micetto di pochi mesi comprato qualche giorni prima. Successivamente
avrebbe mostrato il corpo senza vita alla convivente, minacciandola: "Ti
faccio fare la stessa fine". Questo sarebbe solo l'inizio di questa
scena da film dell'orrore. Successivamente Rosa l'avrebbe chiusa in uno
sgabuzzino, obbligandola a bere nelle scodella del micio. Poi, non
contento, l'avrebbe picchiata, minacciata di essere gettata dalla
finestra e forse anche costretta a subire un rapporto sessuale.
L'incubo
della 21enne sarebbe durato fino al mattino seguente, quando la giovane
- che aveva appuntamento con il pediatra per una visita alla bambina di
un anno - avrebbe detto all'uomo di liberarla e che, se non l'avesse
fatto, si sarebbe buttata dalla finestra. A quel punto l'imprenditore
dell'oro l'avrebbe fatta uscire di casa e lei si sarebbe rifugiata a
casa di alcuni amici.
Poi la lite tra il presunto aguzzino e il padre
della compagna. La prima telefonata tra Giacomo De Luca e Mirko Rosa
sarebbe stata alle 9 di giovedì. Durante la notte la 21enne aveva
mandato un messaggio al padre, prima che il compagno distruggesse il suo
telefono, ma De Luca aveva il telefono spento. Non appena Rosa e De
Luca sarebbero riusciti a parlare al telefono, la conversazione si
sarebbe subito scaldata. E, quando ha visto la figlia, il padre l'ha
subito portata dai carabinieri per sporgere denuncia. In caserma,
all'arrivo di Rosa, la colluttazione tra i due, finita con il "re
dell'oro" al pronto soccorso.
Non finisce qui. Perché, nella notte
tra domenica e lunedì di questa settimana, intorno alle 3, l'Hummer
giallo - simbolo della sfrontata ricchezza del "re dell'oro" - è stato
dato alle fiamme dopo essere stato cosparso di benzina. E il mistero su
questa torbida vicenda s'infittisce.
Iraq, massacro di donne a Bagdad. Forse uccise perché prostitute
Spedizione di un commando armato in un palazzo: 29 morti, tra cui venti donne. Le milizie sciite hanno in passato preso di mira le prostitute e i rivenditori di alcol
BAGDAD - Almeno 29 persone, tra cui 20 donne, sono state uccise questa sera in un palazzo di Zayouna, nella zona est di Bagdad. Il massacro è stato compiuto da uomini in divisia mimetica e abiti civili.
La polizia intervenuta sul posto ha trovato i corpi delle vittime riversi sulle scale, forse nell'atto di scappare o di nascondersi: "Quando siamo arrivati - ha raccontato un poliziotto alla Reuters - sulle scale abbiamo visto i corpi di un paio di donne, e sangue che scorreva giù dalle scale. Siamo entrati in un appartamento e abbiamo trovato cadaveri ovunque. Alcuni stesi sul divano, altri per terra. Una donna forse ha cercato di nascondersi in un armadio in cucina ed è stata freddata lì".
Le milizia sciite sono state in passato accusate di aver condotto omicidi mirati e raid armati proprio in quella zona della capitale ai danni di prostituite e di rivendite di alcolici, in una campagna contro la diffusione del vizio.
Voglio dire grazie a tutte quelle persone che “difendono la vita”.
Grazie agli obiettori e ai non obiettori che ‘hanno capito tutto’,
farmacisti/e, medici/he, infermieri/e, grazie alle sentinelle in piedi,
sedute e stese, grazie a chi prega per i “non nati”, grazie a chi
gestisce centri per “il dono della vita”, i quali diffondono volantini
con immagini (false) di feti abortiti o che si succhiano il dito e
depliant sulla “sindrome post aborto”. Grazie per i monumenti
cimiteriali e no, dedicati all’essere “madre di un figlio morto”. Grazie
ai preti e alle suore, laiche e consacrate. Grazie ai politici e alle
politiche che usano i “temi etici” come moneta di scambio. Grazie a
tutti quelli che nel web non mancano mai di esprimere il loro parere
contrario all’aborto delle altre – chiunque sia quell’altra – anche se
non hanno un utero… semplicemente rispondendo con un “contrario”, in un
sondaggio su facebook. E se gli fai notare che opinione per sé è diverso
da giudizio o imposizione sull’altr@, ti danno della fascista.
Grazie, perché abbiamo bisogno della vostra caparbietà e costanza. Senza
di voi rischieremmo di dimenticare che, in quanto donne, la dobbiamo
pagare cara e amara sempre, e non contiamo niente, siamo solo merce di
scambio, animale umano da fatica o compagnia – fino a quando culo e
zizza restano sodi - e da riproduzione: martiri della maternità da
ricordare con cinque minuti di silenzio, poi si va al mare a vivere la
propria vita.
Grazie. Senza di voi certi risultati non riusciremmo nemmeno a immaginarli.
“Se vuoi fare subito, due o tre giorni,
devi pagare questo. Se invece vuoi andare all’altro ospedale, non paghi
niente, ma c’è molto da aspettare”. Le intercettazioni ambientali ed il
video, che attesta anche un passaggio di denaro non lasciano spazio alle
interpretazioni. I tempi d’attesa, indefiniti, sono stati lo
spauracchio per numerose donne che hanno deciso di sottoporsi ad
intervento di interruzione volontaria di gravidanza in ospedale (quindi
una prestazione a carico del servizio sanitario nazionale), ma dietro
pagamento, pur di accorciare i tempi. Cento euro come tariffa standard
per un aborto in tempi rapidi – qualche giorno dopo la richiesta -
altrimenti bisognava attendere, non si sa quanto, rischiando di superare
il limite dei 90 giorni, termine oltre il quale non si può praticare
l’intervento. E’ quanto scoperto dai carabinieri di Cerignola
all’interno dell’ospedale “Tatarella” del centro ofantino, dove due
medici sono stati arrestati (ai domiciliari) e dovranno rispondere del
reato continuato di concussione in concorso.
Secondo l’accusa, i due – Osvaldo
Battarino e Giuseppe Belpiede, di 56 e 62 anni, il primo dirigente
medico responsabile del servizio di interruzioni volontarie delle
gravidanze del presidio ospedaliero ed il secondo quale direttore
dell’unità di anestesia e rianimazione della medesima struttura –
avrebbero chiesto alle donne che si presentavano per compiere
l’interruzione volontaria della gravidanza, di versare loro somme di
denaro in contanti (100 euro che i due indagati dividevano tra loro),
subordinando a questo pagamento l’effettuazione tempestiva dell’aborto,
il cui costo è però a carico del servizio sanitario nazionale.
L’indagine è partita alla fine del 2013
quando un uomo ha denunciato ai carabinieri di Cerignola che Battarino
(unico medico in servizio presso l’unità di ginecologia ed ostetricia di
Cerignola a non aver sollevato obiezione di coscienza all’esecuzione
degli aborti) aveva preteso il versamento di 100 euro in contanti per
effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza alla figlia. “Il
denunciante – spiegano nero su bianco i carabinieri – precisava che
nonostante avesse rappresentato al Battarino di fruire dell’esenzione
dal pagamento del ticket per la prestazione sanitaria, il professionista
aveva preteso la somma richiesta da ripartire in parti uguali con
l’anestesista spiegando che, in difetto, non avrebbe eseguito
l’intervento prima del compimento del novantesimo giorno di gravidanza”.
Le indagini hanno quindi accertato che
quello denunciato non era un caso singolo, ma che sussisteva un vero e
proprio sistema che subordinava la celere interruzione di gravidanza al
pagamento di somme di denaro. Così i due professionisti, sfruttando il
fatto di essere gli unici medici dell’ospedale di Cerignola a non essere
obiettori di coscienza, effettuavano gli aborti a pagamento, durante il
normale orario di servizio, nei locali e mediante le attrezzature
appartenenti alla struttura ospedaliera pubblica di Cerignola.
Dalle intercettazioni, inoltre, si evince
che Battarino dava ai colleghi la disponibilità ad intervenire
celermente, anche il giorno successivo alla telefonata, sempre che
pagassero la somma richiesta: “se tu vuoi io la posso fare pure domani
mattina. Se lei sa che praticamente io le faccio il certificato e la
visita di Belpiede sono cinquanta e cinquanta, non c’è problema, può
venire domani mattina”. Il Battarino riceveva, quindi, la paziente nel
suo studio e si faceva consegnare il denaro da dividere con
l’anestesista per effettuare l’intervento. L’indagine ha fatto luce su
venti casi riscontrati, tutti inseriti in un sistema di malaffare che
andava avanti da molto tempo, come dichiarato dallo stesso Battarino in
una conversazione intercettata dai militari dove il professionista
spiega al suo interlocutore il funzionamento del meccanismo: “Io faccio
500 interruzioni all’anno, da 25 anni. 500 all’anno, hai capito?”.